9
Tutto iniziò con le ecografie. Le macchine decretarono che non avevo figli nella pancia.
La dottoressa Uche fu la prima a farmi l’ecografia. Aveva occhietti piccoli che galleggiavano in un lago di lacrime che si rifiutavano di scendere. I lucciconi scintillarono ancora di più nel darmi la notizia.
“Signora Ajayi, non c’è nessun bambino.”
“L’avevo già sentita la prima volta, e anche la seconda” dissi.
Continuò a fissarmi con quei suoi occhi lucidi come se si aspettasse che facessi qualcosa. Piangere? Urlare? Saltare sul tavolo e cominciare a ballare?
Si protese sulla sedia. “Da quant’è che è incinta?”
“Pensavo che avesse detto che non c’è il bambino.”
La dottoressa Uche fece un sorriso cauto. Lo avevo già visto quel sorriso, sul volto di mio padre. Un sorrisetto come se la sua bocca si preparasse a emettere un potente grido di aiuto. Era il sorriso speciale che riservava alla sua terza moglie, quella che una volta era andata nuda al mercato. Quella che parlava sempre con qualcuno che vedeva solo lei.
“Posso vedere i risultati?” chiesi.
“Voglio parlare con lei di questa gravidanza” disse.
Ovviamente pensava che stessi perdendo la ragione.
“Ha sentito parlare di Perfect Finish?” le chiesi.
Lei annuì.
“Conosce la Capital Bank?”
“Sì, ho il conto lì.”
“Allora: io sono la proprietaria di Perfect Finish e mio marito è il direttore della Capital Bank. Sono laureata a Ife. Non sono una matta di strada. Perché vuole discutere della gravidanza con me quando ha appena detto che non c’è?”
La dottoressa Uche si mise la mano sulla fronte. “Signora, mi dispiace se la mia le è sembrata condiscendenza, ma sono preoccupata per la sua salute. Per la sua salute mentale.”
Disse salute mentale in tono così sommesso, come se avesse paura di sentire le sue stesse parole. Io ero preoccupata del suo, di stato mentale.
“Dottoressa, io sto bene. Mi faccia avere i referti. Ha tante pazienti che l’aspettano.”
Me li passò. “Succede... questo tipo di gravidanza... a chi non può avere... a chi non ha avuto figli. Succede: i sintomi ci sono ma il bambino no. Siamo d’accordo che lei non è incinta, giusto? Forse potrebbe vedere di nuovo un ginecologo in merito a questo problema? Vedo dalla sua cartella che le hanno già fatto un certo numero di esami, ma è possibile che se ne debbano fare altri.”
“Ci penserò.”
Uscii nel corridoio con la mano sullo stomaco leggermente gonfio, indifferente ai dubbi di Akin e della dottoressa. Mi sentivo come un palloncino gonfiato dalla speranza e da una creatura miracolosa. Pronta a fluttuare al di sopra dei reparti del Wesley Guild Hospital.
* * *
Akin si era messo a ridere quando gli avevo detto che Funmi voleva venire a stare con noi durante la gravidanza. Ci stavamo per mettere a letto; io già mi ero infilata la camicia da notte bianca e lui ancora si stava togliendo di dosso i vestiti dell’ufficio.
“Quella ragazza? E poi, di che gravidanza si parla, comunque? L’hanno confermata in ospedale?” Si tolse la cinta con uno scatto nervoso; e quella colpì il letto come una frusta.
“La dottoressa che ho incontrato non sa quello che fa. Ha bisogno di occhiali, te lo dico io, se non vede il bambino, ehn? Quel bambino che ha già cominciato a scalciare.”
“Scalciare?”
“Sì, adesso. Perché scuoti la testa? Scuotila bene, scuotila finché non ti cade dal collo. Vedrai.” Salii sul letto. “Quando avrò il mio piccolo tra le braccia sarai svergognato, tutti voi che pensate che non posso avere un figlio. Perfino quella stupida dottoressa sarà svergognata.”
“Lo sai che parli come una pazza, vero?”
“Che cosa dici?” Mi cullai la pancia e aspettai di sentire la sua risposta.
Lui rimase con addosso i boxer e si sdraiò accanto a me. “Yejide, per favore, abbassa la luce della tua lampada.”
