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Le rare volte che mio padre mi parlava del suo amore per mia madre, finiva sempre dicendo, Yejide, oro ife bi adanwo ni. Una frase fatta enunciata come se fosse l’unica cosa, in tutto ciò che aveva detto, che meritasse di essere ricordata. Avevo l’impressione che la considerasse la lezione appresa dalla vita e dalla morte di mia madre, la saggezza che era tenuto a trasmettermi: Yejide, l’amore è una prova. Non ho mai capito di preciso quali avrebbero dovuto essere le implicazioni di quella sentenza. Non mi disturbavo a chiederglielo perché sospettavo che la sua spiegazione avrebbe innescato le solite descrizioni di quanto aveva sofferto mia madre per causa mia. Raggiunta l’adolescenza avevo imparato a spegnere l’audio durante le sue orribili descrizioni di quanto sangue aveva perso, ma non sono mai riuscita a superare il suo modo di guardarmi quando mi parlava della sua morte, come se mi stesse valutando, cercando di decidere se valevo quello che aveva perduto.

Nel corso degli anni avrei sentito quel modo di dire anche da altri, eppure ogni volta non riuscivo del tutto a capire che cosa intendessero. Insomma, l’amore è una prova: ma in che senso? A che scopo? E chi ci sottoponeva alla prova? Questo però credevo, mi sembra: che l’amore avesse l’immenso potere di portare alla luce tutto quello che c’era in noi di buono, di affinarci e rivelare a noi stessi una versione migliore di quello che eravamo. E sebbene sapessi che Akin mi aveva fatto passare per stupida, per un po’ continuai a credere che mi amava, e che gli mancava solo di fare la cosa giusta, la cosa buona. Pensavo fosse questione di tempo, ma prima o poi mi avrebbe guardato negli occhi e mi avrebbe chiesto scusa.

Quindi aspettai che venisse da me.

Dotun era entrato nella nostra camera subito dopo la diagnosi di anemia falciforme di Sesan, per dirmi quanto gli dispiaceva che Akin non avesse trovato una soluzione per la sua impotenza. Evidentemente pensava che io già sapessi il motivo della metà dei viaggi di Akin a Lagos: andava dall’urologo del Policlinico. La verità è che io non ne sapevo niente né dell’urologo, né dei farmaci che gli erano stati prescritti o delle procedure a cui si era sottoposto. Ma quella notte, mentre Dotun parlava – poiché se la vita ti prende in giro, devi ridere e far finta di stare al gioco –, io annuii e cercai di comportarmi come se fossi così sveglia da esserci arrivata da sola. Ma era ovvio che anche Dotun, quando uscì dalla camera, aveva capito che il mio matrimonio era stato costruito attorno a una menzogna.

Malgrado tutto, io ero convinta che Akin mi amasse. E siccome l’amore doveva essere quella prova che tirava fuori le nostre migliori qualità, mi dicevo che presto mio marito sarebbe venuto da me per spiegarsi. Concentravo tutte le mie energie nel tentativo di tenere in vita mio figlio, ma nel frattempo aspettavo che Akin venisse da me.

Dopo che mi aveva trovato a letto con suo fratello, ero sicura che mi avrebbe affrontata, mi avrebbe chiesto scusa, mi avrebbe confidato la lotta che era riuscito a tenermi nascosta e mi avrebbe pregato di restare con lui. Era difficile accettare l’idea che lui volesse tenere in piedi l’inganno per tutto il resto della nostra vita. Anche dopo che me ne andai dalla nostra camera e smisi di parlargli, ero sicura di sapere chi era davvero, e credevo che quell’uomo ci fosse ancora, dietro tutti gli inganni e le finzioni. L’uomo che credevo di conoscere non era il tipo da lasciarmi andare nella tomba continuando a imbrogliarmi.

A un certo punto, nelle settimane che precedettero la prima crisi falciforme di Rotimi, finii per accettare che Akin intendeva passare il resto della nostra vita a mentirmi, se avesse trovato la maniera di cavarsela. Mentre mi allontanavo in macchina dal Wesley Guild Hospital dove Rotimi era stata ricoverata per la prima volta, mi meravigliai che Akin mi avesse chiesto di restare con lei nel reparto. Non capiva che ero stanca di tutti quei medici che offrivano solo cattive notizie, buone notizie, silenzi cupi, rassicurazioni e una mano sulla spalla per poter dare altre buone notizie, cattive notizie? Da Olamide e Sesan fino a Rotimi, penzolavo sull’orlo di un precipizio, e ormai ero talmente sfinita che volevo solo essere lasciata cadere.

