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Un lunedì pomeriggio Linda, la mia segretaria, entrò in ufficio per consegnarmi una lettera. Di solito guardavo la posta la mattina, dopo aver letto i titoli dei giornali e prima della riunione quotidiana con il direttore esecutivo.

“Questa è appena arrivata, signore” disse Linda prima che potessi chiederle come mai la lettera non era stata inserita nella cartellina della posta che lei stessa mi metteva sulla scrivania tutti i giorni, prima del mio arrivo.

Esaminai la busta e riconobbi all’istante la calligrafia in corsivo. Tutti i francobolli recavano la scritta Australia 45c sopra all’immagine di un topo dalla coda lunghissima. Lacerai la busta per estrarne l’unico foglio, che aprii con cura.

Fratello mi,

Come stai? Come avrai capito dal francobollo, io adesso vivo in Australia. Sono appena arrivato, la scorsa settimana. Per favore, fai sapere a Moomi che sto bene.

Inizio col dirti grazie per tutto quello che hai fatto per me quando sono rimasto senza lavoro. Prima di partire non ho avuto la possibilità di ringraziarti. Voglio che tu sappia quanto ti sono grato per tutti i tuoi sforzi nell’aiutarmi a trovare un altro posto e rimettermi in sesto. Ti sono davvero riconoscente per avermi offerto un tetto quando avevo perso tutto.

Riguardo a quello che è successo prima che lasciassi la Nigeria, voglio che dimentichiamo tutto quanto. Non possiamo continuare a litigare per quella cosa, capisci? Siamo fratelli, sangue dello stesso sangue. Puoi divorziare da una donna, non dalla famiglia. Ancora mi stupisce che tu non abbia neanche voluto ricevermi quando sono venuto al tuo ufficio. Posso giustificare quello che è accaduto a casa tua: eri arrabbiato, e mi hai picchiato. Questo posso dimenticarlo, possiamo lasciarci tutto alle spalle e andare avanti. Ma dal modo in cui mi hai fatto cacciare dal tuo ufficio, si direbbe che su questa cosa tu voglia avviare una vera faida. Fratello mi, mettiamo le cose in chiaro. Tu non puoi combattere contro di me. Non puoi fare la guerra alla famiglia.

Yejide è ancora con te? Se ti ha lasciato mi dispiace, perché so che la amavi. O almeno credo che tu l’abbia amata. Ma non puoi dare la colpa a me se se n’è andata. Il tuo matrimonio era già pieno di problemi. Lei è una donna così comprensiva. Ti avrebbe ascoltato e compreso, di questo sono certo. Non era mia intenzione raccontarle qualche segreto, ero convinto che tu le avessi detto tutto, non solo mezze verità. Avevo dato per scontato che gliel’avessi detto, come avevi promesso.

È facile parlare con lei. È facile amarla.

E comunque la cosa importante è che dobbiamo perdonarci e lasciarci tutto alle spalle. Quanto a me, ti ho già perdonato.

Conto di avere molto presto tue notizie.

Rispettosamente tuo,

Dotun

Pensai di infilare la lettera nel tritacarta, invece la strappai, in pezzettini minuscoli. Mi chiesi se avesse detto a Yejide che lasciava il paese, e se fosse stata lei a dargli i soldi per l’aereo. Il Dotun che conoscevo io era al verde. Non riuscivo a immaginare come avesse fatto ad andare da qualsiasi parte senza il mio aiuto.

Le lettera di Dotun era destabilizzante, ma rispondeva all’unica domanda che avrei voluto fargli dopo averlo sorpreso con mia moglie. Mi diceva che era stato tanto stupido da parlare di me con Yejide. Io mi chiedevo da allora quanto lei sapesse, e avevo quasi finito per concludere che Dotun le avesse già svelato i segreti che gli avevo confidato. Lo si capiva dal suo atteggiamento di sfida, dal suo trasferimento in un’altra camera, dal modo in cui mi aveva guardato negli occhi quando li avevo interrotti. Ma avevo continuato a sperare che Dotun avesse tenuto chiusa quella ciabatta. Pensavo che tutto quello che avevamo passato fosse sufficiente a scatenare la collera di Yejide, e mi ero convinto di aver spiegato così il suo silenzio, quel disprezzo che continuava a velare il suo sguardo.