“Che cosa volevi dire con le parole che hai appena pronunciato?”
Si girò sulla pancia e voltò il viso dall’altra parte.
“Akinyele? Io, io parlo da pazza?”
“Tu non sei gravida e Funmi non viene a stare qui. Adesso posso dormire?” Si tirò le coperte sulla testa.
Le sue parole scivolarono per la stanza e senza che me ne accorgessi mi si arrampicarono su per il corpo come tante formiche soldato. Poi mi punsero a sorpresa nelle prime ore del mattino, quando mi svegliai per urinare forse per la decima volta in quella notte. Mentre stavo seduta sul letto e sorseggiavo un po’ d’acqua dalla bottiglia quasi vuota che ormai tenevo sempre sul comodino, le sue parole tornarono ad assillarmi, scatenando delle domande.
Adesso ero incinta di circa quattro mesi, e avevo la pancia ogni giorno più grande, eppure mio marito aveva deciso di credere a un qualche medico incompetente. Continuava a ripetermi che gli sembravo pazza. Ma lui? Era cieco? Come faceva a non vedere la mia pancia? E la mia faccia gonfia? Anche chi non mi conosceva se ne accorgeva. Dovunque andassi mi salutavano: L’ojo ikunle a gbohun Iya a gbohun omo o – Che possiamo sentire la voce della mamma e quella del neonato quando partorirai. Gli sconosciuti mi facevano gli auguri e pregavano per la sopravvivenza mia e quella del bambino. La gente scendeva dai taxi pieni in modo che io potessi salirvi; e in banca non dovevo più fare la fila, mi facevano passare subito. Akin credeva che fossi una pazza che fermava la gente per strada per annunciargli la gravidanza? Dal giorno in cui ci eravamo sposati non gli avevo mai detto di essere incinta. E allora perché gli era così difficile credermi adesso?
Sdraiata sul letto, tenevo le dita incrociate sulla pancia. Mi sentivo pulsare la testa, come un principio di emicrania. Akin accanto a me si agitava e si rigirava nel sonno. Io guardavo il suo mento glabro e dovevo stringere i pugni per evitare di accarezzarlo. Lo stavo ancora guardando quando aprì gli occhi.
Se li strofinò col dorso della mano. “Non hai dormito?”
“Perché mi odi tanto?”
Si grattò il collo. “Hai ricominciato. Cerca di dormire, Yejide.”
“Se faccio un’analisi e risulta che sono incinta, mi crederai?” Cercai di leggere la sua faccia nella luce indistinta dell’alba. Ma non ci riuscii.
“Yejide, devi dormire di più. È troppo presto per queste cose.”
* * *
Avevo trasformato la stanza vuota accanto alla cucina in una stanza dei giochi. Avevo creato un posto speciale dove stare col mio bebè, uno spazio solo per noi due. Quella stanza non l’avevo messa in programma; l’avevo riadattata perché Akin aveva smesso di parlarmi e anche di andare a trovare Funmi la sera. Si piazzava invece in sala a guardare il notiziario e leggere i giornali, ma sempre senza parlarmi anche se ero seduta accanto a lui. Alle mie domande rispondeva con un grugnito, agli insulti col silenzio.
Rinunciai a cercare di provocarlo o persuaderlo a parlarmi, e me ne stavo nello stanzino invece che nel soggiorno. Sistemai per terra i giocattoli che avevo comprato per il bambino, portai lì la mia poltrona imbottita, mi comprai i miei giornali così da avere qualcosa da leggere mentre aspettavo che suonasse il timer in cucina. In quella stanza, circondata da orsacchiotti e sonagli colorati, lessi dei militari che erano stati accusati di aver ordito un colpo di stato. Fui attratta dal profilo di due di quegli uomini. C’era il colonnello Christian Oche, dottorando alla Georgetown University negli USA, che aveva ricevuto dal Comando supremo l’ordine di rimpatriare. Mi chiesi che vita sarebbe stata la sua se non lo avessero richiamato e avesse potuto concludere la sua tesi di dottorato. Forse avrebbe letto di quell’episodio nell’angolo in basso a destra di qualche giornale americano. Mi chiesi anche se, salendo sull’aereo diretto a Lagos, avesse provato una tristezza debilitante, ignorata fino a quando non era stata superata dall’eccitazione di tornare a casa.