Quando la dimisero, e loro due tornarono a casa insieme, guardai Akin con occhi diversi. Non pensavo più che fosse cambiato, pensavo di non averlo mai conosciuto. Dubitai di quell’amore di cui ero stata così certa e ne conclusi che mi aveva sposata perché pensava che fossi un’ingenua credulona.

Una settimana prima delle elezioni presidenziali decisi che era venuto il momento di affrontarlo. Era in salotto con Rotimi, a guardare alla TV il faccia a faccia tra i due candidati. Non c’era motivo di aspettare la fine del dibattito per avviare la conversazione; dopo tutto, erano quasi tre anni che lo aspettavo. A un certo livello sentivo di dover colpire quando lui non se lo aspettava, senza lasciargli spazio per prevaricare. Mi sedetti sulla poltrona proprio di fronte a lui perché da lì lo vedevo bene. Volevo osservare le emozioni che gli si disegnavano in faccia e valutare le sue reazioni alla mia imboscata.

“Insomma, Akin, è vero che tu non puoi... che tu non riesci... Sei impotente?”

Vorrei poter dire che mi rispettava abbastanza da rispondere direttamente alla mia domanda quando io finalmente lo affrontai. Lui sorrise e si appoggiò contro lo schienale, tanto indietro da poter fissare il soffitto. Un lungo silenzio.

Io aspettai, guardando Rotimi che gli saliva sulle ginocchia. Alla TV il moderatore parlava dell’impatto sulla società nigeriana della politica di adeguamento strutturale dell’FMI.

“Te l’ha detto Dotun, vero? Quando?” chiese infine, stringendosi più da vicino Rotimi.

“Appena prima di dirmi che sei stato tu a chiedergli di sedurmi.”

Nelle nostre parole non c’era ardore – nessuna passione, nessun calore. Come se stessimo parlando della pioggia caduta tutto il giorno. Mentre lui accavallava e scavallava le gambe, io pensai alla strada che avevamo percorso per arrivare al punto in cui stavamo seduti uno di fronte all’altra, nel nostro salotto, a discutere per la prima volta della sua impotenza senza manifestare grande emozione.

Pensai a Funmi. Mi ricordai che Akin era stato così sicuro che non ero incinta, anche prima che i medici parlassero di pseudociesi.

Akin si strinse il naso. “E adesso cosa pensi di fare?”

Trattenni un sorriso. Non era cambiato molto. Era quasi una consolazione vedere come ancora evitava la verità rispondendo alle domande con altre domande.

“Non mi hai risposto” dissi. “Akin, è vero?”

Si coprì la faccia con le mani come se non riuscisse a sopportare il mio sguardo. Non mi commossi perché ero consumata dal desiderio di sentirlo confessare.

“Akinyele, perché ti nascondi la faccia? Guardami, e rispondi alla mia domanda.”

Non provai pietà quando lasciò scivolare le mani dal volto per portarsele attorno al collo, quasi desiderasse strangolarsi. Come potevo? Dopo tutto era stato capace di guardarmi negli occhi, nel primo anno di matrimonio, e di dirmi che ogni pene era diverso, a qualcuno veniva duro, ad altri mai. L’aveva detto con disinvoltura, infilandolo nella conversazione così da farla sembrare una di quelle cose che gli uomini dicono alle loro vergini spose riguardo al sesso. Ero sconvolta dal fatto che non aveva neanche avuto bisogno di mentire, per ingannarmi.

“Yejide, perché vuoi che ti dica quello che già sai?”

Che cosa sapevo? Sapevo che una volta mi ero bevuta le sue bugie come lui, probabilmente più di lui – immagino che almeno con se stesso lui avrà ammesso la verità. Io non avevo potuto farlo finché Dotun non aveva pronunciato quelle parole. Akin doveva essere l’amore della mia vita. Prima che avessi dei figli, era lui che mi salvava dall’essere sola al mondo; non potevo permettere che avesse delle mancanze. Perciò mi mordevo la lingua quando le mie clienti parlavano di sesso e lasciavo che mi tenesse la mano quando raccontava ai medici che la nostra vita sessuale era assolutamente normale. Io mi dicevo che rispettavo mio marito. Mi ero convinta che tacere equivaleva a essere una buona moglie. Ma le bugie più grosse sono spesso quelle che raccontiamo a noi stessi. Mi mordevo la lingua perché non volevo fare domande. Non facevo domande perché non volevo conoscere le risposte. Era comodo credere che mio marito fosse degno di fede; a volte avere fede è più facile che dubitare.

