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Per un pezzo non accettai di essere diventata una prima moglie, una iyale. Iya Martha era la prima moglie di mio padre. Da piccola ero convinta che fosse la più infelice di tutte le mogli di casa. E crescendo non avevo cambiato parere. Al funerale di mio padre era rimasta accanto alla fossa appena scavata, con gli occhi ancora più stretti del solito, a tempestare di maledizioni tutte le donne che mio padre aveva preso per mogli dopo aver sposato lei. Aveva iniziato, come sempre, da mia madre, benché fosse morta da un secolo, perché era stata la seconda, quella che aveva fatto di Iya Martha una prima inter non proprio pares.

Io mi rifiutavo di considerarmi una prima moglie.

Era facile fingere che Funmi non esistesse nemmeno. Continuavo a svegliarmi con mio marito sdraiato accanto a me nel letto, supino, a gambe larghe, un cuscino sulla faccia per schermare la luce della mia lampada. Gli pizzicavo il collo finché non si alzava e andava in bagno, rispondendo al mio saluto con un cenno della testa o della mano. La mattina non ragionava, non era in grado di mettere insieme due parole prima del caffè o della doccia fredda.

Era quasi mezzanotte, un paio di settimane dopo la comparsa di Funmi in casa nostra, quando squillò il telefono. Prima che io mi tirassi a sedere sul letto, Akin era già in mezzo alla stanza. Tirai due volte il cordoncino dell’abat-jour per accendere tutte e quattro le lampadine, che inondarono la stanza di luce. Akin aveva risposto e ascoltava accigliato la persona all’altro capo del filo.

Dopo aver posato il ricevitore, venne a sedersi sul letto accanto a me. “Era Aliyu, il capo operativo della sede centrale, a Lagos. Ha chiamato per dire che domani non dobbiamo aprire al pubblico.” Sospirò “C’è stato un golpe.”

“Oddio” dissi.

Restammo per un po’ in silenzio. Mi chiesi se ci fossero vittime, se nei mesi a venire avremmo avuto caos e violenza. Sebbene all’epoca fossi troppo giovane per ricordare quegli eventi, sapevo che i colpi di stato del 1966 avevano finito per precipitare il paese nella guerra civile. Mi rassicuravo pensando all’ultimo putsch, che appena venti mesi prima aveva insediato a capo dello Stato il generale Buhari: ogni tensione si era dissolta nel giro di pochi giorni. Il paese aveva deciso di essere stanco del corrotto governo civile defenestrato da Buhari e colleghi.

“Ma è sicuro che i golpisti abbiano avuto successo?”

“Sembra di sì. Aliyu dice che hanno già arrestato Buhari.”

“Speriamo che questi altri non ammazzino nessuno.” Tirai una sola volta il cordoncino, spegnendo tre delle quattro lampadine.

“Che razza di paese!” sospirò Akin, alzandosi. “Scendo a controllare di nuovo le porte.”

“E insomma, chi comanda adesso?” Tornai a sdraiarmi, anche se non sarei riuscita a riprendere sonno.

“Su questo non ha detto niente. Lo sapremo domattina.”

Non lo sapemmo neanche la mattina dopo. Alle sei trasmisero la comunicazione di un ufficiale dell’esercito, che condannava il governo precedente ma non diceva nulla di quello nuovo. Akin uscì per andare in ufficio subito dopo la trasmissione, in modo da arrivare al lavoro prima che esplodessero eventuali manifestazioni di protesta. Io rimasi a casa: già sapevo che le mie lavoranti non sarebbero venute al salone, dopo aver sentito le notizie del mattino. Lasciai accesa la radio e tentai di chiamare tutti quelli che conoscevo a Lagos, per assicurarmi che fossero sani e salvi, ma ormai avevano interrotto le linee telefoniche e non riuscii a raggiungere nessuno. Dopo aver ascoltato il notiziario di mezzogiorno dovevo essermi appisolata. Quando mi svegliai Akin era già a casa. Fu lui a informarmi che il nuovo capo di Stato era Ibrahim Babangida.

