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Comprai delle tazze nuove.

“Sai perché non mi piacciono le tazze bianche?” disse Akin a colazione.

“No. Illuminami” risposi.

“Ci restano le macchie di caffè.”

“Davvero?”

Si tirò un po’ la cravatta e aggrottò la fronte. “Sembri arrabbiata. C’è qualcosa che non va?”

Spalmai altra margarina sul pane tostato, mescolai il caffè e serrai le mascelle. Ero decisa a tenere la bocca chiusa sui motivi per cui ero arrabbiata fino a quando Akin non me lo avesse chiesto almeno cinque volte. Ma lui non mi diede nemmeno il tempo di mettere il muso.

“Non mi piacciono queste tazze bianche.” Alzò un dito e si interruppe per bere un po’ d’acqua. “Dove sono quelle vecchie?”

“Le ho rotte.”

La sua bocca descrisse un Oh che non pronunciò e invece addentò di nuovo il toast. Mi resi conto che pensava le avessi rotte con una mossa sventata o che mi fossero cadute nel metterle via. Non aveva motivo, lui, di pensare che avessi lanciato le tazze rosso ibisco contro il muro della cucina mentre il cucù del salotto suonava la mezzanotte. Non avrebbe mai potuto immaginare che poi avevo raccolto i cocci con scopa e paletta, e li avevo messi in un piccolo mortaio per pestarli fino a sprizzare sudore da tutti i pori e a chiedermi se non stessi diventando matta.

“Sai, ieri c’erano i revisori interni dei bilanci venuti dalla sede centrale e siamo stati molto impegnati con loro. Perciò ho dimenticato di mandare qualcuno a controllare il tetto. Oggi...”

“Tua moglie è venuta nel mio negozio ieri.”

“Funmi?”

“E chi sennò?” mi protesi sulla poltrona. “O forse hai anche un’altra moglie di cui non so niente?” Era un’idea che non ero riuscita a togliermi dalla testa da quando Funmi era andata via dal negozio il giorno prima, la possibilità che ci fossero anche altre mogli, chissà dove – a Ilesa, o in una qualsiasi altra città –, altre donne che forse amava, altre donne che lo rendevano meno mio.

Akin si coprì metà faccia con la mano. “Yejide, ti ho spiegato il mio accordo con Funmi. Non devi preoccuparti di lei.”

“Ha detto che te ne occupi molto bene tu, di lei.” Le mie parole non avevano la forza che avrei voluto imprimere loro perché non ritrovavo la rabbia e il disprezzo che avevo riversato su Funmi il giorno prima. Volevo essere aggressiva con lui così continuai a parlare cercando di esagerare quello che davvero sentivo e arrivare alla rabbia che avrei dovuto provare. “Che cosa vuol dire? Spiegami che cosa vuol dire ‘molto bene’.”

“Tesoro...”

“Basta. Smettila. Basta con ‘tesoro’ per questa mattina.” Ma la verità era che volevo che mi chiamasse tesoro di nuovo, che chiamasse tesoro me, soltanto me, e nessun’altra. Volevo che protendesse la mano sul tavolo a prendere la mia e mi dicesse che tutto si sarebbe aggiustato tra di noi. Allora ancora credevo che lui sapesse cosa fare e cosa dire, solo perché era Akin.

“Yejide...”

“Dove sei stato ieri notte? Ho aspettato che rientrassi fino a mezzanotte passata. Dov’eri andato?”

“Al club.”

Ehen? Al club? Ma pensi che sia scema? Quando chiude lo Sports Club? Dimmi, quando?”

Lui sospirò e diede un’occhiata all’orologio. “Vuoi cominciare con i controlli di polizia?”

“Avevi detto che non ci sarebbe stato niente tra te e quella donna.”

Lui prese la giacca e si alzò. “Devo andare al lavoro.”