E poi c’era l’uomo il cui destino affascinava il paese, il generale di divisione Mamman Vatsa, ministro in carica, poeta pluripremiato, e amico intimo del capo di Stato. Vatsa e Babangida erano amici d’infanzia, poi compagni di classe alle medie; erano entrati nell’esercito lo stesso giorno ed erano stati assegnati a battaglioni vicini nella guerra civile. Babangida era perfino stato testimone di nozze di Vatsa.
In quel periodo passavo più tempo nella camera dei giochi che in qualsiasi altra parte della casa, ma quando lessi di Vatsa, Oche e altri undici condannati a morte, mi sedetti in soggiorno con Akin e cercai di parlare della cosa con lui. Ma Akin continuava a riportare la conversazione sulla mia pancia gonfia, così me ne tornai di là senza neanche chiedergli se secondo lui l’incontro di Wole Soyinka, Chinua Achebe e J.P. Clark con Babangida poteva essere utile. L’appello alla clemenza da parte degli scrittori mi sembrava una buona cosa; dopo tutto non c’era stato nemmeno un vero tentativo di golpe. Gli uomini erano stati processati per le loro intenzioni. Il giorno dopo piansi nel leggere che dieci di quegli uomini, tra cui Vatsa e Oche, erano stati giustiziati. Vatsa fino alla fine aveva proclamato la sua innocenza, ma ci sarebbero voluti anni prima che altri militari riesaminassero le prove in base alle quali era stata eseguita la condanna. Allora, la Nigeria era ancora in piena luna di miele con Babangida, e come la maggior parte delle giovani mogli non faceva ancora veri interrogatori.
Non andai in salotto quando il segretario della Difesa annunciò le esecuzioni, ma lo sentii dalla stanza dei giochi perché Akin aveva alzato il volume. Io volevo andare da lui, non per parlare ma solo per stargli vicino e per sentirmi stringere il braccio. Ma avevo paura che mi avrebbe fissato la pancia muto e con l’espressione di uno che guarda il vomito.
Alla fine, il gelido silenzio di Akin si sciolse in calde parole bisbigliate. Venne perfino qualche volta nella stanza dei giochi. Le sue parole occuparono tanto spazio in quella stanza che mi diventò difficile respirare. Da quando gli avevo detto di essere incinta, aveva chiuso la bocca sul bambino, ma quando veniva nella stanza era quella l’unica cosa di cui voleva parlare. Voleva istillarmi un po’ di ragionevolezza, ma i suoi sermoni erano disseminati di domande alle quali ben presto smisi di rispondere. Mi chiese più di una volta se pensavo che mio figlio avrebbe salvato il mondo. Mi chiese se avevo visioni del bambino e poi di descrivergli gli angeli che avevo visto, anche dopo che gli avevo detto di non aver mai visto un angelo in vita mia. Una sera mi chiese se pensavo che mio figlio avrebbe avuto superpoteri e allora decisi che ne avevo abbastanza. Il giorno dopo andai al negozio solo per avvertire le ragazze che sarei tornata l’indomani. Poi andai alla clinica universitaria di Ife.
Quando arrivai mancava la corrente. Dopo aver preso il mio appuntamento, l’infermiere mi disse che il generatore non avrebbe funzionato fino alle due del pomeriggio e poiché c’erano altre donne in fila prima di me non avrei visto il medico fino a dopo le tre. Erano le undici del mattino e decisi di andare al mercato a comprare cose di cui avevo bisogno per il salone. Presi gli shampoo e i fissatori che usavo abitualmente e poi mi fermai a comprare un vaso da fiori di legno che sarebbe stato bene nella stanza dei giochi.
Stavo andando via dal mercato quando una mano mi afferrò il polso. Mi voltai e mi trovai faccia a faccia con Iya Tunde, la quarta moglie di mio padre, che non vedevo dal funerale di papà.
“Yejide, allora sei tu? Ti ho vista ma mi sono detta: no, non può essere Yejide, Yejide non passerebbe al mercato senza venire al mio banco. Così va il mondo, ormai? Una figlia può andare al mercato senza passare dal banco della madre?” disse lei.
“Buon pomeriggio, Iya Tunde.” Non potei fare a meno di ricordarle che lei era Iya Tunde, non mia madre. “Come vanno gli affari?”