La cosa più strana delle settimane immediatamente successive fu che Babangida si definiva, e finì per essere definito non semplicemente capo di Stato ma presidente, come se il golpe equivalesse a una elezione. Nel complesso tutto sembrava procedere regolarmente e come il resto della popolazione anche noi, io e mio marito, tornammo alla solita routine.

Nei giorni feriali Akin e io facevamo quasi sempre colazione insieme: uova sode, pane tostato e fiumi di caffè. Il caffè ci piaceva allo stesso modo, in tazze rosse con il manico, abbinate ai fiori delle tovagliette, senza latte e con due zollette di zucchero. A colazione parlavamo dei programmi per la giornata. Di chiamare qualcuno per sistemare il tetto che perdeva in bagno, degli uomini nominati da Babangida per formare il Consiglio dei ministri, della possibilità di far fuori il cane dei vicini che abbaiava senza sosta tutta la notte, della nuova margarina che stavamo provando, forse troppo grassa. Non parlavamo di Funmi; non facevamo il suo nome neanche per sbaglio. Finito di mangiare, portavamo insieme i piatti in cucina e li lasciavamo nel lavello, per farli in seguito. Poi ci lavavamo le mani, ci scambiavamo un bacio e tornavamo in salotto. Akin prendeva la giacca, se la buttava su una spalla e usciva per andare a lavorare. Io salivo a fare una doccia e poi andavo al salone, e così tiravamo avanti, con i giorni che diventavano settimane, le settimane un mese, come se nel nostro matrimonio ci fossimo ancora solo noi due.

Poi un giorno, dopo che Akin era uscito per andare in ufficio, tornai di sopra a fare il bagno e mi accorsi che era crollata una parte del tetto. Quella mattina pioveva, e la pressione dell’acqua che si raccoglieva in quel punto doveva aver finito di schiantare l’amianto ormai rammollito, squarciando il centro dell’area da cui già prima filtrava l’umidità. L’acqua scrosciava dentro la vasca da bagno. Cercai di trovare il modo di usarla lo stesso, perché da quando ci eravamo sposati non mi ero mai servita degli altri bagni della casa. Ma la pioggia non smetteva e l’amianto lacerato si trovava proprio in un punto tale che, in qualsiasi angolo della vasca mi rifugiassi, venivo colpita dalla pioggia o dai frammenti di legno e schegge di metallo che si rovesciavano nella vasca insieme con l’acqua.

Dopo aver chiamato l’ufficio di Akin e lasciato un messaggio alla segretaria, spiegando del tetto, per la primissima volta mi lavai nella stanza degli ospiti, in fondo al corridoio. E qui, in un ambiente che non mi era familiare, presi in esame la possibilità di ritrovarmi a dover fare moltissime docce in quella cabina angusta, se Funmi avesse deciso di venire da noi e avesse insistito per passare la notte nella camera padronale. Risciacquai la schiuma e tornai nella camera padronale – la mia camera – per vestirmi e andare a lavorare. Quando controllai la situazione in bagno, prima di scendere, il danno non era peggiorato e l’acqua scendeva ancora direttamente nella vasca.

Il tempo di aprire l’ombrello e di correre alla macchina, e la pioggia era diventata torrenziale; tirava un vento che fece del suo meglio per strapparmi via l’ombrello. Ancora prima di salire in macchina avevo le scarpe fradicie. Me le tolsi per mettermi le ballerine che usavo per guidare. Quando girai la chiavetta d’avviamento non successe niente, solo un inutile clic. Ritentai più volte, senza successo.

Da quando Akin me lo aveva regalato, dopo il matrimonio, il mio fedele Maggiolino blu non mi aveva mai dato un problema. Mio marito lo portava regolarmente dal meccanico e tutte le settimane controllava l’olio e tutto il resto. Fuori continuava a diluviare, inutile pensare di andare al salone a piedi, anche se non era troppo lontano dal nostro complesso. Il vento aveva già spezzato parecchi rami dagli alberi nel giardino del nostro vicino di casa, e in pochi minuti mi avrebbe distrutto l’ombrello. Perciò rimasi in macchina a guardare altri rami che lottavano contro il vento fino a schiantarsi e cadere a terra, ancora verdi e frondosi.