“Mi dispiace” disse accarezzando la testa di Rotimi.

Allora capii che non avrebbe risposto direttamente alla mia domanda, neanche se gli avessi tenuto un machete alla gola.

“Hai preso in giro anche Funmi?” gli chiesi.

Scosse la testa. “Lei non era come te.”

Sospirai. “Vuoi dire che non era stupida?”

“Voglio solo dire che non era vergine.”

Non mi era rimasto più niente da dirgli, così mi alzai e uscii dalla stanza. E lui non si disturbò nemmeno a chiedermi di mantenere il segreto – sapeva già che l’avrei fatto.

* * *

L’eccitabile clima pre-elettorale che aveva afferrato il paese mi travolse mio malgrado. Nei giorni che precedettero le elezioni, mi ritrovai a canticchiare gli slogan della campagna. Iya Bolu mi aveva convinta a registrarmi per votare. E con l’avvicinarsi della chiamata alle urne provavo un’insolita sensazione di potere.

Quel sabato Iya Bolu si presentò a casa nostra alle sette del mattino per andare a votare. Non riusciva a star ferma e continuava a dirmi di sbrigarmi per poter essere al seggio prima delle otto. Akin era già uscito per andare al Roundabout: si era registrato lì perché era più vicino al suo ufficio. Verso le otto e mezza mi legai Rotimi sulla schiena e uscimmo.

Quando arrivammo al seggio c’erano già centinaia di persone. Dopo aver votato ci fermammo all’ombra di un mango a chiacchierare delle prossime nozze di sua nipote, in attesa che annunciassero i risultati del nostro seggio. Mancavano due settimane al matrimonio, ma noi progettammo di partire per Bauchi con qualche giorno di anticipo. Iya Bolu voleva trovarsi sul posto per aiutare nei preparativi la famiglia di suo fratello.

Quando il funzionario elettorale, con gli occhiali che gli coprivano mezza faccia, annunciò i risultati del seggio, ci fu un fragoroso applauso e grida di “Congratulazioni, Nigeria.” Trascinata dall’euforia del momento, strinsi le mani a sconosciuti come se fossimo sopravvissuti insieme a un viaggio lungo e difficile.

* * *

Il giorno che partii per Bauchi, misi a Rotimi un vestito viola senza maniche mentre Akin, di sotto, armeggiava con la macchina. Erano le sue ferie annuali, e aveva deciso di andare un paio di giorni a Lagos. Non gli chiesi il perché – non volevo saperlo. Il vestito di Rotimi lo aveva comprato lui, convinto che avrei dato una festa per il suo compleanno. Naturalmente non ci fu nessuna festa, ma a Rotimi il vestito piaceva e tutte le volte che lo metteva si strusciava il palmo delle mani sul corpetto di pizzo, e sorrideva.

Quella mattina impiegai più del solito a vestirla; era scontrosa perché l’avevo svegliata presto, per poter uscire prima delle sei. Dopo averla convinta a mettersi le scarpe, la feci sedere sulla toeletta e mi misi la cipria. Poi tamponai la sua fronte con un po’ di talco, e lei tenne il viso perfettamente immobile mentre le passavo il piumino sulla pelle. Mi sedetti su uno sgabello per darmi il rossetto rosa. Mentre controllavo allo specchio di non essermi macchiata i denti, Rotimi si sporse in avanti, premendo il pollice sul mio labbro superiore. La guardai portarsi la mano alla bocca, e pensavo si sarebbe succhiata il dito, invece lei se lo passò sul labbro inferiore imitando il modo in cui io mi ero data il rossetto.

“Sei sveglia, eh?” le dissi.

Lei mi toccò la bocca per prendere altro rossetto, il dito morbido sul mio labbro, la pressione di una piuma. Quand’ebbe finito di impiastricciarsi la bocca col pollice, me la misi sulle ginocchia perché potesse vedersi allo specchio, ma non era interessata. Invece, si girò per guardare me in faccia, poi reclinò il capo da una parte e dall’altra, sotto il mio sguardo, quasi che fossi io l’unico specchio del quale le importava.

