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Avrei dovuto avere il ciclo la settimana successiva alla mia escursione sulla montagna. Niente. Prima della fine del mese avevo il seno così turgido che solo mettermi il reggiseno mi eccitava. Vomitavo tutte le mattine alle sette, puntuale come un orologio.
Ero certa di essere incinta ed ero convinta che il mio corpo mi stesse mandando segnali che un test avrebbe ben presto confermato. Sapevo che le analisi dovevano precedere qualsiasi forma di festeggiamento, ma ero euforica all’idea di come tutto sarebbe stato meraviglioso, subito dopo la conferma della gravidanza da parte dei medici. Non parlai ad Akin di quello che stava succedendo al mio corpo, perché non volevo che rovinasse le mie speranze. A malapena ci rivolgevamo la parola. Lui passava quasi tutte le sere nell’appartamento che aveva affittato per Funmi. Io ne trascorrevo buona parte davanti allo specchio in bagno, a studiarmi la pancia da diverse angolature.
“Che fai?” mi chiese Akin quando ero incinta di qualche settimana. Non lo avevo visto entrare in bagno.
“Come sta tua moglie?” gli chiesi, tirando giù la camicetta.
Lui mi si avvicinò, e la tirò di nuovo su. “Che c’è che non va?”
Io diedi uno strattone alla camicetta per riabbassarla. “Perché dovrei avere qualcosa che non va?”
“Sono solo preoccupato. Perché stavi...?”
“Te l’ho detto. Sono incinta.”
Akin indietreggiò come se gli avessi dato un pugno alla mascella. Mi fissò come se sul naso mi fosse cresciuto un corno. Poi scoppiò a ridere. Un rumore breve, destinato a perseguitarmi durante il sonno.
“Hai fatto sesso...” la risata gli morì in gola con un gorgoglio. “... con un altro uomo?”
“Non capisco quel che dici.”
Il suo pomo d’Adamo cominciò a fare furiosamente su e giù, minacciando di scoppiare, di rompere la pelle e schizzare sangue dappertutto sulle piastrelle bianche del pavimento del bagno.
“Lo sappiamo tutti e due che non puoi essere incinta. Sono mesi che nemmeno ti tocco. A meno che tu... tu...” Rimase a bocca aperta, ma le parole non vennero fuori.
Uscii dal bagno e mi precipitai giù e fuori di casa prima che potesse seguirmi. Avevo bisogno dell’aria fresca della sera per schiarirmi la mente e della luna in cielo per rinnovare la mia fede.
Il mattino dopo Akin non rispose al mio saluto. Mescolò lo zucchero nel caffè con la mano tremante.
“Oggi inizio il corso preparto” dissi.
La tazza era a metà strada verso le sue labbra. Ricadde sul tavolo, macchiando la tovaglia bianca di liquido scuro.
“Come hai potuto tradirmi, Yejide?”
“Non capisco di cosa parli” dissi io, dando un morso al pane tostato.
Lui si mise a ridere. “E allora cos’è questa? L’immacolata concezione? E come lo chiameremo il bambino? Piccolo Satana? Quando pensi che arriverà il demone a visitarmi in sogno?”
Sbattei una fetta di pane su un piatto. “Ah, adesso parli, eh? Adesso sputi fuori tutto? Chi è che ha sposato un’altra donna? In questa casa, chi è che ha sposato un’altra donna, eh? Dimmelo! Dimmelo, adesso! Chi è lo stronzo che ha tradito?”
Akin seguì con il pollice i bordi della macchia di caffè. “Ne abbiamo già parlato, eravamo d’accordo.”
Ero talmente arrabbiata che quasi non riuscivo a respirare. Mi alzai e mi sporsi sopra il tavolo per mettergli la faccia davanti alla sua. “Ok, allora. Mettiamoci d’accordo su un’altra cosa. Io voglio un figlio e visto che tu sei troppo occupato a casa della tua nuova moglie per cercare di mettermi incinta, posso rimediarne uno da chi mi pare e piace.”
Si alzò in piedi e mi strinse le braccia, appena sopra ai gomiti. Le vene sulla fronte minacciavano di scoppiare. “No che non puoi” disse.
Io gli risi in faccia. “Posso fare quello che mi pare.”
Le sue unghie mi si conficcarono nelle braccia, attraverso le maniche. “Yejide, tu non puoi.”
Io scossi la testa. “Sì invece, posso. Posso. Posso.”
Cominciò a scrollarmi fino a farmi scuotere la testa e sbattere i denti. Poi a un tratto mi lasciò andare. Crollai sulla sedia, aggrappandomi al tavolo per non cadere.
Lui prese un piattino e lo tenne sollevato. Per un terrificante momento lo vidi che mi spaccava la delicata porcellana sulla testa. Invece lo lanciò dall’altra parte della stanza, poi strattonò la tovaglia. Piatti, tazze, piattini e thermos rovinarono a terra. Mio marito non era un uomo violento, e l’uomo che alzò una sedia per sbatterla contro il tavolo fino a spaccarla era una persona che io non conoscevo.
