36

Anche se il fulmine colpì per due volte nello stesso punto, non pensavo che avrebbe lasciato dietro di sé la stessa devastazione anche la seconda volta. Poco dopo il suo primo compleanno portai Rotimi a fare i test del genotipo, e le mie peggiori paure trovarono conferma quando, tornando dal lavoro un paio di giorni dopo, passai a prendere il referto. Ma una volta a casa mi ero già calmato, ero sicuro che mia figlia sarebbe sopravvissuta malgrado le due S rosse del verdetto sul foglio. Neanche adesso saprei spiegare da dove mi venisse quella sicurezza, ma era lì, solida come il terreno su cui camminavo. Yejide si coprì gli occhi con le mani quando le riferii l’esito dell’esame – ma non manifestò altra reazione alla notizia. E alla prima crisi di anemia falciforme, si rifiutò di restare con Rotimi all’ospedale.

“Io? Io dovrei passare la notte con lei? Akin, sono esausta, completamente esausta” disse appena prima di uscire dal reparto in cui era stata ricoverata la bambina. “Ho bisogno di riposare.”

Incolpai me stesso per il modo in cui parlava, come se le avessero estratto qualsiasi possibilità di provare gioia. La guardai arrancare fuori dall’ospedale, chiedendomi se avesse solo bisogno di una bella notte di riposo o se la sua stanchezza si fosse trasformata in un esaurimento permanente.

Un paio d’ore dopo mi permisero di entrare da Rotimi. Era così piccola, fuori posto nel letto d’ospedale. Era attaccata a una flebo. Mi chiesi se bastasse, se i medici sapevano cosa stavano facendo, usando una sola flebo per combattere qualcosa che ci aveva già strappato un figlio. Mi sedetti su una sedia accanto al letto, tenendo le mani sul bordo del materasso perché avevo paura di toccarla.

“Mamma?” disse dopo un po’, alzando la mano libera. “Mamma mi?”

Mi schiarii la gola e fissai la struttura del letto. “Tua madre è stanca, dorme.”

Non riuscii a guardare i suoi grandi occhi scuri mentre le mentivo. Anche lì, con lo sguardo inchiodato alla testata del letto, quella bugia mi sembrava così sbagliata, qualcosa per cui dovevo essere perdonato, perdonato da una bambina il cui viso era la versione in miniatura di quello di Yejide. Tanto che guardarla mi dava la sensazione di guardare Yejide attraverso una lente che rimpicciolisce. Ogni tratto del suo volto apparteneva a Yejide, tranne il naso. Il naso di Rotimi era già piatto e largo, esattamente come il mio. Mi piaceva quando la gente lo notava, quando dicevano Questa bambina ha il naso di suo padre. Il naso di suo padre.

Quella sera stessa, più tardi, un dottore con gli studenti al seguito armati di cartelle per gli appunti entrò a visitare Rotimi. Da bambino anch’io sognavo di fare il dottore, prima che la mia mano destra fosse abbastanza lunga da toccare l’orecchio sinistro, prima che fossi abbastanza grande da andare a scuola. Al tempo in cui non sapevo neanche che esistessero altre professioni, quando pensavo fosse l’unica cosa che potevano fare quelli che andavano a scuola.

Quando i medici si furono spostati da un altro paziente, uno degli studenti mi disse sottovoce: “Signore, sto facendo una ricerca, sull’anemia falciforme. Per aiutare i corsi prematrimoniali. Sarei felice se lei potesse compilare...”

Annuii come un’agama impazzita, gli tolsi di mano il questionario che mi porgeva, impaziente di levarmelo da davanti. Mi chiesi quanti questionari avesse compilato Yejide nei giorni che aveva trascorso in ospedale con Sesan. Le domande erano scritte fitte su un foglio solo, come se lo studente volesse risparmiare sulle fotocopie; solo sforzarmi di leggerle mi faceva venire il mal di testa.

“Baba mi.”

“Sì, tesoro. Che c’è?” La distrazione era un sollievo. Misi da parte il questionario.

“Mamma mi?” chiese con un filo di voce. Aveva il fiatone, come se pronunciare quell’unica parola le avesse prosciugato tutte le forze.

Le tenni la mano, e stavolta la guardai negli occhi. “La tua mamma viene presto, molto presto. Intanto che aspettiamo, ti racconto una storia. Parla di Ijapa la tartaruga e sua moglie Iyannibo.”

Ripetei l’inizio della storia, sulla coppia sterile e gli inutili tentativi di avere un figlio. Descrissi la visita di Ijapa al Babalawo, il recipiente di cibo a cui non riuscì a resistere, il suo ritorno pieno di vergogna dal Babalawo dopo che aveva rovinato la sua unica possibilità con le sue stesse mani. Rotimi era ancora sveglia quando finii il canto, perciò continuai il racconto.

