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“La signora la raggiunge più tardi, signore?” Lo sguardo dell’addetto alla reception mi giudicava incapace di occuparmi di Rotimi senza l’aiuto di una donna.

“Le dispiace farmi mandare una bottiglia di vino dal servizio in camera?” dissi io. Dopo essere rimasto bloccato per ore nel traffico di mezzogiorno al mio arrivo a Lagos, ero riuscito comunque ad arrivare in tempo per l’appuntamento con l’urologo al Policlinico – solo per sentirmi dire che il medico era ammalato e non sarebbe tornato allo studio prima di giovedì. Non ero proprio dell’umore adatto per elargire una risposta al portiere di un albergo.

Quello annuì e prese il telefono.

Appena in camera cambiai il pannolino di Rotimi. Mentre immergevo la pezza sporca nel lavandino del bagno, presi mentalmente nota di chiedere a Yejide se non fosse ora di abituarla al vasino.

Non scesi al ristorante, per cena, ma mi feci portare un po’ di riso in camera. Rotimi non voleva farsi imboccare. Continuava a cercare di togliermi di mano il cucchiaio. Quando mi arresi aveva già buttato per terra, infuriata, un pezzo di carne. Dopo che il servizio in camera ebbe ripulito il casino prodotto dalla bambina, accesi la televisione e cominciai a fare su e giù per la stanza litigando con la TV sullo schifo che stava succedendo nel paese. Sul letto, Rotimi rideva e batteva le mani come se stessi dando spettacolo per lei. Dopo un’ora passata a cambiare canale nella speranza di intercettare qualche nuovo comunicato del governo militare in merito alle elezioni, spensi l’apparecchio in preda all’agitazione.

Prima che Dotun restasse senza lavoro, tutte le volte che andavo a Lagos alloggiavo da loro a Surulere. Guardando Rotimi che, nella stanza d’albergo, strappava un braccio alla bambola, desiderai essere di nuovo da lui, a bisticciare sull’attuale situazione del paese. Sapevo che lui avrebbe giustificato il rifiuto del governo a comunicare i risultati elettorali; era il genere di idiota che proclamava, a chiunque fosse interessato, che i militari erano quanto di meglio fosse capitato alla nazione. Sentivo la sua mancanza.

Impossibile non pensare a lui, quando ero a Lagos. Qui avevamo frequentato insieme l’università, quando io ero all’ultimo anno, dividendo un appartamento vicino al campus. Fu a quell’epoca che gli dissi che non avevo mai avuto un’erezione. All’inizio si era messo a ridere ma poi, accorgendosi che ero serio, si era grattato la nuca e mi aveva detto di non preoccuparmi, che sarebbe successo quando avessi incontrato la ragazza giusta. Ed essendo Dotun, in attesa che si palesasse la donna giusta, durante il giorno faceva sfilare per l’appartamento una serie di ragazze e la notte mi trascinava nei quartieri a luci rosse di Allen Avenue. Era stato lui, durante il mio ultimo semestre all’università quando già seguivo una terapia presso una clinica privata di Ikeja, a comprare erbe e beveroni miracolosi che mi facevano da purga ma non mi indurivano il pene. Grazie a lui credo di aver visto tutti i video pornografici esistenti in Nigeria. Guardai di tutto: uomini e donne, uomini e uomini, donne e donne – nessuno funzionò.

Pensando a mio fratello mi venne in mente di chiamare sua moglie, Ajoke, per chiederle se potevo andare a trovare i bambini mentre ero in città. Non avevo intenzione di rispondere alla lettera di Dotun, ma mentre Rotimi mi tirava il naso ridendo a ogni mio guaito, non potei negare che gli dovevo qualcosa, malgrado la sua relazione con Yejide.

Invece telefonai a Bauchi, ma la cameriera mi disse che Iya Bolu e mia moglie erano già andate a dormire.