“Mi tradisci, abi?” Lo seguii fino alla porta, in cerca delle parole per dirgli che in realtà non volevo litigare con lui, per spiegargli che avevo paura che mi lasciasse e che sarei rimasta di nuovo sola al mondo. “Akin, Dio ti tradirà, te lo assicuro. Dio ti tradirà come tu stai tradendo me.”

Chiuse la porta e io lo guardai dal vetro. Era goffo. Invece di tenere la ventiquattrore in mano se la stringeva al fianco col braccio sinistro, cosicché il corpo pendeva un po’ da quella parte e sembrava che lui stesse per ripiegarsi in due. La giacca non se l’era buttata sulla spalla ma la stringeva nella mano destra; una manica strusciava a terra, trascinata sugli scalini dell’ingresso e sull’erba fino alla sua Peugeot nera.

Mi allontanai quando fece retromarcia. La sua tazza era ancora piena di caffè, intatta. Mi misi seduta al suo posto, finii il mio pane e il suo e bevvi il suo caffè. Poi riordinai la tavola e portai i piatti sporchi in cucina. Lavai le tazze e mi assicurai che non ci fossero rimaste macchie di caffè.

Non avevo voglia di andare a lavorare perché non volevo espormi a un altro scontro con Funmi. Era chiaro che lei non avrebbe smesso di presentarsi al negozio solo perché le avevo detto di non farlo. Sapevo che una Funmi, il tipo di donna che accetta di essere seconda, terza o settima moglie, non si tirava indietro facilmente, mai. Le avevo viste arrivare e trasformarsi nella casa di mio padre, tutte quelle varie madri che non erano la mia, arrivavano con una loro strategia nascosta sotto gli scialli, non erano mai così stupide o così soavi come sembravano a tutta prima. E Iya Martha, sbalordita, veniva sempre colta di sorpresa, senza una strategia o un piano suo.

Era sempre più evidente che ero stata un’idiota a credere anche solo per un secondo che Akin avrebbe tenuto Funmi sotto controllo. Così decisi di prendermi la giornata libera per riflettere sulla situazione. Passai dal negozio solo qualche minuto per dare istruzioni a Debby, l’apprendista che era con me da più tempo. Poi presi un taxi per andare fino a Odo-Iro a prendere Silas, il meccanico che in genere mi riparava il Maggiolino.

Silas si stupì che fossi andata alla sua officina da sola e mi chiese di Akin. Per tutto il tempo mentre tornavamo a casa mia mi ripeteva che avrebbe preferito discutere delle riparazioni con Akin prima di fare qualsiasi cosa.

Mentre aggiustava il Maggiolino io cucinavo e quando ebbe finito gli offrii il pranzo. Si lavò le mani fuori e divorò rapidamente il piatto di yam. Mi sedetti e lo guardai mangiare. Io gli parlavo e lui mi fissava borbottando di tanto in tanto, ma per lo più limitandosi a sgranarmi gli occhi addosso come interrogandosi su cosa diavolo rispondere alla mia chiacchiera ininterrotta. Quando si alzò per andarsene, contai i soldi che mi aveva chiesto e gli diedi le banconote e poi lo seguii fino alla sua macchina, continuando a parlare fino a che non mise in moto e se ne andò.

Sedetti in veranda a salutare i vicini che passavano, poi arrivò Debby a riferirmi quanto avevano incassato quel giorno al salone. La invitai a entrare e a mangiare qualcosa, ma lei declinò dicendo che non aveva fame. Allora insistetti per farle prendere una bottiglia di Maltina. Dopo, quando se ne fu andata, non avevo più niente da fare. La macchina era riparata, i piatti lavati e la cena pronta, anche se a quel punto sapevo che Akin non sarebbe rientrato prima di mezzanotte. Non potevo rimandare oltre il pensiero di Funmi.

