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Le mettemmo nome Olamide e poi altri venti nomi. Era di un giallo tenue che diventava rosa quando piangeva, cioè quasi sempre se non aveva un capezzolo in bocca. Le orecchie erano di un bruno simile a quello del dorso delle mani di Akin. Moomi ci assicurò che era stato così anche Akin, e che presto la nostra bella bimba sarebbe passata dal giallo tenue alla sfumatura bruna delle sue orecchie.

La cerimonia del nome fu una gran festa. Olamide era nata di sabato, il giorno più comodo della settimana. Alla festa, sette giorni dopo, vennero centinaia di persone visto che non interferiva con un giorno lavorativo né con la funzione della domenica. Le mie matrigne arrivarono di venerdì, piene di sorrisi a mascherare la delusione che s’intravedeva nei loro sguardi. Sbirciavano nel lettino di Olamide come se si aspettassero di trovarvi un cuscino avvolto in un telo invece di un neonato. Mi sommersero di chiacchiere su quant’erano felici, fecero i nomi di preti e pastori da cui erano andate perché pregassero per me, perché restassi incinta. Io accolsi sorridendo le loro bugie e le condussi fuori dalla camera senza dar loro il tempo di toccare la mia piccola.

Dotun venne da Lagos con la moglie e i figli. Arrivarono un po’ prima della cerimonia, più o meno quando il DJ cominciava a sussurrare Prova, prova, uno, due, uno, due dentro il microfono. Io, in camera da letto, ero seduta su un secchio pieno di acqua calda, allume e disinfettante, e mi stavo chiedendo perché tutti i presentatori ripetessero sempre quelle parole, e mai nient’altro. Moomi stava di guardia a controllare che non mi alzassi prima che mi fosse entrato nella vagina vapore sufficiente a stringere le pareti.

Moomi ridacchiò. “Vedrai che tra poco le dita di Akin ricominceranno a cercarti al buio sotto il telo.”

Quanto a me, a quel punto avrei voluto qualcosa di più delle dita di suo figlio sotto il telo, ma questo a mia suocera non lo dissi: i suoi malcelati accenni al sesso già mi mettevano in imbarazzo.

Avrebbe dovuto essere un sollievo per me l’arrivo della moglie di Dotun, che entrò in camera liberandomi dalle ipotesi di Moomi sulle prodezze sessuali di suo figlio e dandomi modo di scappare dai vapori caldi che mi bruciavano la vagina dolorante come se ci avessero infilato dentro il peperoncino. Invece mi sentii avvampare ancora di più, quando mi alzai per abbracciare mia cognata in lacrime. Ajoke singhiozzava sulle mie spalle nude e io le afferrai la mano, temendo che perdesse le staffe e mi versasse in testa l’acqua bollente con l’allume. Di sicuro sapeva tutto, e io ero destinata alla vergogna nel giorno più felice della mia vita.

Lei si ritrasse e scoppiò in quella sua tipica risata che sembrava sempre venire da ogni parte del suo essere, partiva dagli alluci e risaliva su fino a che non erompeva dalla bocca. “Dio è buono. Il nostro Dio è così buono!” Sorrideva, gli occhi pieni di pura gioia e di sollievo, come me quando avevo tenuto mia figlia tra le braccia la prima volta. Alle riunioni di famiglia Ajoke non aveva mai accennato alla mia mancanza di figli, non parlava quasi mai, né con me né con gli altri. La sua insolita dimostrazione d’affetto mi sorprese e mi imbarazzò. L’abbracciai di nuovo per evitare che mi guardasse negli occhi. Moomi si unì a quel largo abbraccio. Fui sommersa dalle loro risa e dalle mie. Ajoke emetteva gridolini di contentezza che mi punzecchiavano come una forchetta.