Quando Ijapa tornò dal Babalawo, pianse e supplicò. Si rotolò per terra, implorando perdono, mendicando un’altra possibilità.

“No, non posso aiutarti” disse il Babalawo.

“Aiutami, non per me. Pensa a Iyannibo, mia moglie. Aiutami, anzi, no, aiuta la mia povera moglie, aiuta lei.

Il Babalawo pensò alla povera Iyannibo. E sebbene Ijapa avesse fatto una cosa terribile, disobbedendo agli ordini, per amore della povera Iyannibo, il Babalawo ebbe pietà di lui. Gli diede da bere una pozione. Poco dopo averla bevuta il suo stomaco tornò piatto.

La storia che mi aveva raccontato Moomi non finisce così. A quanto pare la tartaruga e sua moglie non potevano restare semplicemente i signori tartaruga, non bastava. Il racconto prosegue dicendo che la moglie della tartaruga ebbe un figlio, così che tutti potessero vivere per sempre felici e contenti. A mia figlia non raccontai questa parte. Quella era la bugia che avevo creduto all’inizio. Yejide avrebbe avuto un figlio e noi saremmo stati felici per sempre. Il prezzo non era importante. Non importava quanti fiumi avremmo dovuto attraversare. Alla fine di tutto c’era questa immensa distesa di felicità che sarebbe dovuta iniziare solo dopo che avessimo avuto dei figli, neanche un attimo in anticipo.

Quella prima volta Rotimi rimase in ospedale una settimana. Io potei prendere solo due giorni di permesso per stare con lei, ma passavo le notti in ospedale, dormendo sulla sedia di legno davanti al reparto, sognando di nuovo, per la prima volta da anni, Funmi.

Non facevo che pensare a lei da quando avevo avuto la diagnosi di mia figlia. Era impossibile non chiedersi se le morti di Olamide e di Sesan erano state una forma di castigo. Se su una qualche universale bilancia della giustizia, per qualche contorto processo di karma o di esan, i bambini avessero pagato il prezzo del mio peccato. Ogni volta che mi svegliavo da un incubo su Funmi, non potevo fare a meno di chiedermi se quei sogni fossero un presagio del destino di Rotimi, se tre figli valessero un adulto sulla bilancia universale della giustizia.

Quei pensieri non duravano mai oltre il buio, prima dell’alba. Quando sorgeva il sole e io entravo a vedere mia figlia, riuscivo a disperderli. Quella bambina sarebbe sopravvissuta a tutte le crisi, sarebbe stata l’eccezione a tutte le regole – sarebbe vissuta – ne ero certo. Se davvero esisteva una mano universale che impartiva la giustizia, avrebbe preso me, non dei bambini innocenti.

E poi non avevo avuto intenzione di uccidere Funmi.

La sera che morì, la sera della cerimonia del nome di Olamide, volevo solo arrivare al letto senza inciampare lungo le scale. Grazie alle bottiglie di birra che mi ero scolato, i gradini mi ballavano davanti agli occhi. Mi aggrappai alla balaustra, salendo. Funmi, subito dietro di me, parlava con voce impastata.

“Allora, com’è rimasta incinta Yejide?”

Non ebbi bisogno di riflettere prima di rispondere. “Come restano incinte le donne.”

Funmi si mise a ridere. “Mi hai preso per una stupida? Con le bugie e le scemenze che fai a letto, credi che non lo sappia? Forse perché ho deciso di non sputtanarti?”

Continuai a salire le scale. Se fossi troppo ubriaco per rispondere o se confidassi che il mio silenzio sarebbe stato interpretato in modo favorevole, non saprei più dirlo con certezza.

Quello che ricordo è Funmi che mi afferra da dietro la gamba dei pantaloni, ma questo non mi dà fastidio.

“Dimmi” mi dice. “Dimmi come fa un pene che non è mai diventato duro a mettere incinta una donna? E non dirmi di nuovo che succede solo quando sei con me. Non ci credo più.”

Non so più per certo se Funmi abbia sussurrato queste parole o le abbia urlate. Ma quella sera mi era parso che fossero state ululate, come se riecheggiassero in tutte le stanze della casa. Mi aveva già lasciato i calzoni quando mi ero girato per tapparle la bocca con la mano. E il mio palmo le toccò la faccia, le coprì la bocca per un istante prima che lei barcollasse, cadesse all’indietro, rotolasse giù per le scale.

* * *

Alla fine, quando mi mandò a chiamare, Moomi non mi chiese di andare a trovarla a casa. Mi chiese di raggiungerla al suo banco al mercato. Era un insulto calcolato. Una mossa per ricordarmi che non aveva mai messo piede nel negozio che le avevo comprato dopo che Dotun aveva lasciato il paese.

