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Yejide, tutti i giorni da quando ti ho mandato l’invito al funerale, ho pensato con preoccupazione al modo in cui si sarebbe svolto questo momento. Timi mi ha detto tante volte che sarebbe andato tutto bene. Ma che ne sa lei? Solo quel tanto da pensare che ancora c’è una possibilità che noi tre diventiamo una famiglia felice. Io dovrei saperla più lunga – la so più lunga – ma con te, non riesco mai a rinunciare alla speranza.
“Chi è questa?” continui a ripetere, indicando Timi ma guardando me. “È Rotimi? Akin, chi è questa?”
Lei preferisce farsi chiamare Timi, dice che lei è se stessa, non un monumento a fratelli e sorelle che non ha mai conosciuto. E io sono d’accordo. Ha intenzione di farsi cambiare il nome ufficialmente, ma prima ne vuole parlare con te. Ha sempre creduto che ti avremmo ritrovata, ma ha sempre smontato ogni piano che facevo per contattarti, da quando abbiamo avuto il tuo indirizzo. Abbiamo prenotato voli che non abbiamo mai preso. Ho scritto lettere che lei strappava. Lei ha scritto lettere che poi strappava.
E se la mamma non mi vuole? chiedeva mentre uscivamo dall’aeroporto e lei gettava nel cestino i pezzetti delle lettere composte con tanto impegno. Io le rispondevo che tu le volevi bene, che mai l’avresti lasciata se avessi saputo che era viva, che l’avresti voluta anche adesso. Solo una volta mi disse: Nonostante le mie cellule falciformi? Sai, ho un amico all’università, suo padre ha lasciato la famiglia per via dell’anemia falciforme, non riusciva a sopportarlo. Puoi dirmelo: se è questo il motivo per cui la mamma se n’è andata, posso accettarlo. Quell’unica volta le assicurai che tu non l’avevi mai persa di vista un istante, quando stavi con noi, le raccontai che quel giorno che eri andata a Bauchi era stata la prima volta che te ne andavi di casa senza tenerla tra le braccia. È giusto che le dica cose belle su di te.
È stata lei a decidere che avremmo dovuto invitarti, dopo la morte di mio padre. Lei a scegliere la compagnia dei recapiti; io ho solo mandato l’invito. Da allora abbiamo aspettato e ci siamo preoccupati, e ora eccoci qui, a portata di mano.
Lei adesso mi tocca il braccio, mi si avvicina e sussurra: “È lei, vero?”
Tu la stai fissando, la guardi come se fossi sul punto di crollare. Alcuni degli ospiti ci lanciano occhiate in tralice, allungano il collo verso di noi.
Io stringo la mano di Timi. “Yejide, ti prego, vieni con noi.”
Non so bene di chi sia la mano sudata, se di Timi o mia. Tu ci segui. Timi continua a voltarsi per guardarti, la fronte aggrottata come se pensasse che, voltandosi, non ti troverebbe più. Camminiamo finché la musica si affievolisce e io sento il ticchettio dei tuoi tacchi sul pavimento di pietra. Davanti a noi un edificio di aule scolastiche appena ridipinto.
Entriamo in una delle aule, mi schiarisco la voce. “Sì, questa è Rotimi” dico. “Ma adesso la chiamiamo Timi.”
“Oh mio Dio! Scusa, ho bisogno di sedermi.”
Io e Timi ti guardiamo sederti su un banco di legno. Ti chini in avanti, ti reggi la testa. Timi stringe così forte che mi si intorpidisce la mano.
“Abbiamo scoperto dov’eri l’anno scorso” dice Timi. “Bolu, te la ricordi, vero? Sta prendendo il master alla UniJos. È venuta da te a comprare degli oggetti d’oro, e ti ha riconosciuta.”
Tu alzi gli occhi verso Timi, la bocca socchiusa. Ti sento respirare.
“Se vuoi andare via, è ok. Io... volevo solo... volevo solo vederti. E basta.”