Olamide non fece che urlare per tutta la cerimonia, se non ci fosse stato un microfono nessuno avrebbe sentito i nomi pronunciati dal vicario. La portai su per allattarla, fino a che non si addormentò. Di sotto, la festa proseguì fino alle prime ore del mattino. Molto dopo che i musicisti ebbero smesso di suonare, il cibo e le bevande continuavano a scorrere fino a che la maggior parte degli ospiti non crollò addormentata sulle sedie di metallo blu. Io non mi unii ai festeggiamenti nemmeno quando Akin, ubriaco, cominciò a cantarmi canzoni d’amore e cercò di trascinarmi giù con lui. Non me la sentivo di lasciare mia figlia ad altri, nemmeno a mia suocera. Pensai a mia madre. Se lei fosse stata viva, le avrei potuto affidare Olamide e scendere a ballare.

* * *

La mattina dopo Olamide fu la prima a svegliarsi. Le sue grida mi strapparono al sonno. Le feci il bagno e la allattai. Si addormentò quasi subito, mentre ancora succhiava. Aspettai che allentasse la presa sul capezzolo e me la misi in spalla legandola con un telo. Poi scesi giù a cercare qualcosa da mangiare.

Mettendo il piede sul primo gradino, lanciai un urlo. Scesi vacillando senza smettere di gridare, reggendomi alla ringhiera per non cadere. In fondo alle scale c’era Funmi, senza vita. Aveva addosso una camicia da notte rosa come non ne avevo viste mai. Aveva una sola bretellina, a sinistra, mentre a destra scendeva fino all’ombelico lasciando scoperto il seno. Ecco cosa ci vuole per strappare un uomo dal letto della moglie, pensai mentre ancora gridavo cercando aiuto e le sollevavo la testa dalla pozza di sangue: un seno giallo nudo e una camicia da notte rosa.

Il corpo era già freddo. Scossi la testa gridando il suo nome. Mia suocera si precipitò giù con il telo annodato alla meglio sul petto; subito dietro di lei c’erano Akin e Ajoke.

“Che è successo?” gridò Moomi anche se ormai era già al mio fianco.

“Funmi?” Akin sbatteva le palpebre guardando sua moglie come se non la riconoscesse. Gli puzzava il fiato di aglio e di alcol.

Moomi si inginocchiò accanto a me, alzò la mano di Funmi e la guardò ricadere pesantemente al suolo. Cercò di infilarle un dito tra i denti stretti, continuando a chiamarla per nome.

“Ahhh, che guaio! E adesso come se ne esce!” disse Moomi rialzandosi. Poi levò le mani al cielo e cominciò a ballare, schiaffeggiandosi e ondeggiando a destra e a sinistra, piegandosi sulle ginocchia e urlando di tanto in tanto: “Ho accumulato un debito che non posso ripagare. Sono nei guai. Funmi, cosa vuoi che dica a tua madre? Ahhh, che guaio!”

Fu Ajoke che pensò a sentirle il polso e il cuore.

Mentre lei si chinava su Funmi, io mi strinsi ad Akin conficcandogli le unghie nel braccio. Moomi continuava a schiaffeggiarsi ma si bloccò quando Ajoke alzò la testa verso di noi.

“È andata” disse piano.

“Ahhh! Sono nella merda! Funmi! Ahhh! Ho un debito. Un debito eterno” urlò Moomi riprendendo a ballare.

“Che succede?”

Tutti ci voltammo verso la scala. In cima c’era Dotun, con addosso solo i boxer.

Chiusi gli occhi: ah, se Funmi avesse scelto un giorno migliore per morire! Un giorno che non avesse a che fare con la nascita della mia Olamide e con il suo battesimo. Non avrei dovuto fare pensieri del genere, avrei dovuto essere triste. E invece ero scocciata, mi sentivo messa in ombra, ma non ero triste. Nemmeno un po’.