* * *

Il martedì mattina comprai il giornale, e lo sfogliai in cerca di notizie su quando sarebbero stati comunicati i risultati delle elezioni. Le pagine erano piene delle ipotesi più fantasiose, di diverse teorie e di editoriali irritati, ma contenevano ben poche informazioni. Nessuna dichiarazione da parte del governo militare federale. Era ormai evidente che l’ingiunzione del tribunale farsa, che aveva bloccato la pubblicazione del responso delle urne, in qualche modo faceva il loro gioco. Le corti supreme degli Stati di Ibadan e di Lagos avevano già emanato delle controsentenze ordinando alla commissione elettorale nazionale di rendere noti gli esiti non ancora pubblicati. Io non credevo che il bizzarro dramma che stava andando in scena fosse segno che i militari intendevano tenersi aggrappati al potere a tempo indefinito. Pensavo, non so bene perché, che stessero semplicemente cercando di rimandare di qualche mese la data del passaggio di consegne, e che rinviassero i risultati a questo scopo.

Ricordo di aver pensato, chiudendo il giornale, che la situazione si sarebbe risolta al massimo nell’arco di qualche settimana. Davo per scontato che i militari sapessero di essersi resi impopolari e che prima della fine dell’anno sarebbero rientrati nelle caserme. Se quella mattina mi avessero detto che la Nigeria sarebbe rimasta per altri sei anni sotto la dittatura militare, mi sarei fatto una risata.

Dopo colazione telefonai di nuovo a Bauchi e parlai con Iya Bolu. Mi disse, alzando la voce, che in quel momento Yejide era in bagno, dandomi l’impressione che mia moglie fosse lì vicino ma che non volesse parlarmi. Io invece volevo parlare con lei. Avevo dato per scontato che, essendo lontana, avrebbe avuto voglia di parlarmi, se non altro per sapere come stava Rotimi. Avevo intenzione di buttar lì una frase su quello che stavo facendo a Lagos. Mi sembrava di essere pronto a parlare con lei del mio disturbo, e pensavo che non doverla guardare in faccia fosse un vantaggio. Se non altro non poteva voltarmi le spalle e andarsene. Al massimo poteva riattaccare. Mentre dicevo a Iya Bolu che avrei richiamato prima di sera, mi sentivo pronto a dire tutto a Yejide, persino di quando, spinto dalla disperazione, ero andato da un guaritore tradizionale.

Mi ero spinto fino a Ilara-Mokin per consultare Baba Suke nel periodo che tuttora considero uno dei peggiori della mia vita. All’epoca Yejide, schernendo ogni prova clinica del contrario, proclamava al mondo intero di essere incinta.

Ero convinto che tutti i guaritori fossero vecchi. Ma Baba Suke era giovane, probabilmente non aveva ancora trent’anni. Mi diede da bere un preparato color catrame e si fece pagare cinque naira.

Mentre tornavo a Ilesa sentii un movimento appena sopra l’inguine. Parcheggiai sul ciglio della strada, chiedendomi se quel lento rimescolio, il contrarsi e rilassarsi dei muscoli addominali, significasse che la pozione faceva effetto.

Fu improvviso. E finché la puzza non invase l’abitacolo non riuscii a crederci. Non avevo una cura: solo una diarrea come non ne avevo mai avute prima. Rimasi inebetito, mentre le feci acquose mi inzuppavano i jeans e le macchine mi sfrecciavano accanto. Il mese dopo andai a Lagos a trovare Dotun, e senza dire una parola riguardo a Baba Suke lo supplicai di venire a Ilesa a mettere incinta Yejide.

Quel pomeriggio, quando chiamai Bauchi, la cameriera disse che Iya Bolu e Yejide erano uscite. Anche quando, la sera, Iya Bolu riferì di nuovo che Yejide era in bagno, io mi ripetei che se era rimasta con me dopo il litigio, qualcosa doveva voler dire. Ancora non mi rivolgeva la parola e se cercavo di parlarle spesso usciva dalla stanza, ma io le ero grato che fosse rimasta in casa nostra. Il mio segreto era stato svelato ma noi vivevamo ancora sotto lo stesso tetto. Questo doveva pur contare. Una volta tornati a Ilesa avevo intenzione di farla sedere e chiederle se potevamo ricominciare da capo, su un piede nuovo.

