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Diagnosi o no, Akin era irritato dalla presenza di Sesan nel nostro letto.

“È solo che voglio poterti toccare in qualsiasi momento, in qualsiasi modo. E questo bambino è abbastanza grande da potersi ricordare quello che facciamo” disse.

Avrei voluto ridergli in faccia. Che cosa facevamo?

“Adesso la nostra priorità è la salute di Sesan, non toccarsi” gli dissi.

Mise il broncio, ma a me non importava. Non volevo le sue mani sul mio corpo, mai più. Il suo inganno mi lacerava, ma non avevo il tempo di affrontare né il problema né lui. Sesan aveva bisogno di me, aveva bisogno di tutto quello che in me poteva stimolarlo a vivere. Litigare con Akin sulle rivelazioni di Dotun sarebbe stato un inutile spreco di energie.

Dopo la diagnosi di Sesan, io pulsavo di adrenalina. Passavo le giornate a leggere fotocopie di riviste mediche prese a prestito dal dottore di mio figlio. Avevo la testa piena di immagini dell’emoglobina e delle cellule falciformi. Imparai a controllargli regolarmente la temperatura e per un breve periodo pensai di fare un corso da infermiera. A fermarmi fu solo il fatto che l’impegno mi avrebbe lasciato pochissimo tempo per assistere mio figlio. Molte volte mi svegliai nel cuore della notte, tutta sudata, senza riuscire a ricordare quali incubi mi avevano indotta a mettermi seduta nel letto. Ci vollero alcuni mesi perché iniziassi di nuovo a respirare. Sesan era più sano che mai, continuava a penzolarsi a testa in giù dalla ringhiera e a correre attorno a casa senza un motivo particolare. Anche a scuola andava bene, era addirittura il secondo della classe.

La prima crisi mi tolse il fiato. Tornando da scuola, Sesan mi disse di avere mal di testa. Gli diedi il paracetamolo in sciroppo e lo misi a dormire sul divano della sala. Quando cercai di svegliarlo per cena non rispondeva.

Supplicai Dio nel mio cuore, mentre Akin ci portava all’ospedale. Ti prego, ti prego, ti prego, imploravo. Non riuscivo a fissarmi su nessun pensiero più coerente. L’auto continuava ad accelerare. In un angolo della mia mente, un demone mi assicurava che ci stavamo allontanando dall’ospedale, nella direzione opposta.

“Più svelto, più svelto. Accelera! Lo sai dove stiamo andando?” strillavo ad Akin.

E minacciavo Sesan. “Ehi, ragazzino, se muori ti ammazzo.”

Uscii incespicando dalla macchina prima ancora che fosse del tutto ferma e corsi verso il padiglione più vicino.

Un’infermiera cercò di togliermi Sesan dalle braccia. Io continuai a stringerlo e a strillare.

“Lascialo andare” mi disse Akin.

Lo affidai all’infermiera. Uno degli inservienti ci sbarrò il passo, quando cercammo di seguirla. Le urlai dietro frasi minacciose, quello che le avrei fatto se fosse successo qualcosa al mio bambino. Camminai avanti e indietro per il corridoio. Ero sola. Akin era da qualche parte a compilare i moduli di accettazione. Supplicai di nuovo Dio. Poi lo minacciai: Se tu... se mio... ti giuro che lo faccio. In quel momento odiavo Dio. Avrei voluto poterlo vedere e strapparGli il cuore dal petto. E poi, che cosa Gli avevo fatto di male? Non meritavo un po’ di felicità? Mia madre, Olamide, e adesso Sesan.

Le giornate trascorsero lentamente, ogni minuto denso di speranza, ogni secondo tremante di tragedia. Moomi arrivò in ospedale e vegliò con me tutta la notte. La mattina dopo, prima di andarsene, mi ricordò che dovevo essere forte, perché ero una madre. Sedetti accanto al suo letto a guardarlo, ad aspettare, a cercare il minimo segno che aveva deciso di tornare da me. Nessun segno. Avevo paura di toccarlo, paura di agitarlo, toccandolo, e lanciarlo verso l’ignoto, lontano da me, per sempre. Il terzo giorno ero in ginocchio a pregare con parole mormorate così piano che solo io potevo sentirle. Saanu mi, malo, Omo mi, joo nitori Olorun. Saanu mi. Duro timi. Abbi pietà di me, non andartene, ti prego. Resta con me. Andavo in bagno di corsa. Non mangiai, non mi lavai.

Si svegliò il sesto giorno. Gridai per chiamare la dottoressa, anche se stava facendo il giro del reparto ed era a un letto lì vicino, quando si svegliò.

“Mamma puzza” furono le prime parole che pronunciò riprendendosi. Me le ricorderò finché campo.

* * *

Mia suocera venne a trovarci circa una settimana dopo che lo ebbero dimesso. Liquidò con un gesto i convenevoli di Akin e scosse la testa quando le offrii qualcosa da bere.

“Questo è abiku” disse appena si fu seduta. “È da quando sono venuta a trovarlo all’ospedale che penso alla malattia di questo bambino.”

“È solo una malattia, Moomi, le hanno dato un nome ed esiste una cura. Non è abiku” disse Akin.

Moomi fece uno sbuffo sprezzante. “Una cura? Sono capaci di guarirlo?”

“Esiste una terapia” disse Akin.