“Preghiamo Dio che sia un buon giorno di mercato. E poi lo ringraziamo perché non moriamo di fame.”
I primi mesi dopo aver sposato mio padre, Iya Tunde vendeva frutta in una piccola baracca dietro casa nostra. Quando rimase incinta mio padre la trasferì al banco che aveva messo su per Iya Martha al mercato e chiese loro di condividerlo, perché una donna incinta doveva avere ombra e spazio in abbondanza per fare il suo lavoro. Promise a Iya Martha che avrebbe costruito un altro banco tutto per lei, da un’altra parte. Non so come ci sia riuscita, ma per la fine dell’anno Iya Tunde si era impadronita del banco e Iya Martha era passata a vendere la sua mercanzia nella baracca di legno dietro casa. Mio padre non costruì mai il banco che le aveva promesso.
“Saluta tutti a casa da parte mia” dissi. “Devo scappare.”
“Aspetta, aspetta, voglio rallegrarmi con te! Vedo che adesso sei due in una? Sei incinta!”
“Grazie a Dio.”
“Tua madre non dorme, lassù in cielo. Prega per te. Anche se non ha una stirpe, o almeno noi non conosciamo la sua stirpe, adesso è chiaro che è una buona madre.” Non poteva lasciarmi andar via senza punzecchiarmi. Secondo mio padre, mia madre faceva parte di un gruppo di nomadi Fulani quando era rimasta incinta di lui e si era rifiutata di continuare a viaggiare con la sua gente. Ma le mie matrigne sarebbero morte continuando a chiamarla donna di “stirpe sconosciuta.”
“Davvero devo scappare.”
“Ricordati di venirci a trovare qualche volta. Fai vedere la tua faccia di tanto in tanto. Dopo tutto è sempre la casa di tuo padre.”
Ogni volta che sposava una nuova donna, mio padre diceva ai figli che la famiglia serviva ad avere qualcuno che ti cercasse se ti rapivano e poi aggiungeva che stava mettendo insieme un esercito, semmai uno di noi fosse stato rapito. Era una battuta scema e io ero l’unica a ridere. Ridevo sempre di tutte le sue battute. Penso che credesse al mito della sua grande famiglia armoniosa. Forse immaginava che avrei continuato a vedere le mie matrigne anche dopo la sua morte.
“Addio, Iya Tunde.”
“Addio! Saluta tuo marito da parte mia.”
Le borse di plastica che portavo improvvisamente mi sembrarono pesanti. E fu un sollievo quando il controllore me le prese per aiutarmi a salire sull’autobus. Avevo lasciato la macchina in ospedale per evitare di affaticare troppo il vecchio motore. Cercavo di rimuovere i pensieri sulla mia infanzia solitaria, mi accarezzavo la pancia e mi tranquillizzavo. Non dovevo avere paura. Anche se Funmi avesse finito per portarmi via Akin, presto avrei avuto qualcuno solo mio, la mia famiglia.
Arrivai appena in tempo per l’appuntamento.
Dopo l’ecografia, il dottor Junaid si schiarì la gola. “Da quant’è che è incinta?”
“Da circa sei mesi.”
“Quando ha fatto l’ultima ecografia?” Scrisse qualcosa sulla scheda che aveva davanti.
“A tre mesi, tre mesi fa. Mi ha visitato una dottoressa molto giovane che forse per quello sbagliava, per scarsa esperienza.”
Smise di scrivere e mi guardò. “Ah, pensa che abbia sbagliato?”
“Sì, è per questo che sono qui. Per avere una conferma. Diceva che il bambino non c’era.” Mi accarezzai la pancia sporgente. “Lo vede da solo e sono certa che non è kwashiorkor.”
E risi, ma il dottor Junaid non rise.
“Ha incontrato uno specialista per la fertilità? Ha visto qualcun altro prima di pensare che, ehm... era incinta? Ha fatto altre analisi?”
“Sì, certo. Ho visto qualcuno a Ilesa, e ho fatto tutte le analisi. Dicevano che ero a posto.”
“E suo marito? È andato da uno specialista?”
“Sì, c’è andato.”
