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Circa un mese dopo che Sesan ebbe iniziato l’asilo, Akin lo portò in ospedale per qualche esame di routine. Era il genere di cose che faceva Akin, come comprargli, a ogni compleanno, centinaia di azioni, o sottoscrivere un programma di accantonamento per le rette scolastiche nel quale faceva versamenti mensili fin dal giorno in cui ci eravamo sposati, o il check-up annuale medico e dentistico per se stesso. Quindi non mi meravigliai quando mio figlio, rientrando a casa, mi mostrò con orgoglio l’invisibile puntino sul dito da cui gli avevano prelevato il sangue per le analisi. Mi disse che non aveva pianto, anche se l’ago del dottore faceva male. Gli baciai il ditino e gli dissi che era il bambino più coraggioso del mondo. Lui corse nella stanza di Dotun per continuare a pavoneggiarsi.

Quando furono pronti i risultati, Akin era a Lagos per una serie di riunioni che sarebbero durate due settimane. Andai io a prenderli in ospedale. Anche allora odiavo gli ospedali. L’odore di disinfettante che ti restava nelle narici per un sacco di tempo anche dopo che ne eri uscita. Gli orrendi camici e divise bianche che portavano quasi tutti i dipendenti, bianchi come sudari da funerale. Il sangue che ti aggrediva gli occhi anche nei posti dove meno te lo saresti aspettato. Le urla di dolore e di lutto che salivano in volute dai corridoi. Non volevo essere lì.

“Signora, dov’è suo marito?” chiese il dottor Bello prima ancora che mi sedessi.

“Fuori città. In questo momento è a Lagos” risposi.

L’ufficio era uno stanzino che puzzava di iodio.

“In realtà preferirei parlarne con lui.”

“Cosa?”

“Ho detto che preferirei...”

“Ho sentito. Si tratta di mio figlio, e non vuole consegnarmi i risultati delle analisi? Come sarebbe?”

“D’accordo, signora. Si sieda, prego” disse tirandosi appena un po’ più indietro. “Ma deve dire a suo marito di venire a parlare con me.”

“D’accordo” dissi io. Capii in quel momento che non mi avrebbe detto tutto.

“Allora, signora, per quanto riguarda suo figlio... sa qualcosa dei globuli rossi?”

Frugai nei recessi della memoria in cerca di qualche ricordo delle lezioni di biologia. Mi tornò in mente il signor Olaiya, l’insegnante di biologia con i calzoni troppo larghi che ogni tanto gli cascavano fino alle ginocchia, portando una ventata di allegria nelle sue noiosissime ore. Di cellule del sangue non ricordavo niente, rosse, verdi o blu che fossero. Scossi la testa.

“I globuli rossi portano l’ossigeno al...”

Oga, dottore, c’è qualcosa che non va? In mio figlio?” Non avevo bisogno di una lezione di biologia. E poi il cuore mi batteva così forte che sicuramente sarei morta prima che il dottore venisse al punto, se non si sbrigava.

“Sa qualcosa dell’anemia falciforme?”

Il cuore mi si fermò. La mente si fermò. Tutti gli organi del mio corpo si fermarono. Nella stanza mancava l’aria. “Sì.”

“Suo figlio ha l’anemia falciforme.”

“No” dissi io. “Mio Dio, no.” Nelle ventiquattr’ore successive avrei continuato a mormorarlo, a sussurrarlo.

“Mi dispiace. Ma non è una malattia senza speranza. Ci sono cose che deve sapere. Prima di tutto lo deve portare qui per un esame completo...”

La bocca del dottore continuava a muoversi, ad avvolgersi attorno a parole che mi passavano accanto alle orecchie senza penetrarvi. Quando la chiuse, io mi alzai e me ne andai. La chiave mi cadde di mano parecchie volte prima che riuscissi ad aprire la macchina. Erano le due. Feci tutta la strada fino alla Franciscan Nursery and Primary School per prendere mio figlio.

