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Nel paio di settimane che seguirono, Yejide trascorse tutte le mattine all’ospedale, da mio fratello. Smise di rivolgermi la parola, si limitava a lasciarmi la colazione sul tavolo come se mettesse fuori il cibo per il cane, poi si legava Rotimi sulla schiena e andava alla clinica.
Desiderai che Dotun fosse morto, che non fosse mai nato.
Ma questa è una bugia. Quello che desideravo in realtà era di essere morto, di non essere mai nato. Ero stato io a portare Dotun a casa nostra, a invitarlo, a lusingarlo, minacciarlo, fare di tutto per convincerlo. Mai avrei immaginato, vivessi sette vite, di dover vedere mio fratello che penetrava mia moglie, grugnendo come un porco mentre veniva. Valutando tutti i possibili imprevisti del mio piano, avevo trascurato le cose che potevano rovinarlo: cellule falciformi, Dotun che perdeva il lavoro, tutto il caos di amore e di vita che scopri solo vivendo.
Il giorno dopo la mia zuffa con Dotun, appena prima di pranzo, Moomi si presentò al mio ufficio. Non rispose al mio saluto, non si mise a sedere, ma venne direttamente dal mio lato della scrivania per incombere sopra la mia sedia.
“Siete stati tutti e due dentro di me” gridò dandosi manate sulla pancia. “Tutti e due avete succhiato queste mammelle, al mio petto. Forse il mio latte non era dolce? È questa la radice della malvagità del tuo cuore? Il mio latte acido? Rispondimi, Akin. Non mi senti? Sei diventato sordo?”
Era talmente sicura che ci fosse una spiegazione, sicura che avrei detto qualcosa per aiutarla a capire quello che era successo. In quel momento avrebbe accettato qualsiasi cosa le avessi detto, qualunque cosa, e poi l’avrebbe rimaneggiata per farsela andare bene. Trasformata in una ragione capace di spiegare tutto quanto. Le serviva solo una risposta, una qualsiasi.
Non dissi una parola.
“Tu vuoi farmi morire” disse afferrandomi il colletto della camicia con entrambe le mani. “Fammi capire perché i miei due figli cercano di ammazzarsi a vicenda. Dimmelo, adesso, qui davanti a me!”
Vedevo che le si spezzava il cuore, ma cosa potevo dirle? La verità? Sapevo che questo le avrebbe dato il colpo di grazia. Questa verità.
Se ne andò giurando che non mi avrebbe più rivolto la parola finché non le avessi spiegato perché avevo cercato di uccidere il prezioso figliolo. Sapevo che avrebbe mantenuto la minaccia. Mia madre era capace di odiare con la stessa ferocia con cui amava.
Lavorai fino a essere quasi troppo stanco per guidare fino a casa. Rientrai a passo malfermo, le luci già spente e Yejide che dormiva. Ma Rotimi era ancora sveglia e i suoi occhi mi inchiodarono nell’istante in cui entrai nella cameretta semibuia. Mi fermai accanto al lettino, ad ascoltare i suoi sommessi borbottii, lasciai che mi stringesse il pollice con le minuscole dita. Ai suoi occhi io ero perfettamente nuovo, perdonato, immacolato. Attesi finché non ricadde nel sonno, prima di andare a letto a mia volta.
Sebbene sfinito, non riuscivo a dormire. Fissai mia moglie chiedendomi se la rabbia che mi martellava nel cervello sarebbe mai stata così intensa da indurmi a spaccarle una lampada sulla testa. Mi odiavo perché continuavo a guardare il suo volto delicato fino ad addormentarmi, per incidermi nella mente ogni suo tratto nel caso non la trovassi al mio risveglio.
Nelle settimane successive mi aspettavo che mi lasciasse. Mi sembrava non fosse rimasto altro da fare. Certe notti seguivo con il dito la linea delle sue labbra, sussurrando mi dispiace nello spazio di silenzio che ci separava.
Anche per questo mi odiavo.
* * *
Il giorno in cui dimisero Dotun, Yejide mi parlò per la prima volta dopo più di un mese. Mi consegnò il conto della clinica. Io compilai un assegno. Quella sera lasciò la nostra camera da letto.
“Resto solo per mia figlia. Se no, se no, se no, ehn...” Lasciò quella minaccia non detta, sospesa come una nube scura tra noi.
“Tu maledetta... maledetta... ti sei fatta mio fratello alle mie spalle. Sei tu la moglie adultera.” Tremavo mentre pronunciavo quelle parole, tenevo i pugni in tasca, lottando contro l’impulso di scagliarglieli su quella faccia spavalda, perché sapevo che se avessi cominciato non mi sarei fermato più.
“Avresti preferito che lo facessi davanti a te? Sotto la tua attenta supervisione? Sei un imbroglione, un traditore, il più grande bugiardo in cielo, all’inferno e sulla faccia della terra” sputò per terra verso i miei piedi, entrò nell’altra stanza e sbatté la porta.
Allora diedi libero sfogo alla rabbia, martellai la porta chiusa fino a farmi uscire il sangue dalle escoriazioni. E anche allora, non mi fermai, non potevo fermarmi.
Yejide non aveva chiuso la porta a chiave. Non si era sentito lo scatto, né la chiave che girava nella toppa. Ci pensai, che sarebbe bastato girare la maniglia ed entrare, affrontarla. Chiederle che cosa sapeva, che cosa le aveva detto Dotun su di me mentre se la spassavano. Non era necessario che rimanessi in corridoio, a parlare con i pugni rivolto a una porta di legno che non poteva rispondere, alzando le spalle per asciugarmi il sudore dalla faccia con la manica della camicia. Non le lacrime, il sudore.