Era nei momenti come questi, quelli che non si sottomettevano alla mia routine, che Funmi faceva irruzione nei miei pensieri. E mi frullava in testa l’idea di essere diventata anch’io una di quelle donne che finivano per essere dichiarate troppo vecchie per accompagnare i mariti alle feste. Ma anche allora riuscivo a catturare quei pensieri e a tenerli ingabbiati in un angolo della mia mente, in un posto in cui non avevano la possibilità di spiegare le ali e invadere la mia vita.

Quella mattina tirai fuori dalla borsa un bloc-notes e mi misi a scrivere l’elenco delle nuove attrezzature che mi servivano al salone. Buttai giù anche un budget per il mio progetto: avevo intenzione di espandermi, aprendo altri negozi. Inutile pensare a Funmi; Akin mi aveva assicurato che non sarebbe stata un problema, e fino a quel momento non era successo niente che potesse smentirlo. Ma io non avevo parlato di Funmi con nessuna delle mie amiche. Al telefono con Sophia o con Chimdi si chiacchierava della mia attività, dei loro bambini e della promozione di Akin. Chimdi era una madre single, Sophia una terza moglie. Nessuna delle due, secondo me, avrebbe potuto darmi qualche consiglio utile nella mia situazione.

Il tetto crollato e la macchina che si rifiutava di partire: con un simile inizio, Iya Martha sarebbe tornata in camera e avrebbe passato il resto della giornata dietro porte chiuse a chiave e finestre sbarrate, perché l’universo stava cercando di dirle qualcosa. L’universo cercava sempre di dirle qualcosa. Ma io non ero Iya Martha, perciò quando la pioggia si ridusse a uno sgocciolio, girai per l’ultima volta la chiavetta dell’accensione e uscii dalla macchina con le ballerine. Con la borsa a tracolla, l’ombrello in una mano e le scarpe bagnate nell’altra, mi avviai a piedi al lavoro.

Di solito il salone era riscaldato dalla presenza delle donne. Donne sedute nelle poltroncine imbottite, sottomesse alla mercé e ai servigi del pettine di legno, dei caschi asciugacapelli, delle mie mani e di quelle delle apprendiste che stavo formando. Donne che leggevano un libro in silenzio, donne che mi chiamavano “sorella cara,” donne che facevano battute sguaiate capaci di farmi ridere ancora diversi giorni dopo. Amavo quel posto – i pettini, i ferri per i ricci e gli specchi a tutte le pareti.

Avevo iniziato a guadagnare con i capelli quand’ero matricola all’università di Ife. Come molte ragazze del primo anno, abitavo nella Mozambique Hall. Tutte le sere della mia prima settimana al dormitorio andai di stanza in stanza per dire alle altre che potevo fare le treccine per la metà di quello che davano alla parrucchiera. Avevo solo un pettinino di legno, e finché rimasi all’università l’unica altra cosa in cui investii fu una sedia di plastica per far sedere le clienti. Quella sedia fu la prima cosa che mi portai dietro quando mi trasferii alla Moremi Hall, al secondo anno. Non guadagnavo abbastanza per comprare un casco, ma al terzo anno riuscivo a mantenermi. E se qualche volta Iya Martha decideva di tenersi l’assegno mensile che mio padre mi faceva avere per suo tramite, non soffrivo la fame.

Dopo il matrimonio andai a vivere a Ilesa, e anche se nei giorni feriali andavo a Ife in macchina, per le lezioni, era impossibile continuare l’attività di parrucchiera come prima. Per un po’ non guadagnai un centesimo. Non che ne avessi bisogno: a parte il contributo per le spese di casa, Akin mi dava una somma generosa per le mie esigenze personali. Ma fare la parrucchiera mi mancava, e mi seccava sapere che, se Akin per qualsiasi motivo avesse smesso di passarmi i soldi, io non avrei potuto permettermi neanche un pacchetto di gomme.