Quando uscimmo dall’aula, lui voleva camminare fino alla macchina. Ma io lo portai in braccio, stringendolo tanto da farlo gridare. E io strinsi più forte. Nel tragitto verso casa continuavo a guardarlo, distogliendo gli occhi dalla strada per periodi di tempo pericolosamente lunghi. Lui mi raccontava qualcosa della scuola, nella sua lingua ancora gorgheggiante. Quel qualcosa lo eccitava. Sorrideva, gesticolava e disegnava forme nell’aria. Saltellava sul sedile, continuando a blaterare. Cercai di ascoltare quello che diceva, di capire questa cosa che lo agitava tanto. Non riuscii a sentire niente. Riuscivo solo a vederlo. Le unghie sporche, le fossette sulle guance scure, i calzoncini gialli e la camicia di nuovo macchiata d’erba. Era il bambino più bello del mondo. Avrei voluto rimettermelo nella pancia per tenerlo al sicuro dalla vita, dagli ospedali, dal bianco inamidato di cuffiette e camici.

“Mamma, che c’è?” chiese Sesan porgendomi il mazzo delle chiavi. Sembrava irritato.

“Niente” gli dissi quando fummo entrati.

Gli diedi il pranzo e lo aiutai a fare i compiti. Lo osservai mentre guardava la televisione, gli preparai la cena e gli feci il bagno. Mi misi a sedere per terra, sul tappeto. Lo osservai mentre guardava ancora un po’ di TV, finché si addormentò sul divano. Quella sera per lui non valeva l’ora di andare a letto.

“Perché piangi?” chiese Dotun. Era appena rientrato.

Mi toccai le guance. Erano bagnate. Quand’è che avevo iniziato a piangere?

“Morirà anche lui. Sesan sta morendo.” Una risata nervosa mi gorgogliò dentro. Strinsi forte le labbra per non farla uscire. Se avessi riso, sapevo che avrei riso per l’eternità.

Dotun venne subito accanto a me, posò l’orecchio sul petto di Sesan e mi sedette vicino, la fronte aggrottata. “Sta benissimo.” Gli puzzava il fiato, alcol e sigarette.

“È un falciforme. Falciforme.” Il gorgoglio che avevo dentro si scatenò. Ne sgorgarono lacrime, non risate. Mi offuscavano la vista e mi chiudevano il naso. Gli unici suoni che sentivo erano i miei singhiozzi, che escludevano anche il lieve russare di Sesan. E io avevo bisogno di sentirlo russare. Quel rumore era la mia vita. Mi accostai strisciando al divano per ascoltarlo. Ma i miei singhiozzi si fecero più forti e la mia vista più appannata. Riuscivo a malapena a vederlo. I miei singhiozzi divoravano il suo russare, divoravano anche me.

“Sta bene. Bene, sta bene.” Sentii la mano di Dotun sulla nuca. Mi accarezzava. Mi tranquillizzava.

Sentii le sue braccia stringermi alla vita. Io sprofondavo, annegata nei singhiozzi.

Lui era lì, mi teneva tra le braccia, le sue labbra mormoravano che sarebbe andato tutto bene.

Lo baciai per ingoiare quella parola, “bene.” Per raccoglierla dalle sue labbra e custodirla al sicuro dentro di me, nel punto in cui Olamide mi era stata strappata dal ventre. Volevo quella parola. La tenni. E poi ne volevo di più, me ne serviva di più, ne bramavo di più, febbrilmente. Di più. Di più. Di più.

La sua lingua, le sue mani, il suo turgore di nuovo dentro di me.

Quando, più tardi, il turgore mi si ammosciò dentro, ancora non mi bastava. Lo desideravo più che mai.

Girandosi, si staccò da me. Io mi rannicchiai sul divano, con il viso accanto a quello di mio figlio. Sesan aveva gli occhi chiusi.

Ci aveva visti? Come avevo potuto esporlo a tutto questo? Ci aveva visti? Oh Dio, ti prego, fa’ che pensi che è stato un sogno. Oh Dio, ti prego. Ti prego. Ti prego.

Rimasi così fino all’alba, nuda, ad ascoltare mio figlio che russava, a odiare la donna che ero diventata.