* * *

Cambiammo le piastrelle in salotto perché non c’era modo di lavare via il sangue di Funmi. Qualche volta mi fermavo in fondo alle scale dove l’avevo trovata e guardavo in su, aspettandomi quasi di vederla scendere, sinuosa, ancora una volta, con quei tacchi che portava anche per casa e che facevano risuonare i suoi passi come chiodi battuti sul cemento. Continuavo a immaginare di vederla comparire sulla porta con la mano girata a bella posta per mostrare lo smalto appena messo. Qualche volta, mentre grattavo l’okra in una ciotola d’acqua, mi sentivo i suoi occhi sulla nuca, ma quando mi voltavo non c’era mai lei, solo la porta della cucina che sbatteva sui cardini. Non era nella stanza che aveva diviso con mio marito. Nell’armadio non c’erano più neanche i suoi vestiti, ma una sfilza di stampelle vuote che sua sorella aveva lasciato quando era venuta a prendere le sue cose.

La sorella le assomigliava in modo impressionante, era solo un po’ più alta: dovetti guardarle i piedi nelle ballerine diverse volte per convincermi che non si trattava di Funmi con i tacchi alti. Non disse una parola a nessuno mentre portava via le cose della sorella morta. Quando se ne andò tirai un sospiro di sollievo: avevo temuto il dramma, che mi assestasse uno schiaffo o due per essere sopravvissuta alla mia rivale – chissà se la cosa mi rendeva sospetta per la morte improvvisa di Funmi? Avevo avuto paura che qualcuno ipotizzasse che ero stata io a spingere la poveretta giù per le scale, ma nessuno lo fece. Si pensava che Funmi, stordita e probabilmente ubriaca dopo la festa, fosse scivolata salendo le scale di notte.

Non andai al suo funerale; Moomi pensava che la sua famiglia si sarebbe arrabbiata vedendomi. Ci andò Akin, e a parte il malumore la sera delle esequie, che trascorse scolando una birra dopo l’altra, non sembrava per niente in lutto per la morte di Funmi. Niente sguardo perso nel vuoto, né scoppi di rabbia contro i conduttori televisivi o per uno sgabello fuori posto, niente serate passate fuori casa per rientrare alle ore piccole traballando e vomitando all’ingresso.

Passava le sere a cantare canzoni inventate per Olamide e a leggerle articoli dal giornale. A meno di tre mesi, mia figlia sapeva già tutto dei programmi del comitato di revisione della Costituzione e dell’assemblea costituente. La cosa più bella era osservare mio marito che le diceva cose che lei non poteva capire. Era così perfetto, così surreale che in quei momenti avrei voluto premere il pulsante per mettere in pausa la vita.

Pian piano Funmi svanì dalla mia mente come un brutto sogno.

Ben presto le mani di Akin cominciarono a tastarmi nelle prime ore del mattino. Scavalcando la forma addormentata di Olamide, mi toccava il seno e sussurrava che dovevamo fare un altro figlio. E anche se a quel punto Moomi mi aveva già infilato tre dita nella vagina assicurandomi che era già abbastanza stretta, e mettendo fine al trattamento con l’acqua calda e l’allume, io non ero ancora pronta per il sesso. Lo dissi ad Akin ma lui non mi stava a sentire, e invece cercava di sedurmi sussurrandomi come sarebbe stata bella la nostra vita con un altro figlio.

E io mi arresi come facevo sempre per effetto della sua voce roca.

* * *

Olamide sarebbe diventata ancora più scura di Akin, più simile a me e a mia madre, nera come la notte e splendente sotto il sole. A scuola avrebbe preso tutti i premi e io avrei assistito a tutte le cerimonie di premiazione battendo forte le mani così che tutti sapessero che era figlia mia. Avrebbe continuato gli studi e frequentato l’università, naturalmente, per fare il medico o l’ingegnere, oppure l’inventore, avrebbe preso il Nobel per la medicina, la chimica o la fisica.

Tutto questo lo vedevo nei suoi occhi quando ancora succhiava il latte, e ne ero fiera.