* * *
Il Wesley Guild Hospital puzzava di disinfettante. L’odore di quella pulizia di origine chimica mi spinse per due volte a correre fuori dal corso preparto per vomitare. Mai avrei pensato che il vomito potesse rendermi così felice. Eppure sorrisi allo schifo che avevo riversato nel canale di scolo e avevo voglia di richiamare i passanti perché venissero a vedere. L’incapacità di trattenere il cibo nello stomaco, l’esasperata sensibilità al contatto fisico e più in generale il disagio che provavo erano riti di passaggio verso la maternità, l’iniziazione a una casta alla cui appartenenza avevo sempre anelato. Finalmente ero una donna.
Un’infermiera ci spiegò cosa stava succedendo al nostro corpo. Ci insegnò una canzone sull’allattamento e poi parlammo di alimentazione e di esercizio fisico.
Al termine della lezione l’infermiera mi si avvicinò. “Congratulazioni, signora! Fisicamente come stai?”
“Grazie, Ma. Sai com’è, adesso” ridacchiai. “Continuo a vomitare tutto quel che mangio, e non riesco a mandar giù molto. Dalla settimana scorsa ho mangiato solo ananas e fagioli, sorella, pensa che abbinamento. Ananas con fagioli cotti nell’olio di palma! Ci provo e ci riprovo, a mangiare qualcos’altro, ma niente da fare, non c’è altro che rimanga giù.”
“Abi, sono cose che capitano. A dire il vero, con il mio ultimo riuscivo a mangiare solo eba, niente stufati, né verdure di contorno, niente, solo eba e acqua. Pensa un po’. Se cercavo di mangiare qualcos’altro, mi usciva subito direttamente dal naso.”
Ci mettemmo a ridere.
“E poi, dormire. Riesco a dormire solo su un fianco” dissi. “Ogni volta che devo girarmi, mi sveglio.”
L’infermiera mi guardò la pancia. “Non è ancora così grossa.” Aggrottò la fronte. “Non dovresti avere problemi a dormire, in questo stadio. Spero che non ci sia niente...”
“Non c’è nessun problema – procede tutto normalmente.”
“Ah, e da quanto va avanti? Questo disagio, da quanto?”
“Infermiera, Zietta, perché ti preoccupi? Ti dico che va tutto bene; probabilmente sono solo io.”
“Ah-ha. Vedo che mi chiami Zietta e Infermiera. Non mi riconosci? Mi faccio i capelli al tuo salone, due volte al mese.”
“Ah, sì, è vero” dissi, cercando senza riuscirci di ricordarmi la faccia.
“Ti ricordi, adesso?” chiese lei.
Io sorrisi e annuii. “Ma certo” dissi, sempre senza riuscire a mettere a fuoco la sua faccia.
“Congratulazioni, sorella. Gli uomini, loro, non capiscono. Ma grazie a Dio tutti i tuoi nemici sono condotti alla vergogna. Danno sempre la colpa alla donna, ma a volte è il loro corpo ad avere qualche problema.” Mi abbracciò stretta come se fossimo compagne di squadra in qualche gioco misterioso e io avessi appena segnato il gol vincente contro gli avversari.
* * *
Al mio ritorno dall’ospedale Funmi mi aspettava davanti al negozio. Dopo la sua ultima visita avevo dato ordini precisi alle mie parrucchiere, perché non la lasciassero mai più entrare nel salone. Ma quel pomeriggio fui felice di vederla. Quel giorno sarei stata felice di vedere tutte le mie matrigne allineate davanti al negozio. Il corso preparto mi aveva riempita di amore incondizionato per qualsiasi creatura vivente.
“Entra, cara” le dissi.
Le offrii una bottiglia di Coca, che lei non toccò finché non ne ebbi bevuto un sorso io, rassicurandola che non era avvelenata.
“Sono venuta a supplicarti” mi disse.
Ma la sua mascella contratta mi diceva che era qui per litigare, non per supplicare.
“Nostro marito ha bisticciato con me stamattina, per causa tua. Ha detto che non verrà più a trovarmi a causa tua. Lascialo venire, ti prego, perché io ci ho provato, per te. Ho provato a restare fuori quando il mio posto è dentro. Ti prego!” Il tono era abbastanza basso da dare l’impressione che non volesse farsi sentire da nessuno, ma abbastanza alto perché le parrucchiere e le clienti, insolitamente silenziose, potessero ascoltare. Capii allora che era una donna pericolosa, quella Funmi. Il genere di donna che ti chiama strega apposta per farsi picchiare a morte e far finire te in galera.
Mi sentivo generosa. Quel pomeriggio avrei potuto dar via tutto quello che avevo in negozio. Ero incinta, finalmente. Avevo partecipato a una lezione preparto e il personale mi aveva trattata con ogni premura: mi avevano detto di mangiare molta frutta, riposare e fare moto. Nient’altro contava. Dio era stato generoso con me e io non avevo motivo di accaparrarmi mio marito. E poi, che cos’era un marito rispetto a un figlio che sarebbe stato tutto mio? Un uomo può avere molte mogli o concubine; un figlio può avere una madre soltanto.