“Sei la più bella di tutte” dissi all’unica dei miei figli a cui non avessi mai raccontato favole. Storie e canzoni mi sembravano inutili di fronte alla malattia contro cui doveva lottare, perciò non me ne diedi la pena. Non volevo raccontarle favole, volevo guarirla, salvarla. E mentre lei stringeva le labbra come avevo fatto io pochi attimi prima, avrei voluto stringerla fino a farla rientrare in qualche modo nel mio grembo, da dove avrebbe potuto riemergere con un nuovo genotipo, libera per sempre dalla minaccia costante di dolore e malattia.

Fu solo quando emise un gemito che mi resi conto che le stavo stringendo le spalle, ansante. La lasciai andare. Era per questo che non mi concedevo di restare sola con lei troppo spesso – per via dei pensieri che mi spingevano oltre il precipizio, in un pozzo senza fondo in cui precipitavo mulinando braccia e gambe. Lottai contro la voglia improvvisa di posare il capo sulla toletta e piangere. Feci un lungo respiro e le sistemai la catenina d’oro attorno al collo.

Me la tenni sulle ginocchia, in macchina, mentre andavamo verso la tenuta in cui vivevamo prima, per prendere Iya Bolu. Mi aspettava sul portico con la borsa da viaggio.

“L’avete vista, la vostra ex casa?” disse salendo in macchina. “La nuova famiglia che ci si è trasferita l’ha distrutta. Lo vedete, come viene via la vernice? Non si sono nemmeno disturbati a ridipingerla. E lui, lui è un cane allupato, te lo dico io.”

Poi Akin andò a Omi Asoro per prendere Linda, la sua segretaria. Anche lei andava a Lagos quella mattina, e Akin le aveva offerto un passaggio. Quando arrivammo, lei si affacciò alla finestra e disse che ci avrebbe messo cinque minuti. Nell’attesa Akin giocherellò con l’autoradio, cercando una stazione che trasmettesse un notiziario. Erano passati nove giorni dalle elezioni, e ancora non avevano annunciato nessun vincitore.

“Stai cercando qualche aggiornamento su questa faccenda delle elezioni?” chiese Iya Bolu ad Akin. “Ridendo e scherzando sono passate quasi due settimane. È già di nuovo lunedì. Com’è possibile che la corte abbia ordinato di non comunicare i risultati? Perché?”

“Non dargli retta. Quella è una corte che non c’entra niente, e il giudice lo sa benissimo. Solo il tribunale competente per l’elezione presidenziale ha la giurisdizione per farlo.”

Abi, questi soldati non vogliono mollare il potere, ni?”

“Ma io sono sicuro che i militari cederanno” disse Akin. “Sono stati spesi troppi soldi per questa transizione. Vogliamo buttarli tutti nel cesso?”

“Speriamo che Dio abbia pietà di noi” sospirò Iya Bolu. “Abi, i nostri figli dovranno crescere sotto un governo militare?”

Appena Linda salì in macchina, io starnutii. Sembrava che si fosse vuotata addosso due bottiglie di chissà quale profumo si era messa quella mattina. Akin spense l’aria condizionata e aprì il finestrino.

Arrivati al parcheggio degli autobus, passai Rotimi a Linda.

“Ma non te la porti?” chiese Iya Bolu chiudendo lo sportello e sistemandosi il telo.

Scossi la testa e aspettai che Akin aprisse il baule. Tirò fuori la mia borsa da viaggio e ci fece strada fino alla pensilina della stazione. Sulla corriera per Bauchi già aspettavano sette passeggeri.

Akin consegnò la mia borsa all’autista, poi fece il giro del pullman. Esaminò le gomme e diede un’occhiata a volante, pedali e cambio. Lo faceva sempre, tutte le volte che mi accompagnava agli autobus. Quando eravamo fidanzati lo trovavo divertente, ma quella mattina mi chiesi quale fosse il suo vero motivo. Adesso guardavo con sospetto anche la più semplice delle sue azioni, e mi chiedevo se alla base non ci fosse qualche enorme inganno.

“Io e Linda andiamo” disse mentre io salivo sull’autobus.

“Fate buon viaggio” dissi io scostandomi per far posto a Iya Bolu accanto a me. Akin e io eravamo sempre educati quando eravamo insieme in pubblico; a volte ci sforzavamo addirittura di apparire cordiali.

“Ti chiamo stasera” disse lui. “Iya Bolu, hai detto che non disturbo se chiamo a casa di tuo fratello dopo le sette?”

“Sì, nessun problema. Basta che dici alla cameriera con chi vuoi parlare.”

“D’accordo, allora. Buon viaggio.”