Eravamo andati insieme in ospedale, una volta. Alle domande del medico aveva risposto quasi sempre Akin, e quando il dottore aveva chiesto com’era la nostra vita sessuale, mi aveva preso la mano prima di rispondere e mi aveva accarezzato il pollice dicendo: La nostra vita sessuale è normale, perfettamente normale.
Il dottor Junaid chiuse la scheda su cui stava scrivendo e si protese verso di me. “Quindi suo marito ha fatto le analisi? Gli hanno fatto degli esami e...?”
“Sì, sì” dissi. “Senta, dottore, che mi dice del bambino?”
“Signora” disse tamburellando sulla scrivania, “non c’è nessun bambino.”
Battei tre volte le mani e dissi ridendo. “Ma dottore, è cieco? Non voglio offenderla, ma non mi vede?”
“Per favore, mi lasci spiegare. Queste cose a volte succedono. Le donne credono di essere incinte ma non lo sono.”
“Ma senti questo. Io non credo di essere incinta. Io so di essere incinta. Non ho le mestruazioni da sei mesi. Guardi la mia pancia. Ho perfino sentito il bambino scalciare! Io non penso di essere incinta, dottore. Lo sono. Non lo vede? Sono incinta.”
“Signora, la prego, si calmi.”
“Me ne vado. Non capisco nemmeno se sono le macchine con cui lavorate che non funzionano o le vostre teste.”
Me ne andai sbattendo la porta.
* * *
Quando la gravidanza toccò gli undici mesi, decisi di andare alla Montagna degli Stupefacenti Miracoli. Quel giorno Akin era a Lagos per una riunione di lavoro, ci era andato insieme ai colleghi con l’auto aziendale. Presi la sua macchina per raggiungere la pianura ai piedi della montagna. Quando arrivai c’era un’unica automobile nello spiazzo, una Volvo parcheggiata all’ombra di un mandorlo. Riconobbi la targa della signora Adeolu.
Mentre salivo, tutto intorno era fermo e tranquillo. Ci misi più di due ore per arrivare in cima perché ogni tanto mi mettevo seduta su una roccia e bevevo un po’ d’acqua dalla bottiglia che mi ero portata. Il sole era implacabile. Il sudore mi colava giù dalla schiena e s’infilava nelle pieghe del sedere. Per farmi arrivare un po’ d’aria sulla pelle, ogni tanto davo qualche strattone alla scollatura del vestito.
Quando arrivai in cima, non vidi anima viva. Mi aggirai fino a che non trovai una lavagna di legno su cui qualcuno aveva scribacchiato in fretta: Profeta Josiah in viaggio. Tornare il mese prossimo per miracolo. Peggio per il Profeta Josiah, mi dissi tastando il mucchio di banconote che avevo portato: pensavo di dargli un po’ di soldi. Non mi aveva chiesto niente la prima volta e avevo pensato che fargli un regalo potesse essere una buona idea. La bottiglia d’acqua ormai era vuota, io ero disidratata e mi sentivo svenire. Temendo un collasso durante la discesa, feci il giro della cresta, sperando di trovare una bottiglia abbandonata, e pregando di non prendermi il colera se avessi trovato qualcosa. E fu allora che mi imbattei nella baracca – quattro assi di legno sistemate a formare un rettangolo approssimativo, e una copertura di foglie di palma.
Nella baracca, il Profeta Josiah e la signora Adeolu facevano l’amore. Vedevo la faccia di lei; aveva gli occhi chiusi in una specie di estasi. Il caratteristico cappellone del Profeta stava per cadere e le sue vesti tirate su attorno alla vita mettevano in mostra le natiche in movimento. Le sue gambe nude erano ossute.
* * *
Me ne andai prima che i due potessero vedermi e passai i due mesi successivi a casa, in attesa dell’arrivo del nascituro. Smisi di andare al negozio e lasciai ad Akin di occuparsi della mia prima aiutante, quando la sera veniva a fare il rendiconto della giornata. Non cucinavo e non badavo alla casa. Akin comprava da mangiare dai buka, in città, e si sedeva con me nella stanza dei giochi per essere sicuro che mandassi giù qualcosa. Comprava anche giornali che io non leggevo. Una mattina gli dissi che conservavo le mie energie per essere in grado di spingere il giorno del parto. Lui non mi disse che non c’era nessun bambino e nemmeno mi chiese perché non avevo cominciato al termine dei nove mesi di gravidanza. Mi baciò sul mento e andò al lavoro, ma quella sera rientrando mi spiegò che, se volevo essere forte per il bambino, dovevo essere attiva. Non accennò a psichiatri e non aveva il tono di uno che scherza o asseconda una pazza. Mi parlò come avrei voluto che mi parlasse da un pezzo, come un padre in attesa. Io accolsi il suo consiglio e il giorno dopo tornai al lavoro.