“Gliene parlerò. Lo vedrai prima della fine della settimana” le dissi.
Funmi rimase a bocca aperta, immagino fosse un’espressione di sorpresa. Era venuta per litigare, in cerca di una storia da raccontare ai quattro venti per dimostrare che ero cattiva, e le toccava andarsene disarmata. Dissimulando il disappunto, si alzò e si accomiatò. Mentre stava per uscire le dissi: “Mia cara, sei tra i primi a saperlo, oggi ho iniziato il corso preparto. Dio mi ha fatto la grazia.”
Ruotò sui tacchi e mi fissò sbalordita. Nei suoi occhi lessi il riconoscimento del fatto che adesso ero io a costituire una minaccia per lei, e non il contrario. Si portò le mani alle tempie. Incapace di fingere contentezza, se ne andò e basta.
Le mie parrucchiere erano pazze di gioia: mi abbracciarono, risero e cantarono inni di lode. Persino le clienti parteciparono. Ero un miracolo, ero la vendetta di tutte le brave donne come me. Io rimasi seduta, certa com’ero di essere cresciuta di statura, certa che se mi fossi alzata avrei sfondato il soffitto con la testa.
Com’era stata mia intenzione, la notizia della gravidanza si diffuse in un lampo. Funmi accompagnò da noi mia suocera quella sera stessa. Era chiaro che non vedeva l’ora di giocare alla brava moglie più giovane, adesso che le mie quotazioni nella vita di Akin si erano consolidate. Quando rientrai, le trovai sul portico in attesa.
Accolsi sorridente l’abbraccio di Moomi, annuendo ogni volta che lei chiedeva: “È vero? È vero?”
Funmi aveva un sorriso così largo che solo a guardarla mi facevano male le guance.
“Devi darci due gemelli. Due bei maschietti grassocci, due maschioni grassi. Ecco cosa ci darai” disse Moomi quando entrammo, sprofondando nella poltrona.
“Per come mi sento ora, sarei pronta a darti sei maschi in un colpo solo” dissi.
“Andiamoci piano – prima due maschi, basta che mi dai questi due per primi. Dopo di che, lascio a te di scegliere qualsiasi magia tu voglia fare.”
“Cosa volete da mangiare?” chiesi.
Moomi scosse la testa. “Oggi no. Questa notizia è più che sufficiente a farmi sentire sazia per giorni e giorni. E poi non voglio che tu faccia su e giù inutilmente. Guarda di rilassarti molto, non ti chinare per pulire per terra e non portare pesi. E anche per il mangiare, ti prego, non metterti a pestare lo yam. Forse dovresti addirittura prenderti una di quelle ragazze che danno una mano in casa, per farti aiutare in questo periodo.”
“Non ho bisogno di aiuti in casa, in realtà” dissi io. “Penso di potermela cavare...”
“Verrò io ad aiutare” intervenne Funmi.
“Cosa?” dissi io.
“Non c’è bisogno di pagare una domestica. Che ne dici se mi trasferisco qui, così posso dare una mano con i lavori di casa?” Sorrise. “In questo periodo devi cercare di rilassarti moltissimo.”
“E questo è vero” disse Moomi. “Anzi, penso proprio che dovresti fare così.”
“Solo se va bene per te, Ma.” Funmi si sporse verso di me. “Ti dispiace?”
Mi ero fatta fregare un’altra volta. Non so bene perché, ma ero ancora tanto stupida da pensare che quelle due fossero entrate nel mio salotto senza un ordine del giorno già deciso. Sì, la gravidanza mi aveva resa così generosa da accogliere Funmi nel mio salotto, ma non ero disposta a permetterle di trasferirsi in casa mia. Ero abbastanza intelligente da capire che se veniva a stare lì con il pretesto di aiutarmi, non se ne sarebbe più andata.
Non riuscii a escogitare un modo per dirle di no. Quanto meno, non c’era modo di farlo senza che Moomi pensasse che le mancavo di rispetto. Malgrado tutto, desideravo che la famiglia di Akin mi amasse. Non volevo che mio figlio crescesse all’insegna del risentimento contro sua madre, come avevo fatto io. Se fossi morta, volevo che l’amore nei miei confronti costringesse le persone che mi sopravvivevano a prendersi cura di mio figlio. Stavo per diventare madre. La posta in gioco era molto più alta, dovevo essere tranquilla e amabile, o almeno così dovevo mostrarmi. Ne andava del destino del mio nascituro.
Per questo sorrisi mentre dentro ribollivo, e dissi che l’avrei chiesto ad Akin. Moomi sorrise soddisfatta, Funmi sorrise pregustando la vittoria. Il mio, di sorriso, era tirato, non vedevo l’ora che se ne andassero per potermelo togliere dalla faccia. Che bel quadretto avremmo fatto tutte e tre, con i nostri perfetti sorrisi.