Ero riuscito a persuadermi, prima della lettera di Dotun, che se lei avesse saputo mi avrebbe affrontato, mi avrebbe offerto la possibilità di spiegarmi. Non che avessi niente da dire – è probabile che le avrei raccontato altre bugie. Ma solo perché ancora speravo; avevo sempre sperato che sarebbe cambiato tutto e le bugie avrebbero perso importanza. Mi facevo ancora seguire da uno specialista del Policlinico di Lagos, e lui si era mostrato moderatamente ottimista. Le sue prudenti osservazioni mi avevano messo le ali ai piedi, e mi ero detto che ormai era questione di giorni, che lo specialista in questione faceva miracoli. Avremmo trovato il giusto cocktail di farmaci e tutto sarebbe andato per il meglio. La speranza era sempre stata il mio oppio, quello da cui non riuscivo a disintossicarmi. Per quanto male andassero le cose, avevo trovato la maniera di illudermi che persino la sconfitta fosse il segno che avrei finito per vincere io.

Nelle settimane successive all’arrivo della lettera ebbi la sensazione che la nostra casa si fosse rimpicciolita. Sembrava minuscola, troppo piccola per evitare di imbattermi di continuo in Yejide. Per la prima volta da quando si era spostata nell’altra camera, fui felice di ritrovarmi da solo nel letto. Smisi di mangiare quello che lei mi lasciava pronto, chiedendomi per qualche giorno se non avesse inteso avvelenarmi, per punirmi senza dovermi nemmeno affrontare.

Mi vergognavo troppo per poterla forzare a quel confronto che avevo temuto e cercato di scongiurare fin dalla prima volta che l’avevo vista, quando avevo deciso che nulla mi avrebbe impedito di passare con lei il resto della vita. Uscivo di casa in modo furtivo, andavo a lavorare presto e rientravo tardi. Passavo i fine settimana da solo in camera mia, ripensando a tutte le mie scelte, ripercorrendo a ritroso tutti i miei passi, chiedendomi se avevo davvero avuto scelta, se c’erano cose che avrei potuto fare in modo diverso. Prima ancora di essermi del tutto ripreso dalla prima lettera di Dotun, ne arrivò un’altra.

Fratello mi,

come stai? E come sta Moomi? Hai notizie di Arinola e di suo marito?

Io ho trovato lavoro qui, guadagno qualcosa. Sono piccole somme, ma me la cavo.

So che hai avuto la mia ultima lettera. Perché non mi scrivi? Come faccio a convincerti a scrivermi?

Fratello mi, permettimi di cercare di spiegarti la storia dal mio punto di vista. La prima volta che ho fatto sesso con tua moglie, è stato per salvare il tuo matrimonio. Ancora sto aspettando i tuoi ringraziamenti, razza di ipocrita. Avevo persino chiuso gli occhi quel giorno, mentre si spogliava. Pensa, la prima volta avevo cercato di baciarla, non perché lo desiderassi particolarmente ma perché sembrava la cosa giusta da fare per farlo assomigliare meno a uno stupro. Abbiamo avuto un rapporto casto, come quello che si vede negli home video, completamente coperti dalle lenzuola come se ci stesse guardando qualcuno. Ero sinceramente convinto che tu le avessi spiegato tutto, come avevi promesso. E quando ne ho parlato con lei per la prima volta, è stato solo perché tu eri via e lei aveva appena saputo che Sesan aveva l’anemia falciforme. Capivo che aveva bisogno di parlarne con qualcuno, tutto qui. La desideravo? A essere sincero con te e davanti al tuo Creatore, sì. Ma se le ho detto tutto, non è stato per tradire te. Credevo lo sapesse già. Fratello mi, non so cos’altro potrei dire.