Nei primi mesi del nostro matrimonio, la sorella di Akin, Arinola, era stata l’unica donna a cui avevo fatto i capelli. Spesso si offriva di pagare, ma io rifiutavo. Non le piacevano gli stili elaborati e mi chiedeva sempre di farle l’acconciatura più classica, il suku. Dopo un po’, fare le trecce seguendo linee diritte fino al centro della testa mi venne a noia. Perciò la convinsi a permettermi di lavorare per dieci ore e legarle i capelli in mille sottilissime treccine. Nel giro di una settimana, le colleghe di Arinola al College of Education la supplicarono di presentarle alla sua parrucchiera.

All’inizio mi occupavo di quella crescente fiumana di donne nel nostro giardino sul retro, sotto un albero di anacardi. Ma poco dopo Akin trovò uno spazio che, mi disse, sarebbe stato perfetto per un salone. Io ero restia ad aprire un vero negozio, perché sapevo che fino alla laurea avrei potuto lavorarci solo nei fine settimana. Ma Akin mi convinse a dare un’occhiata al posto che aveva trovato, e una volta che ci ebbi messo piede mi resi conto che era davvero perfetto. Cercai di controllare il mio entusiasmo dicendogli che era da stupidi spendere soldi per un posto che sarebbe rimasto chiuso per cinque giorni alla settimana. Lui però mi lesse nel pensiero, e poche ore dopo ci tenevamo per mano, nel salotto del padrone di casa, mentre lui trattava sull’affitto.

Quando mio marito sposò Funmi, avevo ancora lo stesso salone. E quella mattina, benché fossi arrivata in ritardo per via della pioggia e dei problemi con la macchina, ero comunque la prima. Quando aprii la porta non c’era traccia delle apprendiste. Di solito arrivavano presto, per sistemare il negozio in vista della giornata di lavoro, ma già mentre accendevo le luci sentii che il picchiettare della pioggia aumentava di ritmo fino a dare l’impressione che cento zoccoli di cavallo battessero sul tetto. Non c’erano molte speranze che le ragazze riuscissero ad attraversare la città prima che si placasse.

Accesi la radio che mi aveva regalato mio padre quando avevo iniziato l’università. Ormai era rotta in più punti, ma la tenevo insieme con lo scotch. Armeggiai con la sintonia fino a trovare una stazione che trasmetteva una musica che non riconobbi. Poi iniziai a disporre shampoo e brillantine, gel e ferri arricciacapelli, flaconi di crema stirante e bombolette di lacca.

Non mi preoccupai di controllare se la camminata sotto l’acqua mi aveva rovinato le treccine malgrado l’ombrello. Se mi fossi guardata allo specchio, avrei dovuto esaminare la forma del mio viso, gli occhi piccoli, il naso grosso; i possibili difetti, come la fossetta sul mento o le labbra, i mille diversi motivi per cui un uomo, e nello specifico Akin, poteva trovare più attraente Funmi. Non avevo tempo per compatirmi, perciò continuai a lavorare perché maneggiare l’attrezzatura mi aiutava a concentrarmi sui capelli.

Quando smise di piovere le ragazze arrivarono alla spicciolata, una dopo l’altra. L’ultima appena prima che si facesse vedere la prima cliente. Presi un pettine di legno, tracciai la scriminatura centrale, immersi due dita nella brillantina appiccicosa e la mia giornata ebbe inizio. La donna aveva i capelli spessi e corposi, che emettevano uno scricchiolio sommesso mentre li intrecciavo seguendo minuscole file che si raccoglievano sulla nuca. Quand’ebbi finito c’erano quattro persone in attesa. Passai da una testa all’altra sezionando scalpi, intrecciando le ciocche secondo uno schema ordinato, sforbiciando doppie punte e dispensando consigli alle apprendiste. La felicità. Il tempo correva e in un attimo vidi che mezzogiorno era passato da un pezzo. Quando feci la pausa per il pranzo mi dolevano i polsi – quasi tutte quella mattina volevano acconciature e treccine, ed erano poche le messe in piega semplici che ci aspettavano.

