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Lo andai a prendere all’infermeria della scuola dei francescani. Una delle infermiere di turno era una suora. Mi accompagnò all’ospedale, tenendo in braccio mio figlio e mormorando preghiere che non conoscevo. Riconobbi soltanto le parole del Padre nostro:

Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il Tuo nome...

Ben presto la sua voce fu sovrastata dai lamenti del mio bambino. Si contorceva come se stesse cercando il modo di sfuggire al suo stesso corpo. I lamenti erano troppo pieni di dolore per un corpicino così esile. Quando arrivammo all’attraversamento per entrare al Wesley Guild era ormai rauco. La suora lo portava in braccio, seguendomi mentre io correvo al reparto. L’infermiera mi riconobbe e ci accompagnò immediatamente a un letto, ai cui piedi la suora si fermò sempre recitando le sue preghiere:

Venga il Tuo regno, sia fatta la Tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano...

Io rimasi il più possibile vicino a lui. Volevo assorbire il suono della sua voce, l’indicibile dolore che comunicava. L’avevo sentito troppe volte. Mi si era inciso nella mente e penetrava nei miei sogni. Sesan aveva gli occhi chiusi e stava tutto rannicchiato in una palla che medico e infermieri cercavano di forzare ad aprirsi. Mi chiamava gemendo: “Mam-ma. Mam-ma. Mam-ma.” Ogni suono spezzato era un chiodo nel mio cuore. Volevo disperatamente fermare quella pena, in qualsiasi modo. Ma non potevo.

E rimetti a noi i nostri debiti...

“Signora Ajavi... Signora Ajavi, gli tenga la mano per favore.”

Mi avvicinai ancora di più al letto. La sua mano strinse la mia con una forza, data dalla sofferenza, che mi schiacciava le nocche. Fui grata del dolore alla mano, anche se sapevo che era soltanto un briciolo di quello che provava lui. Sperai che, stringendomi, riuscisse a trasfondere la sua pena nel mio corpo, liberandosene.

Mi ricordo questo episodio perché la suora era venuta con noi all’ospedale. Sesan veniva ricoverato così spesso ormai che era difficile distinguere un ricovero dall’altro. La monaca con il suo abito beige fa spiccare questo ricordo tra gli altri. Poco dopo i medici ci chiesero, a me e alla suora, di aspettare fuori: ci unimmo al gruppo di parenti che aspettavano, seduti o camminando nervosamente, compagni nella valle dell’ombra della morte, in attesa che qualcuno vestito di bianco venisse a comunicarci il nostro fato.

Tenendomi per mano, la suora mi guidò a una panca di legno e si sedette accanto a me. Aspettammo così: la monaca che pregava e io che pensavo a quanto ero colpevole. C’era poco da fare per sfuggire al senso di colpa che provavo per la malattia di Sesan, e nemmeno ci provavo. Per come la vedevo io, il cinquanta per cento delle sue sofferenze erano colpa mia. Ero io che l’avevo fatto malato. Io che gli avevo trasmesso il mio gene delle cellule falciformi; il mio corpo era quello che aveva prodotto nel suo quel difetto. Non cercavo di scansare la disperazione, non mi nascondevo dal dolore – era più che giusto che partecipassi a quello che io stessa avevo causato.

Mi rifiutavo di prendere in considerazione la possibilità che morisse. Non volevo rinunciare a Sesan. Il mio cuore si aggrappava a lui. Mi ero convinta che sarebbe sopravvissuto a tutto – al dolore che lo faceva urlare fino a perdere la voce, alle iniezioni e agli antidolorifici che gli pompavano nel corpo. Neanche una volta mi augurai che la morte mettesse fine alle sue sofferenze. Le mie sole preghiere erano perché sopravvivesse a tutto, perché vivesse. I medici ci avevano detto che ci sono persone che conducono una vita lunga e ricca malgrado l’anemia, e per quanto mi riguardava non vedevo motivo per cui mio figlio non potesse essere uno di loro.

Mi convinsi che sarebbe vissuto perché se lo meritava, perché lo voleva, perché era così coraggioso, così affamato di vita malgrado tutto. Ma anche perché già sapevo che non avrei sopportato di perdere un altro figlio – non riuscivo neanche a pensarci. Sapevo che non sarei sopravvissuta alla perdita.

La suora venne a trovare Sesan tutti i giorni delle due settimane che trascorse in ospedale. Quando fu finalmente dimesso, Akin cercò di portarlo in braccio, uscendo dal reparto, ma lui si divincolò e schizzò via davanti a noi, verso la macchina. Rise e tese le braccine cercando di prendere una farfalla rossa che gli svolazzava davanti.