Ajoke si risposa. Sposa un generale di divisione. Si chiama Garuba e ha già tre mogli. Non è stupida, la mia ex moglie, a sposare un militare proprio mentre stanno perdendo il potere? Lei dice che i bambini verranno qui per le vacanze. Immagino che le spese le coprirà il generale.

SCRIVIMI. Aspetto una tua lettera.

Rispettosamente tuo,

Dotun.

P.S. Quando scrivi, dimmi delle elezioni presidenziali. Qui non ho modo di tenermi al corrente sulla situazione reale in Nigeria. Voglio sapere come stanno le cose.

Non ero arrabbiato mentre infilavo la seconda lettera nel tritacarta. La vergogna che provavo non lasciava spazio ad altro, neanche alla speranza. Non ero più in collera con mio fratello; stavo già cominciando a capire che tutta quella rabbia era stata solo un’affettazione. Me ne ero servito per difendermi dalla vergogna. La collera è più comoda della vergogna.

* * *

È stata Rotimi a salvarmi dalla disperazione, ad aiutarmi a ritrovare la via della speranza. Una sera tornando dal lavoro – in realtà erano le prime ore del mattino, quasi le due – entrai in camera mia e la trovai addormentata nel lettino. All’inizio pensai che Yejide fosse tornata in camera nostra, perciò bussai alla porta del bagno, per poi aprirla lentamente non avendo ricevuto risposta. Ma lei non c’era.

Uscii in corridoio, aprii per metà la porta della nuova camera di Yejide, provai un certo sollievo vedendola lì, che dormiva nel suo letto. Tornai nella mia stanza, chiedendomi quale messaggio stesse cercando di far passare, riportando il lettino di Rotimi in quella che una volta era la stanza matrimoniale. Non avevo le energie per pensarci. Mi spogliai, restando in boxer, mi infilai a letto e mi addormentai.

Rotimi mi svegliò alle cinque. Rimasi a letto, non stupito dai vagiti ma aspettandomi che smettessero senza il mio intervento, com’era sempre successo prima. Il pianto proseguiva, ma sempre più irato e forte, finché stentai a credere che potesse essere prodotto da una cosina tanto piccola. Mi alzai, chiedendomi cosa ne avrei fatto di lei dopo averla presa in braccio. Il primo istinto fu di portarla da Yejide, ma non fu necessario. Rotimi smise di piangere appena fu tra le mie braccia.

Era silenziosa ma tesa, respirava dalla bocca, agitava i pugni, sbatteva di continuo le palpebre. Quando si fu calmata, chiuse la bocca e mi poggiò la testa sul petto, e io decisi di rimetterla giù. Ma appena la lasciai ricominciò a strillare. La presi di nuovo e si zittì. Strillava se cercavo di rimetterla a letto, se mi sedevo, se mi sdraiavo tenendomela sul petto. Mi ci volle un po’ per capire cosa voleva: stare in braccio con me in piedi. Non riprese sonno per un’altra ora. Rannicchiata addosso a me, non faceva niente, si limitava a sbadigliare e a guardarmi in faccia. Dopo che si fu addormentata non la misi giù: il suo peso, e il calore del suo respiro sul mio petto, mi davano un certo conforto. Era passato un pezzo dall’ultima volta che ero stato tanto vicino a un altro essere umano. Mi appoggiai al muro, tenendola in braccio senza fare altro finché, verso le sette, Yejide entrò, me la prese senza dire una parola, e se ne andò.

Quella sera tornai a casa verso le nove. Da quando avevo ricevuto la lettera di Dotun, era la prima volta che rientravo prima della mezzanotte. Yejide era in camera mia, con Rotimi. Appena entrai si alzò e me la consegnò.

“Se piange prima delle undici, dalle un po’ d’acqua” disse indicando il comodino sui cui aveva messo due thermos e alcuni biberon. “O un po’ di pappina, le piace con il latte. Nella borsa per terra ci sono i pannolini.”

Posai la valigetta per poter prendere la bambina con tutt’e due le mani, stupito che sua madre mi rivolgesse la parola.