Ma non è vero che vuole solo questo. E nemmeno io. Vuole che tu l’abbracci, che tu le dica che non l’hai dimenticata, neanche quando pensavi che non l’avresti vista mai più. Vuole che resti.
“Rotimi” dici, alzandoti.
“Timi” le trema la voce. “Mi chiamano tutti Timi.”
“Figlia mia, omo mi.”
Timi mi lascia la mano quando tu fai un passo verso di lei.
Le tocchi la faccia come se ti aspettassi di dover asciugare le lacrime, ma ha le guance asciutte, proprio come te. Le sue mani pendono lungo i fianchi, in attesa che tu la stringa. Poi ti circonda con le braccia con infinita cautela, come se avesse paura di spezzarti.
“Ti prego, Rotimi. Timi” dici. “Puoi per favore aspettare fuori? Per favore? Ho bisogno di parlare con Akin.”
“Ok” dice lei. Poi dopo un po’ sorride e aggiunge: “Devi lasciarmi perché io possa andare.”
Si scioglie dal tuo abbraccio ed esce dalla stanza. Cammina a schiena dritta, a testa alta, come te. Si allontana dall’edificio e si ferma di profilo rispetto a noi, scuotendo le pieghe dell’abito giallo.
“Mi avevi detto che aveva perso conoscenza.” Mi volti le spalle ma capisco che sei concentrata sul punto in cui si è fermata Timi.
“È vero. Ma alla fine sono riuscito a raggiungere a piedi un ospedale. Per strada ho dovuto tenerla sollevata in aria, come una bandiera, perché i soldati non sparassero. Ma non mi hanno lasciato prendere la macchina, neanche dopo aver visto che era svenuta.”
Ti giri verso di me per scrutarmi in viso. Non ti biasimo se non mi credi, ma è la sacrosanta verità. Aggrotti la fronte, ti appoggi al muro, volti la faccia verso la porta aperta. Resti in silenzio per ore, mi sembra. L’unico suono tra noi è la musica sommessa del ricevimento. Dovrei trovare le parole per rompere il silenzio, ma riesco solo a pensare come sei bella per me, dopo tutto questo tempo, e so che non è quello che vuoi sentire. Decido di aspettare le tue domande prima di dire una qualunque delle parole che ho provato davanti allo specchio che usavi tu, quando dividevamo la stessa camera.
“Cosa le hai detto su di me? Sul motivo per cui me ne sono andata?”
“Le ho detto che quando ti ho chiamata ti ho detto che era morta. Quindi, per quanto ne sa lei, quando sei sparita l’hai fatto pensando di aver perso ancora un altro figlio.”
Ti avvii verso la porta, verso Timi. Poi a un tratto ti fermi e ti giri verso di me.
“Le hai detto di noi e di Dotun? Di...”
“È necessario che lo sappia?”
Ti mordi le labbra e annuisci. “Com’è andata... con la sua salute?”
“È coraggiosa.”
Alzi la voce, come se ti aspettassi una mia reazione negativa. “Ho bisogno di restare con lei stanotte.”
“Ma certo” dico io. “Ti ho preparato una stanza, a casa. Possiamo andare via subito, se vuoi.”
Mi fissi come se ti avessi messo in mano un pugnale chiedendoti di darti una coltellata. “No, non posso venire a casa tua.”
Mi bastano queste ultime due parole per ricacciare indietro tutte le stupide frasi che avevo preparato. Voglio che tu viva con me. Possiamo essere compagni. Mi sei mancata. Se vuoi puoi avere degli amanti, basta che tu sia discreta. Possiamo ricominciare, a nuove condizioni.
“Voglio dire, se per Rotimi, se per Timi non è un problema, la porterei con me in albergo, perché passi la notte con me. Verremo da te domani e poi io e te possiamo discutere e cercare di capire come può funzionare tutto questo.”
“Certo” dico io.
“D’accordo, allora.” Ti volti, sciogli e riannodi il telo mentre infili la porta. Vai da Timi, la prendi per mano; premi la fronte contro la sua. Lei annuisce a te che parli. Le circondi le spalle con il braccio e la porti fuori dalla mia vista.