Esaminai varie possibilità, da quella di dargliele di santa ragione la prossima volta che si presentava al negozio a quella di chiederle di trasferirsi in casa nostra per tenerla meglio d’occhio in ogni momento. Non mi ci volle molto a realizzare che la soluzione vera non aveva niente a che fare con lei. Dovevo solo restare incinta al più presto e comunque prima di Funmi. Era l’unico modo per essere sicura di rimanere nella vita di Akin.

* * *

Ero sicura di essere la nuora preferita di Moomi. Da piccola volevano che chiamassi Moomi le mie matrigne, perfino mio padre mi incoraggiava a farlo, ma io mi rifiutavo. E continuavo a chiamarle Mama. E quando mio padre non c’era, alcune di loro mi davano uno schiaffo solo perché mi rifiutavo di omaggiarle definendole “mia madre.” Ma non mi rifiutavo per testardaggine o per provocarle come pensavano alcune di loro. Mia madre per me era diventata un’ossessione, una religione e il solo pensiero di rivolgermi a un’altra donna chiamandola Madre mi sembrava sacrilego, un tradimento della donna che aveva offerto la sua vita per me.

Un anno la chiesa anglicana frequentata dai miei celebrò la Domenica della Maternità con una funzione speciale. Dopo aver fatto la sua predica il vicario aveva invitato tutte le persone di meno di diciotto anni ad andare vicino all’altare perché voleva che onorassimo le nostre madri con un canto. Io avrò avuto circa dodici anni ma non mi alzai fino a quando il sagrestano non mi diede un colpetto sulla spalla. Cantammo un canto che tutti conoscevano, ispirato a un adagio popolare. Riuscii a pronunciare il primo verso, Iya ni wura, iya ni wura iyebiye ti a ko le f’owo ra, prima di mordermi la lingua per ingoiare le lacrime. Le parole: La Mamma è oro, la Mamma è oro prezioso che il denaro non può comprare, mi risuonavano dentro più di qualunque sermone mai sentito prima. Ormai sapevo che mia madre non poteva essere sostituita dal denaro, da una matrigna o da chicchessia, ed ero certa che non avrei mai chiamato “Moomi” nessun’altra.

Eppure ogni volta che la madre di Akin mi avvolgeva nel suo pingue abbraccio, il mio cuore cantava Moomi e quando la chiamai così, quel nome venerato non mi rimase in gola rifiutandosi di uscire, come era successo con le matrigne che avevano cercato di estrarmelo a forza di schiaffi. Lei si era sempre dimostrata all’altezza, schierandosi con me ogni volta che sentiva parlare di un problema mio con Akin, assicurandomi che era solo questione di tempo e presto avrei dato un figlio a suo figlio, il miracolo sarebbe avvenuto non appena avessi svoltato l’angolo giusto.

Quando la signora Adeolu, una mia cliente incinta, mi parlò della Montagna della Stupefacente Vittoria, andai da Moomi il giorno stesso per parlarne con lei. Avevo bisogno che mi confermasse l’informazione, lei era una miniera di conoscenze in quel campo. Anche se non sapeva nulla di una certa casa dei miracoli, in genere sapeva a chi chiedere e una volta verificate le storie era sempre pronta ad accompagnarmi in capo al mondo per cercare una soluzione nuova.

Un tempo avrei ignorato le parole della signora Adeolu, un tempo non credevo ai profeti ritiratisi sulle montagne né ai sacerdoti che officiavano sulle rive dei fiumi. Questo succedeva prima che mi sottoponessi a un sacco di analisi negli ospedali e che le analisi dimostrassero che niente mi impediva di rimanere incinta. A un certo punto arrivai perfino a sperare che i medici trovassero qualcosa che non andava, una qualsiasi ragione per cui il ciclo continuava a comparire regolare un mese dopo l’altro, dopo anni di matrimonio. Speravo trovassero qualcosa da curare, o da operare. Non trovarono nulla. Anche Akin andò a farsi vedere e tornò dicendo che i medici non avevano trovato niente nemmeno a lui. Poi smisi di scartare i suggerimenti di mia suocera, smisi di pensare che le donne come lei fossero incivili e un po’ matte. Cominciai ad aprirmi alle soluzioni alternative. Se non trovavo quel che cercavo da una parte, perché non avrei dovuto cercarlo da un’altra?