“Non venire a disturbarmi. Voglio dormire. Verrò a prenderla domattina” disse, uscendo dalla camera.

Così, da quel giorno in poi, non vedevo l’ora di tornare a casa. Yejide non si preoccupò di illustrare il numero crescente di articoli da neonato che lasciava nella mia stanza; si limitava a consegnarmi Rotimi appena varcavo la soglia.

Tutte le mattine alle cinque Rotimi mi svegliava. Il suo pianto era puntuale come un orologio. Io mi appoggiavo al muro e la tenevo in braccio per circa un’ora. Tutti i giorni osservavo la sua faccia, la guardavo negli occhi e percepivo una sorta di fede, sapendo fin da allora che questa sarebbe sopravvissuta, sarebbe rimasta. Non era una bambina giocherellona; c’era già un che di serio nel modo in cui atteggiava il mento. Ciangottava di rado. All’inizio le nostre veglie mattutine erano silenziose, purché non cercassi di sedermi o di rimetterla giù. E poi una mattina mi guardò, con il mento appoggiato al pugno come se stesse riflettendo su quello che stava per dire, e pronunciò “Baba.” Lo disse altre due volte prima di riaddormentarsi, come se avesse saputo che avevo bisogno di risentire quella parola. Ogni volta era come un’assoluzione. Quella semplice parola alleviava almeno un poco il peso opprimente delle lettere di Dotun e di tutti i miei errori.

Era come se mi avesse fatto un regalo, c’era qualcosa di quasi divino nella precisione della sua tempistica. Mi rivendicava come suo padre. Certo, era solo una lattante che nulla sapeva del modo in cui funziona il mondo. Ma comunque mi rivendicava come padre. Mi sentii in dovere di darle in cambio qualcosa di me, di forgiare un legame che durasse per tutta la nostra vita. Cominciai a raccontarle delle storie sottovoce, le favole che Moomi raccontava a Dotun, Arinola e me.

Non avevo una favola preferita, ma ce n’era una che ancora ricordo di averle raccontato molte volte. Moomi spesso iniziava una fiaba con un motto. Per questa, cominciava sempre dicendo: Olomo lo l’aye – Chi ha dei figli è il padrone del mondo.

Nel tempo delle favole, quando quasi tutti gli animali camminavano eretti mentre gli uomini ancora tenevano gli occhi vicini alle ginocchia, Ijapa la tartaruga maschio si prese una moglie di nome Iyannibo.

Si amavano molto e vivevano insieme felici e contenti. Avevano solo ciascuno l’amore dell’altro: non avevano figli, nemmeno un figlio unico. Per molti anni pregarono Eledumare di dar loro un figlio, ma non ne vennero. Iyannibo piangeva ogni giorno. Ogni giorno la gente la prendeva in giro, ovunque andasse, indicandola a dito e ridendo alle sue spalle al mercato.

Iyannibo voleva un figlio più di qualsiasi altra cosa, più della sua stessa vita. Così un giorno Ijapa, stanco di vedere piangere la moglie, partì per un paese lontano dove c’era un potente Babalawo. Dovette attraversare sette montagne e sette fiumi per arrivare a quel paese lontano. La strada era lunga, ma a Ijapa non importava. Questo Babalawo era il più potente del mondo, a quell’epoca. Ijapa era certo che, semmai c’era una soluzione sotto il cielo, l’avrebbe trovata dal Babalawo.

Quando Ijapa arrivò dal Babalawo, lo supplicò di aiutarlo. Il Babalawo preparò un pasto. Lo mise in una zucca e disse a Ijapa di riportarlo a sua moglie. Gli garantì che sua moglie, dopo aver mangiato, sarebbe rimasta incinta. Avvertì Ijapa di non assaggiare la pietanza né aprire la zucca prima di arrivare a casa. Ijapa ringraziò il Babalawo e partì con il suo pasto.