Moomi si era sempre lagnata del mercato. Detestava il terreno, viscido e fangoso durante la stagione delle piogge, duro e polveroso in quella secca. Disprezzava le donne del mercato che buttavano la spazzatura in mezzo alla strada. Odiava il fracasso incessante, il caldo insopportabile dato dalle troppe persone che si schiacciavano una contro l’altra nel tentativo di percorrere gli stretti passaggi. Detestava che tutti i giorni la mano di qualcuno, o una borsa o un culo smisurato facessero cadere la sua merce. Che piedi frettolosi schiacciassero pomodori e peperoni prima che lei avesse il tempo di raccoglierli e rimetterli sul vassoio. Ma soprattutto odiava la puzza – non aveva mai smesso di sentirla. Le sue narici non si erano mai adattate all’odore disgustoso di troppa roba che andava a male in uno spazio ristretto.

Per tutta la vita, fin da quando, giovane sposa, suo marito le aveva rifiutato i soldi per un chiosco di legno, Moomi aveva sempre pensato che il suo posto nella vita valesse qualcosa di più di un banchetto laterale al mercato. In fondo al cuore sapeva che il suo posto era con le donne che potevano permettersi di vendere la loro merce in un negozio, protette dal caldo maledetto della piazza. Per questo le avevo comprato il negozio più grande nella zona più lussuosa del mercato. Ma quando ero andato a trovarla ad Ayeso per darle le chiavi, lei me le aveva tirate addosso.

Arrivai al suo banco e lei si comportò come se non mi conoscesse, rifiutando di accorgersi del mio saluto. Rimasi mezz’ora seduto su una panchina di legno mentre serviva i clienti.

Capii che era disposta a parlare con me quando coprì con del nylon trasparente i vassoi di pomodori e peperoni. Si sedette sulla panca, quanto più lontano riuscì senza avere il sedere posato sull’aria. Mi salutò con le uniche parole che si era degnata di rivolgermi da quando mi aveva chiesto di tagliarle le gambe semmai fosse entrata un’altra volta in casa mia. “Dov’è mio figlio? Quando torna a casa Dotun?”

Sebbene le avessi detto che Dotun era sano e salvo in Australia, dove se la cavava benissimo, almeno a credere alle sue lettere, lei continuava a comportarsi come se lo tenessi chiuso in qualche cantina solo per renderle la vita infelice. Avevo imparato a mie spese che non esisteva un modo giusto di rispondere alle sue domande. Tutte le risposte che avevo provato non avevano fatto che riattizzare il fuoco della sua collera. Ignorarle era la cosa migliore, la più facile.

“Perché non mi hai detto di venire a casa? Di cosa possiamo parlare qui al mercato?”

“Perché? Akin mi chiede perché. Adesso te lo dico, il perché: io devo venire qui a vendere la mia roba perché non voglio dover mangiare erba e sabbia. Lo sai, questo mangia la gente che non ha soldi. Io ringrazio Dio per tua sorella.” Alzò la faccia rivolgendola al cielo. “Mio Creatore, ti ringrazio per Arinola, lei si ricorda sempre della sua povera, vecchia madre. Se avessi partorito solo Dotun e quest’altro qui, a quest’ora starei a bollire sabbia per colazione.”

Sospirai. “Moomi, è per parlare di questo che mi hai chiamato?”

“E se fosse? Se fosse questo che voglio dire, tu te la fileresti? Non mi stupirei se lo facessi. Le mie parole ormai per te non significano niente.”

“Moomi, che cosa vuoi?”

Lei si incrociò le braccia sul petto. “Puoi fare tutte le magie che ti pare, continuare a imbrogliarmi. Sei il figlio di tuo padre, anche tu sei capace di dire abbastanza bugie da svegliare i morti.”

“Perché volevi vedermi?”

“Cosa urli? È così che parli a tua madre? Come un bambino educato da nessuno?”

Feci un respiro profondo. “Scusami, Ma. Non ti arrabbiare, per favore.”

“Come sta tua moglie?”

“Bene.”

“Non ha mandato neanche i saluti? A questo siamo? Lo sai che è più di un anno che non viene a trovarmi? E sì che viviamo nella stessa città, nella stessa città.”

“Ha molto da fare con il lavoro. Neanche lei vuole mangiare erba e sabbia.”

“Pensi di essere spiritoso, abi? Comunque: Arinola mi ha detto che Rotimi è stata ricoverata in ospedale. Come sta adesso, fisicamente?”

“L’hanno dimessa.”

“Hmmm, che Dio la protegga.” Lo disse senza passione, come se pregasse per qualcuno che non conosceva o che le era indifferente.

Fissai i passanti per non guardarla. “Amen.”