I miei suoceri vivevano ad Ayeso, un quartiere vecchio della città dove ancora c’erano alcune capanne d’argilla cruda. La loro era una casa di mattoni con davanti un giardino parzialmente chiuso da un basso muretto di cemento. Quando arrivai Moomi, seduta su un basso sgabello in giardino con un vassoio arrugginito in grembo, sgusciava delle arachidi. Quando mi avvicinai alzò il capo e poi lo chinò di nuovo. Io deglutii e rallentai il passo. Qualcosa non andava.

Moomi mi salutava sempre gridando Yejide, moglie mia. Le parole erano calde come l’abbraccio che le seguiva.

“Buonasera, Moomi.” Le ginocchia mi tremarono nel toccare il cemento a terra.

“Allora sei incinta?” disse senza alzare la testa dal vassoio di noccioline.

Io mi grattai la testa.

“Ma sei sterile e pure sorda? Ti ho chiesto: sei incinta? La risposta è: sì, sono incinta; oppure: no, ancora non sono stata incinta nemmeno un giorno in vita mia.”

“Non lo so.” Mi tirai su e strinsi i pugni, poi indietreggiai fino a trovarmi a distanza di sicurezza.

“Perché non permetti a mio figlio di avere un figlio?” Sbatté per terra il vassoio e si alzò.

“Non sono io che confeziono i figli. È Dio che li fa.”

Marciò nella mia direzione e parlò quando le dita dei suoi piedi toccarono la punta delle mie scarpe.

“Hai mai visto Dio in sala travaglio, partorire una creatura? Dimmi Yejide, hai mai visto Dio in un reparto maternità? Le donne fanno i figli e se non li puoi fare sei solo un uomo. Nessuno ti dovrebbe chiamare donna.” Mi afferrò i polsi e abbassò la voce fino a sussurrare: “Questa vita non è difficile, Yejide. Se non puoi avere figli basta che permetti a mio figlio di farli con Funmi. Vedi, non ti chiediamo di lasciare il tuo posto nella sua vita, diciamo solo che dovresti farti un po’ in là, in modo che ci possa entrare anche qualcun altro.”

“Non sono io che glielo impedisco, Moomi” dissi. “Io l’ho accettata. Ormai viene perfino a passare il fine settimana a casa nostra.”

Si teneva stretta la pancia e rideva. “Anche io sono una donna. Pensi che sia nata ieri? Dimmi, perché Akin non ha mai toccato Funmi? L’ha sposata da più di due mesi. Dimmi perché non le ha mai tolto neanche il telo. Dimmelo, Yejide.”

Repressi un sorriso. “Non sono affari miei quello che Akin fa con sua moglie.”

Moomi mi alzò la blusa e posò la palma rugosa sul mio stomaco.

“Piatta come una parete” disse. “Ti sei tenuta mio figlio tra le gambe per altri due mesi e il tuo stomaco è ancora piatto. Adesso chiudi le gambe per lui. Per favore. Lo sappiamo tutti quello che prova per te. Se non lo cacci via, non toccherà Funmi. Se non fai così morirà senza figli. Ti prego, non mi rovinare la vita. Lui è il mio primo figlio, Yejide. Ti prego, in nome di Dio.”

Chiusi gli occhi ma le lacrime continuarono a sprizzarmi tra le ciglia.

Moomi sospirò. “Sono stata buona con te, ti prego in nome di Dio. Yejide, abbi pietà di me. Abbi pietà di me.”

Poi mi abbracciò, mi strinse a sé e mormorò parole di conforto. Ma nel suo abbraccio non c’era calore. Le sue parole mi rimasero sullo stomaco, fredde e dure proprio lì dove avrebbe dovuto esserci un figlio.