A pranzo mi accontentai di riso cotto nelle foglie di eeran e condito con uno stufato in olio di palma. Nella via c’era una donna che lo cucinava così bene che, dopo aver gustato i pezzettini di pesce affumicato e di cotenna di vacca nello stufato, dovevo sempre trattenere l’impulso di leccare le foglie fino a ripulirle. Era quel tipo di cibo che esigeva una breve pausa dopo aver svuotato il piatto, e che generava un livello di soddisfazione tale che rimanevo a fissare il vuoto mentre intorno a me il salone brulicava di attività. Fuori il cielo era ancora di un minaccioso blu violaceo, anche se finalmente aveva smesso di piovere. L’aria fredda entrava a folate nel negozio e surclassava i caschi nel determinare la temperatura dell’ambiente.

Quando entrò, pensai che fosse una cliente. Si fermò un attimo sulla soglia, con il cielo plumbeo che le faceva da sfondo come un segno di malaugurio. Si guardò attorno nel salone con la fronte aggrottata finché mi vide. Allora sorrise e venne a inginocchiarsi di fianco a me. Era così bella. Aveva il genere di faccia che valorizzava qualsiasi pettinatura, una faccia che al mercato induceva le altre donne a seguirla con lo sguardo carico di desiderio, una faccia che avrebbe indotto alcune a chiederle da che parrucchiera andasse.

“Buongiorno, madre” disse Funmi.

Le sue parole, una coltellata. Non ero sua madre. Non ero la madre di nessuno. Tutti mi chiamavano ancora Yejide. Non ero Iya Questo o Iya Quello. Ero ancora semplicemente Yejide. Questo pensiero mi legò la lingua e mi fece venire voglia di strapparle la sua. Anni prima, niente mi avrebbe impedito di farle ingoiare i denti con un pugno. Quando studiavo alla Ife Girls’ High School mi chiamavano Yejide la Terribile. Facevo a botte un giorno sì e uno no. Nei giorni sì, aspettavamo che finisse la scuola prima di iniziare la rissa. Ci allontanavamo dal complesso scolastico e cercavamo qualche sentiero che nessuno degli insegnanti prendesse per tornare a casa. E vincevo sempre io: non una volta, non una sola volta era successo che perdessi. Ci avevo rimesso un po’ di bottoni, mi ero rotta un dente, parecchie volte mi era uscito il sangue dal naso, ma non avevo mai perso. E non mi ero ritrovata in bocca neanche un singolo granello di sabbia.

Ogni volta che tornavo a casa in ritardo e sporca di sangue per l’ennesima rissa, le matrigne mi sgridavano urlando e promettevano punizioni per il mio vergognoso comportamento. La sera bisbigliavano, con gli scialli stinti legati attorno ai seni avvizziti, e sussurrando raccomandavano ai loro figli di non diventare come me. Dopo tutto, i loro figli avevano delle madri, donne vive e vegete che imprecavano e cucinavano, andavano a lavorare e avevano i peli sotto le ascelle. Solo i bambini senza madre, i bambini come me, potevano comportarsi così male. E io non solo ero senza madre, ma quella che avevo avuto, quella che era morta pochi istanti dopo avermi spinta fuori nel mondo, era figlia di nessuno! E chi poteva mettere incinta una figlia di nessuno? Solo uno stupido che per puro caso era, be’, suo marito. Ma non era questo il punto; il punto era che, se non si potevano identificare gli antenati di un bambino, quel bambino poteva discendere da qualsiasi cosa – dai cani, persino, o dalle streghe, o da tribù straniere con il sangue cattivo. I figli della terza moglie avevano chiaramente il sangue cattivo, visto che nella famiglia di lei si verificavano spesso casi di pazzia. Ma se non altro quello era un sangue cattivo conosciuto: il mio (possibile) sangue cattivo era di origini ignote, il che era peggio, come si poteva dedurre dal modo in cui disonoravo mio padre azzuffandomi come un cane randagio.

Le discussioni sussurrate che ognuna di loro faceva in camera con i figli alla fine mi venivano riferite in ogni particolare dai miei fratellastri. Le loro parole non mi facevano né caldo né freddo; era un gioco, quello delle mogli, volto a dimostrare chi di loro avesse prodotto la schiatta migliore. Erano invece le minacce mai attuate, anche quando le zuffe diventarono un evento quotidiano, a preoccuparmi. Erano le frustate mai impartite, le faccende in più mai assegnate, le cene mai saltate a ricordarmi che in realtà a nessuna di loro importava davvero.