“Esiste una vera cura? No! Lo vedi? Scuoti pure la testa, ma questo significa che è abiku. Ne ho visti tanti, quand’ero giovane. Ed è proprio così, come questo. Capisci, questi bambini, quand’erano nel mondo dello spirito, hanno promesso di morire giovani. Ti dico solo questo: quello che li lega al mondo dello spirito è più forte dell’acciaio. Credi che i tuoi ospedali possano aiutarti, in questo? Dobbiamo fare qualcosa.”

Akin si strinse la fronte come se gli stesse venendo l’emicrania. “È solo una malattia, Moomi. Ed esiste una terapia, non c’è niente di spirituale.”

“Insomma, tu sei andato alle scuole dell’uomo bianco e io no. Ma noi ne abbiamo visti troppi, dei tuoi tipi da scuola, e sappiamo che il sapere non è sapienza, e in molti casi è solo stupidità, come accontentarsi di una terapia quando esiste una cura.”

“Moomi, stai dicendo che sono uno stupido?” Mi accorsi che l’irritazione di Akin si stava trasformando in collera.

Moomi lo fissò in modo da mettere in chiaro che la risposta era sì, e poi si rivolse a me.

“Parla con me jare, figlia mia. Tu cosa ne pensi? Dobbiamo accontentarci di incrociare le braccia e restare a guardare i medici che curano quello che non possono guarire, quando c’è un’altra strada da intraprendere? Un’altra strada, figlia mia! Lo sanno tutti, che ci sono tante strade che portano al mercato. Ma l’uomo bianco vi ha imbrogliati, alcuni di voi, facendovi credere che la sua via sia l’unica che esiste.” Tacque per inchiodare con lo sguardo Akin, che fissava il soffitto. “Alcuni sono così stupidi da credergli senza nemmeno indagare da soli. Che Dio li salvi, tutti quanti.”

“Di’ pure quello che ti pare, Moomi” disse Akin. “Non porteremo mio figlio da uno dei tuoi imbroglioni.”

“Ma guarda questo Akin, che non ha idea di che cosa sia una gravidanza, sentilo come parla. Figlia mia, non fargli caso. Sei tu quella che deve decidere, perché tu sai che cosa vuol dire cadere in ginocchio con le doglie. Credi che la nostra gente dica solo che nessun dio è come una madre? Ma certo. Nessuno si disturba a completare questo proverbio, al giorno d’oggi. Iya Sesan, stappati le orecchie e ascolta bene il proverbio per intero: nessun dio è come una madre perché nessuno è capace di sostenere il proprio figlio come una madre, quando il figlio soffre. Sei tu che devi decidere per tuo figlio, non questo Akin che vuole curare un abiku con una siringa.

In quel momento entrò Dotun, che puzzava di alcol. “Moomi! Sei qui!”

Sesan si era divincolato scendendo dalle ginocchia di sua nonna. Mi tirò l’orlo del vestito. “Cos’è un abiku?”

“È un gioco” gli risposi.

“Giochiamo all’abiku?”

“No, è un gioco brutto” dissi io.

Dotun si stava lavorando Moomi, canticchiandole delle filastrocche. “Baa baa black sheep, Baa baa black sheep.

“Perché mio figlio bela come una capra?” chiese Moomi.

“Sta cantando una canzoncina. Una canzone inglese” rispose Akin.

Moomi sospirò, scuotendo la testa.

“So saltare come una rana. So saltare come una rana!” Adesso Dotun cantava in yoruba, e a Moomi non serviva l’interprete.

“Akin, non mi guardare così. Fai qualcosa per tuo fratello.”

Anche se mio marito non aveva niente di nuovo da dire, reagì all’istante sviando la conversazione dalla salute di Sesan alla disoccupazione di Dotun, e a quello che stava facendo e aveva intenzione di fare al riguardo.

Dotun saltellava per la sala come un bambino, continuando a canticchiare filastrocche. Sesan lo seguiva, e cantava con lui.

“Chi c’è in giardino? Una bella bambina. Posso andare a vederla? No. No. No!”

Dotun si fermò davanti a me e, nel suo stupore alcolico, mi attirò verso di sé con una mano, afferrandomi il seno con l’altra. Cercai di scacciarlo, ma lui continuava a stringere.

Akin lo spinse via e Dotun crollò su una sedia, ridendo.

“Ah, abominio!” strillò Moomi, portandosi una mano sul seno sinistro quasi a impedire che il cuore le scoppiasse e fosse sbalzato fuori.

“È l’alcol” disse Akin.

“Moglie mia, ti prego, non essere arrabbiata” disse Moomi.

“Non è arrabbiata. È l’alcol, no?” mi chiese Akin. Sulla mascella gli guizzava un muscolo, come se stesse digrignando i denti. Le mani erano strette a pugno, con le vene in rilievo. Teneva gli occhi fissi su di me anche se sua madre gli stava dicendo qualcosa. Aspettava che io rispondessi, che lo rassicurassi che, davvero, era stato solo l’alcol. Sprofondai in una poltrona, pensando che non aveva il diritto di essere in collera, non se le cose che mi aveva detto Dotun erano vere. Ma non mi bastavano le energie per preoccuparmi di come si sentiva Akin. La sola cosa che contava era Sesan. Non mi era rimasto altro che mio figlio.