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Non c’erano incisioni sul corpo di mia figlia, nessuna lacerazione né cicatrice, neanche un solo segno di frustate da una vita precedente. Eppure la chiamarono ugualmente Rotimi, per sottintendere che era una bambina abiku, venuta al mondo con l’intenzione di morire il prima possibile. Rotimi – resta con me. Era il nome scelto da mia suocera, un nome che fino allora avevo creduto si desse solo ai maschi. Mi chiesi se Moomi avesse scelto Rotimi perché era intercambiabile. Se in seguito si fosse aggiunto il prefisso giusto, avrebbe avuto un suono normale, privo di quella storia tormentata preannunciata dai nomi abiku. Rotimi poteva facilmente diventare Olarotimi – Salute resta con me. Mentre non c’era modo di aggirare altre alternative, come Maku (Non morire) o Kukoyi (Morte, rifiutala). Controllai ogni centimetro del suo corpo, persino i palmi delle mani e le piante dei piedi. Niente. Scrutai le guance lisce senza un segno e pensai a Sesan, al suo corpo martoriato, segnato per sempre. Avrei voluto poter strofinare via quei segni con i polpastrelli, come un tempo gli strofinavo le lacrime sulla pelle finché non sparivano. Ma prima avrei dovuto scoprire dove lo avevano sepolto – ammesso che lo avessero sepolto, ammesso che il suo corpo non fosse stato semplicemente lasciato in un cespuglio fuori città, lontano da qualsiasi luogo abitato dagli esseri umani.

Non avrei mai avuto modo di saperlo. Moomi non rispondeva alle mie domande. Si rifiutava di dire anche una sola parola su Sesan. Era come se fosse stato, per lei, un brutto sogno da dimenticare al più presto e di cui non si doveva assolutamente parlare. Come me, anche Akin fu tenuto lontano dal corpo di Sesan o dal suo funerale, e visto che non aveva dato il suo consenso, mio marito non andò nemmeno ad Ayeso quando fecero i segni sul corpo di Sesan.

Il giorno in cui demmo il nome a Rotimi – una cerimonia tranquilla a cui parteciparono solo dieci persone – appena prima dell’inizio mi tolsi la catenina d’oro e la girai per tre volte attorno al collo di mia figlia, formando una collana a più giri. Il ciondolo, un crocifisso, restava nascosto sotto la veste bianca. Fu l’unica cosa che feci quel giorno per mia figlia. Si occupò mia suocera di farle il bagno e di vestirla, le resse persino la testa mentre la allattavo. Moomi si sforzava di essere gentile, ma era irritata e spazientita con me: lo percepivo benché fossi lontana, ad allattare il mio Sesan, a cercare ancora di tenerlo in vita, a combattere le figure sfocate che continuavano a bloccarmi la visuale del suo volto. Anche Moomi era una figura sfocata, un’immagine goffa che mi stringeva la faccia tra le mani e mi passava le mani sulle guance per prendere le lacrime – ma io non piangevo. Avevo solo sonno, non vedevo l’ora di rannicchiarmi nel letto e sognare Olamide e Sesan.

“Devi essere forte per questa figlia” continuava a ripetere, finché non mi tappai le orecchie con le mani. Quel giorno stesso se ne andò da casa nostra, sebbene non avesse altri nipoti a cui badare. “È tua figlia. Devi aver cura di lei, tu non sei morta” mi disse prima di uscire incontro ad Akin che aspettava in macchina. Aveva ancora altre cose da dire; erano lì, nella rabbia e nel disprezzo del suo sguardo. Negli occhi che mi condannavano perché portavo un lutto troppo a lungo, perché ero troppo debole per essere la madre della mia neonata, perché indugiavo tra i morti. A me non importava quello che pensava lei, né quello che mi gridavano i suoi occhi lacrimosi; in fondo era solo un’altra foto sfocata che mi impediva la visuale. Fui contenta che se ne andasse fino a quando Rotimi cominciò a strillare e mi toccò alzarmi dal letto per prenderla dal lettino. Ci avrebbe pensato Moomi, se fosse rimasta. Avrebbe cullato la bambina, l’avrebbe fatta tacere mentre io sognavo.

Io non sapevo cosa farne di quella bimba urlante che già supplicavamo, tutti i giorni, tutte le volte che la chiamavamo per nome – Rotimi, resta con me. Quando prendeva il latte dal mio seno io chiudevo gli occhi, attenta a non instaurare un contatto visivo con lei. A giorni alterni facevo venire una donna per lavare le sue cose. Non ero abbastanza forte per amare quello che avrei potuto perdere di nuovo, perciò la tenevo senza stringerla, con poche speranze, sicura che anche lei sarebbe riuscita in qualche modo a scivolar via dalla mia presa. Le lasciai addosso la catenina che le avevo messo alla cerimonia del nome, e ogni volta che uscivamo di casa gliela avvolgevo attorno al collo e mettevo il crocifisso sotto i vestiti, sulla pelle, come un talismano.

* * *

Successe un lunedì mattina, mentre Rotimi dormiva. Dormiva molto, e nel sonno restava quasi sempre immobile.

Quel lunedì mattina non era né troppo calda né troppo fredda. Il respiro era leggero ma regolare e a volte tossicchiava nel sonno. È stato per causa sua se le cose quel giorno sono andate come sono andate? Perché volevo restare in camera con lei e non potevo scendere al piano di sotto, nella stanza di Dotun? A volte penso che se fossi stata in camera sua, al piano terra, avrei sentito la macchina fermarsi davanti a casa. Sarei riuscita a rivestirmi in fretta e furia e a uscire dalla camera. Ma ho sempre voluto che andasse così. Da qualche parte, dentro di me, volevo che Akin ci sorprendesse. Volevo guardarlo negli occhi quando fosse successo; volevo vederlo esplodere in qualche specie di passione e, quel lunedì, ho avuto esattamente quello che volevo.

Quando ci scoprì, Dotun e me, fui al tempo stesso soddisfatta e delusa. Ero delusa perché, mio malgrado, ancora mi addolorava vedere la pena nei suoi occhi. Chiusi i miei per trovare la forza e alzai le ginocchia per aiutare Dotun e l’unica cosa a fuoco era mio marito e quello che stava guardando – la schiena inarcata di Dotun, la spinta febbrile dei suoi fianchi, il brivido, il crollo.

Akin rimase sulla porta, silenzioso e immobile, fino a quando Dotun rotolò via da me e lanciò un urlo vedendo suo fratello nella stanza. Allora Akin si girò, chiuse la porta con la chiave che si mise in tasca.

Si tolse la giacca, la ripiegò e la mise sul letto.

Poi le fiamme dell’inferno traboccarono dagli argini rovesciandosi sulla nostra camera.