Tirò su col naso, poi sospirò. Sapevo che, qualsiasi cosa stesse per dire, non mi sarebbe piaciuta. Conoscevo bene quella sequenza di naso e sospiro, era una tattica vecchia di secoli, che metteva in atto per raccogliere le forze quando stava per farmi una richiesta a cui sarei stato riluttante a piegarmi.

“Perché guardi da un’altra parte?” disse. “Guarda me, guardami in faccia. Il motivo per cui ti ho detto di venire, anche se per quanto ne so io potresti aver ammazzato mio figlio...” tirò su col naso. “Comunque, se il mondo si accorge che la tua vita comincia a somigliare a quella di un pazzo, diranno che è il figlio di Amope, quello che sta andando in briciole come uno straccio vecchio. Quindi non posso star zitta, anche se tu dirai che mi puzza il fiato. Dirò quello che penso. Mi ascolti?”

“Ti ascolto, Ma.”

“Vedi, a quanto pare tua moglie è destinata ad avere dei figli abiku. Ehi, giovanotto, non alzare gli occhi al cielo quando ti parlo, credi che non ti abbia visto? Pensi che sia diventata cieca?” Mi diede uno schiaffo sul dorso della mano. “Se pure vivessi fino a mille anni, non sarai mai vecchio abbastanza per guardarmi a quel modo. Quando ti sto parlando solo per il tuo bene! Dopo tutto quello che ho fatto per te da quando sei nato!”

“Moomi, che vuoi da me adesso? Per favore, finisci quello che stavi dicendo.”

“C’è questa ragazza, forse la conosci pure.” Scosse la testa. “No, non è affatto una del tuo giro, non puoi conoscerla. Ha appena finito le superiori. È una brava figliola, ancora non ha aperto gli occhi, sai, mica come quelle ragazze moderne.”

“E?” Mi sentivo pulsare la fronte, come all’inizio di una brutta emicrania.

“Dio fa quel che gli piace – chi lo sa, magari questa ragazza sarà in grado di darti dei figli, dei figli che sopravvivano. Non sto dicendo che Yejide sia una brutta persona, ma non si può combattere contro il destino. E da come sono andate le cose da quando hai sposato quella Yejide, non credo sia destinata ad avere dei figli a questo mondo. Ci ha provato sul serio, lo vedrebbe anche un cieco quanto ci ha provato. Ma sono molto pochi quelli che riescono a vincere la battaglia contro il destino. Sono vecchia abbastanza da saperlo.”

“Vuoi che sposi questa ragazza che hai scovato?” Le diedi le spalle. Dall’altra parte della strada un uomo incollava manifesti elettorali su un lampione.

“Non avrai figli per tutta la vita? Cosa farai se Rotimi muore?”

“Rotimi vivrà.” Non stavo cercando di convincerla. Ci credevo, era un fatto. Il sole sorge a est, quattro più quattro fa otto, la mia Rotimi vivrà.

“Vedi, anche se Rotimi sopravvive... un figlio solo? In tutta la vita, un solo figlio?”

“Vuoi che sposi un’altra moglie, di nuovo?” L’uomo di fronte si allontanò dal lampione, studiò il manifesto verde, annuì e passò al lampione successivo. Il poster che aveva attaccato era verde e bianco, e da dove mi trovavo riuscivo a leggere “Speranza 93.”

“Non per forza. Se non la vuoi sposare, possiamo metterci d’accordo in un altro modo. Basta che la metti incinta.” Sbatté il dorso della mano sul palmo aperto dell’altra. “La saggezza non può essere diventata tanto rara, a questo mondo, da farci salire fino in cielo per trovarne un pochino.”

Lai lai, Moomi. Mai e poi mai.”

“Non essere tanto precipitoso nel rifiutare. So che stai pensando a quello che è successo a Funmi, ma...”

Quando fece il nome di Funmi, smisi di ascoltare le sue parole. Vedevo solo la bocca che si muoveva.

Mi batté sulla spalla. “Akin? Mi senti? Non rispondi?”

Con una mano mi strinsi la fronte, battendo il piede a ritmo con il pulsare nella mia testa. “Moomi, come se non avessi distrutto la mia vita già a sufficienza.”

Rimase a bocca aperta. “Akinyele, che stupidaggini stai dicendo?”

“Non ti impicciare più in questa faccenda, ema da soro mi mo, mi hai sentito?”

“Ma sei matto? Che cosa ho detto che...”

Mi alzai. “Non chiamarmi mai più per questo genere di discussioni. Mai più. Lai lai.

“Io? Abi, tu non sai con chi stai parlando, ni? Akin? Akinyele? Abi, te ne vai, Akin? Torna qui. Akin, sto ancora parlando con te. Non senti che ti chiamo? Ma guarda questo ragazzo. Akinyele!”

Non mi voltai.