“Madre?” disse Funmi. Era ancora in ginocchio.

Ingoiai i ricordi come una enorme pillola amara. Funmi mi aveva posato le mani in grembo: aveva una manicure perfetta. Le unghie erano dipinte di un rosso ibisco come le tazze identiche che io e Akin avevamo usato quella mattina per il caffè.

“Madre?”

Io non mi dipingevo più le unghie. Lo avevo fatto ai tempi dell’università. Erano le unghie a fargliela risultare seducente? Cosa provava quando lei gli faceva scorrere sul petto quelle unghie bellissime? Gli si indurivano i capezzoli? Gli sfuggiva un gemito? Avrei voluto... no... avevo bisogno di saperlo subito, nei particolari. Che cosa aveva lei, di suo, che era sempre stato solo mio? Cosa avrebbe avuto, che io non avevo avuto mai? Un figlio da lui?

“Madre?”

“Chi è tua madre? Farai meglio ad alzarti, adesso” dissi io.

Vicino a me c’era una sedia vuota, ma lei decise di mettersi sul bracciolo della mia.

“Cosa ci fai qui? Chi ti ha indicato questo posto?” Parlavo sottovoce perché le chiacchiere di sottofondo tra le clienti e le altre parrucchiere si erano zittite. Qualcuno aveva spento la radio e nel salone regnava il silenzio.

“Ho semplicemente pensato di venire a salutarti.”

“A quest’ora? Non lavori?” Era un insulto, ma lei lo prese come una domanda.

“No-o. Non lavoro più, da quando nostro marito ha iniziato a prendersi cura di me.” Dicendo “nostro marito” aveva alzato la voce, ed era ovvio che l’avevano sentita tutte, nel salone. Le sedie cigolarono per le clienti che cambiavano posizione sulle poltroncine e si sporgevano il più possibile nel tentativo di ascoltare la conversazione.

“Cosa?”

“Nostro marito è molto premuroso. Si prende molta cura di me. Ringraziando Dio, ha soldi abbastanza per tutte noi.” Sorrise rivolta al cucuzzolo della mia testa.

Guardai torva il suo riflesso nello specchio davanti a noi. “Soldi abbastanza per cosa?”

“Per noi, madre. È per questo che l’uomo lavora, abi? Per le sue mogli e i suoi figli.”

“Alcune di noi hanno un lavoro” dissi io, trattenendo lungo i fianchi le mani strette a pugno. “Dovresti andartene, così posso fare il mio.”

Lei sorrise allo specchio. “Verrò a trovarti domani pomeriggio, Ma. Magari sarai meno occupata.”

Si aspettava che rispondessi al sorriso? “Funmi, non voglio vedere mai più, qui dentro, quei manici di scopa che hai al posto delle gambe.”

“Ma madre, non c’è bisogno di fare così; dobbiamo essere amiche. Se non altro per amore dei figli che avremo.” Tornò a mettersi in ginocchio. “Lo so che la gente dice che sei sterile, ma niente è impossibile a Dio. Sono sicura che, quando avrò concepito, anche il tuo grembo si aprirà. Se dici che non devo venire qui, non ci verrò, ma voglio che tu sappia che questa amarezza potrebbe essere una delle cause della sterilità. Arrivederci, Ma.”

Alzandosi in piedi e voltandosi per uscire, sorrideva.

Mi alzai di scatto, afferrando il suo vestito da dietro. “Tu! Disgraziata... perfida egbere. A chi hai detto sterile?”

Non ero pronta allo scontro. Persino il mio insulto aveva mancato il bersaglio. Funmi non aveva nulla della mitica egbere. Non era tarchiata; non aveva un tappetino, non piangeva senza sosta. Anzi, quando si voltò per affrontarmi, sorrideva. Fui attorniata da clienti e apprendiste prima di riuscire a mollarle un solo schiaffo sulla guancia.

“Lasciala perdere” dissero le donne. “Lasciala andare.” Mi tolsero le mani dal suo vestito e mi sospinsero finché non mi ritrovai di nuovo sulla sedia. “Sorella cara, calmati per favore. Non prendertela così.”