* * *

Il mercoledì mi svegliai con le voci di un annullamento delle elezioni presidenziali. Non credo di aver mai sentito, prima di quel giorno, il termine “annullamento” se non riferito al matrimonio. Di certo non l’avevo mai sentito dal cameriere di un albergo. Prima di sera le voci erano diventate notizie e una piccola folla era scesa in piazza a protestare, senza cartelli, e a bruciare copertoni. Un uomo stava in mezzo alla strada a braccia alzate come ali mentre altri costruivano barricate con grossi rami, rottami di metallo, chiodi e cocci di bottiglia.

Voltai le spalle alla finestra per guardare mia figlia. “Ma è impossibile” dissi. “Impossibile. Questi soldati vogliono scherzare. Chi si credono di essere?”

Lei scimmiottò il mio “impossibile” poi lanciò in aria il sonaglietto.

Quella sera insistetti per aspettare al telefono finché Yejide fosse uscita dal bagno in cui sembrava risiedere da quando era arrivata a Bauchi.

“Allora?” disse quando fu in linea.

“Stai bene? La gente qui sta reagendo malissimo a questa notizia dell’annullamento. Lì da voi è tutto tranquillo?”

“Sì.”

“Volevo solo essere sicuro che stessi bene. La gente oggi ha bloccato le strade di Ikeja, e a quanto pare faranno lo stesso domani. Non credo che riuscirò a uscire per andare dall’urologo.”

Diedi un colpetto al disco del telefono, sperando che avesse notato il mio accenno al motivo per cui ero a Lagos, desiderando che desse un cenno di riscontro alla mia ultima frase, un cenno qualsiasi – un sospiro, una domanda, un sibilo di rabbia. Sarei stato felice di qualsiasi reazione.

“Ci sei ancora?” le chiesi dopo un po’.

“C’è altro?” disse lei.

“Be’, Rotimi sta benone – si è appena addormentata.”

“Buonanotte.”

Il mattino dopo mi svegliai poco prima delle otto e scoprii con stupore che Rotimi dormiva ancora profondamente. Da quando eravamo arrivati a Lagos aveva preso l’abitudine di svegliarmi baciandomi sul mento e tamburellandomi sulle guance. Fuori si stava radunando una folla che scandiva slogan e agitava cartelli. Prima di pranzo in strada c’erano migliaia di persone; l’aria era densa dei fumi provenienti dai copertoni in fiamme. Inutile cercare di raggiungere l’ospedale.

Siccome Rotimi non aveva voluto neanche un pochino dei fagioli che avevo ordinato a pranzo, chiesi che mi portassero del riso. Non mangiò neanche quello. Quando scese dalle mie ginocchia per sdraiarsi per terra mi inginocchiai di fianco a lei, promettendole del gelato se avesse mangiato qualcosa. Ma lei non cercò neanche di mettersi seduta, di sorridere o di intavolare una trattativa. Chiuse gli occhi, e li coprì con il braccio sinistro. Le misi la mano sulla fronte: era calda, come quando sta salendo la febbre. La sollevai da terra per metterla a letto. Avevo in valigia lo sciroppo di paracetamolo, insieme ad altri farmaci, ma siccome quando la posai sul letto aveva i brividi decisi che forse era meglio portarla subito all’ospedale.

Andai alla finestra per guardare in strada, chiedendomi se la folla mi avrebbe permesso di passare con la macchina, se avessi spiegato i problemi di salute di mia figlia. Fu allora che vidi i soldati. Ero ancora alla finestra quando il primo sparo colpì la folla. Mi buttai per terra a faccia in giù, strisciai fino al letto e tirai giù mia figlia sul pavimento. Aveva gli occhi chiusi, e urlava. All’inizio pensai che fossero stati gli spari a spaventarla, ma quando le toccai la fronte mi sembrò che avesse una fornace subito sotto la pelle.