Lungo la via per tornare a casa, Ijapa dovette di nuovo attraversare sette montagne e sette fiumi. Il cibo aveva un profumo delizioso, il sole scottava e lui era stanco. Dopo la terza montagna, si fermò sulla riva del terzo fiume per riposare e bere un po’ d’acqua. Non c’era niente da mangiare, nessun albero da frutto nei dintorni, nemmeno dell’erba. Ijapa moriva di fame.

Decise di dare un’occhiata al cibo, appena una sbirciatina. Non aveva intenzione di mangiare niente: voleva solo vederlo. Aprì la zucca e vide che era asaro. Ed era un asaro molto ben condito; oltre allo yam pestato e all’olio di palma, c’era del pesce, e poi carne, verdure e crostacei.

Ijapa era tentato. Gli brontolò fortissimo lo stomaco. Ma pensò alle braccia vuote di sua moglie e chiuse la zucca. Riprese il viaggio. Il sole era ancora più caldo, lui aveva ancora più fame ed era ancora più stanco. Perciò dopo la quinta montagna si fermò a riposare proprio accanto al quinto fiume.

Pensò tra sé: toccherò il cibo solo con un dito, per sentire la consistenza dell’olio di palma. È un modo per capire se il Babalawo ha usato olio di buona qualità. Non vorrei che Iyannibo mangiasse qualcosa che le fa male allo stomaco.

Ijapa toccò l’asaro con un dito. Solo per saggiare la qualità dell’olio di palma. Si strofinò il grasso tra le mani. La consistenza era giusta, si disse, ma poteva lo stesso avere un cattivo sapore. Così ne prese un altro pezzettino e l’assaggiò. Subito il suo stomaco prese a brontolare con il fragore del tuono e lui ingollò tutta la pietanza in pochi minuti. Non appena quel minuscolo assaggio oltrepassò la barriera della bocca, non riuscì a resistere né a fermarsi. Dopo il pasto, fece schioccare le labbra e si lavò le mani nel torrente.

Immediatamente dopo cadde in un sonno profondo.

Quando si risvegliò, erano passati tre giorni, ma lui non lo sapeva. Gli sembrava di aver dormito solo un’oretta. Decise che sarebbe tornato alla casa del Babalawo. Gli dirò che l’asaro mi è caduto e si è rovesciato, si disse Ijapa. È un uomo buono, sicuramente me ne preparerà un altro.

Cercò di alzarsi e si rese conto di fare una gran fatica. Abbassò gli occhi e, stupore, aveva una pancia enorme. In effetti era grossa come quella di una donna incinta al nono mese.

Più rapido che poté tornò a valicare le cinque montagne e i cinque fiumi. Quando arrivò alla casa del Babalawo si mise a cantare:

Babalawo mo wa bebe

Babalawo, sono venuto a pregarti,

Alugbirin

Babalawo mo wa bebe

Babalawo, sono venuto a pregarti

Alugbirin

Oni n mama f’owo b’enu

 

Tu mi avevi detto di non portarmi la mano alla bocca

Alugbirin

Oni n mama f’ese b’enu

 

Tu mi avevi detto di non portarmi i piedi alla bocca

Alugbirin

Ogun to se fun mi l’ekan

 

La medicina che mi hai preparato l’altra volta

Alugbirin

Mo f’owo b’obe mo fi b’enu

 

Io l’ho toccata e mi sono portato la mano alla bocca

Alugbirin

Mo wa b’oju w’okun

 

Poi mi sono guardato la pancia

O ri tandi

Alugbirin

 

Ed era grossa

Rotimi si addormentava sempre prima che finissi la canzone, e io smettevo di raccontare. Non iniziavo mai con il motto di Moomi, Olomo lo l’aye. Un tempo ci credevo, e accettavo – come la tartaruga e sua moglie – che non si potesse vivere senza una discendenza. Pensavo che avere dei figli che mi chiamassero Baba avrebbe cambiato la forma stessa del mondo in cui vivevo, mi avrebbe purificato, avrebbe persino cancellato il ricordo di quando avevo spinto Funmi giù per le scale. E sebbene raccontassi molte volte quella favola a Rotimi, non credevo più che avere un figlio significasse possedere il mondo intero.