* * *
Un sabato pomeriggio, aprii la porta di casa e mi trovai davanti Funmi, circondata da varie borse e scatoloni. Il taxi che l’aveva scaricata ripartì alzando una nuvola di polvere.
“Spostati e fammi passare” disse.
Rimasi sulla porta come una guardia mentre lei si fiondava dentro. La osservai trascinare all’interno le sue borse una dopo l’altra, sparpagliandole per il salone. Portava un boubou blu scuro e una sciarpa della stessa stoffa, avvolta come una fascia attorno alla testa pettinata a treccine. La sua pelle luminosa riluceva al sole che entrava a fiotti dalla porta aperta.
“Dov’è la mia camera?” disse quando ebbe finito con le borse.
“In questa casa? Te la sei sognata?”
“Tu, donna – ho sopportato abbastanza per te. Adesso basta con le cretinate. Questa è anche la casa di mio marito. Perché dovresti tenermi fuori?” Si tolse la sciarpa e se la legò in vita. “Perché? Sei una donna cattiva, ti avevo chiesto di farti un po’ in là, perché potessimo sederci entrambe. Ma se non stai attenta, ti sbatto giù dal sedile.”
“Senti, non sono mica io che ti ho sposata. Il tuo cosiddetto marito non c’è. Quando torna gli potrai fare le tue stupide domande.” Le indicai la porta. “Adesso, fuori da casa mia!”
“Sai una cosa? Vedo che muovi la bocca ma non sento una parola. Stai a sentire me: c’è una cosa sola che può farmi uscire di qui. Una sola!”
“Ho detto: fuori!” dissi battendomi la mano sulla coscia a ogni parola.
“La sola cosa che può indurmi a lasciarti in pace è che ti tiri su la camicia e mi fai vedere la pancia. Questa tua gravidanza ormai dura da più di un anno. Fammi vedere, perché in tutta la città si sente dire che è una zucca quella che porti sotto le vesti. Sì, sei stata sputtanata.” E rise. “Ma puoi dimostrare che sbagliano, che i maligni sbagliano. Fammi vedere la pancia e ti lascio in pace. Dai, lo giuro su Dio.”
Mi misi una mano sotto il mento e posai l’altra sulla pancia tesa.
“Allora che dici?”
Cosa avrei potuto dirle? Che la mia gravidanza era vera? Ancora non mi erano tornate le mestruazioni e se avessi alzato la camicia e aperto il telo non si sarebbe sentito il rumore della zucca che finiva per terra, né mi sarebbe caduto un cuscino. Funmi avrebbe visto la mia pancia gonfia e tesa, e le smagliature che la decoravano. Avrei potuto dire che la mia gravidanza non era vera, che le ecografie, una dopo l’altra, avevano detto che non c’era niente anche se i calci del bambino mi svegliavano tutte le notti. Che alcune delle mie lavoranti pensavano fossi pazza e l’ultimo medico mi aveva prescritto una visita psichiatrica.
Ma di tutto questo non potevo dire niente: non mi restava che una cosa, da dirle. Quella che lei non si aspettava. Chiusi la porta e mi girai verso di lei. “Seguimi. Ti mostro la tua stanza.”
L’accompagnai nella stanza dei giochi.
Non ero scema, sapevo che era solo questione di tempo prima che Moomi si presentasse per fare in modo che quella si trasferisse da noi. Litigando con Funmi avrei solo peggiorato le cose. Moomi poteva chiedermi di andarmene e anche se Akin continuava a dire che mi amava, io non gli credevo più. Però volevo credergli. Non avevo madre, né padre, né fratelli. Akin era l’unico al mondo che si sarebbe accorto se fossi scomparsa.
Oggi mi dico che è quello il motivo per cui mi sforzavo di accettare ogni ulteriore umiliazione: per avere qualcuno che venisse a cercarmi, se fossi scomparsa.