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Circa un mese dopo la nascita di Olamide, andai in chiesa per la prima volta dal mio matrimonio con Yejide. Avevo smesso di andare alle funzioni della domenica quand’ero all’università, ma prima di sposarmi ancora mi facevo vedere in chiesa a Pasqua e a Natale. Da allora non ci ero più andato di domenica, perché non mi sembrava di avere un’ora libera alla settimana da sprecare stando seduto in un banco. Ma due settimane dopo la nascita di mia figlia avevo ricominciato ad avere gli incubi, continuavo a sognare le stesse scene della marcia di protesta a cui avevo partecipato nell’81 a Ife. Continuavo a rivedere la ragazza fasciata nei jeans a terra sotto la pioggia – l’unica differenza era che stavolta sapevo che ogni ragazza stesa a terra era Funmi. Per questo tornai in chiesa.

Non andai a mettermi nel banco in fondo dove tanti uomini, trascinati alla funzione dalle mogli rompiscatole, sonnecchiavano a bocca aperta o leggevano il giornale. Mi avvicinai il più possibile alla prima fila, prendendo posto dove potevo vedere bene la vetrata dietro all’altare. La scena istoriata mostrava Cristo e i dodici all’Ultima cena: undici discepoli a tavola; il dodicesimo, probabilmente Giuda già sul punto di uscire, dava la schiena a Cristo.

Quando il vicario salì sul pulpito, la vecchia alla mia destra chinò il capo come per pregare. Ma quasi subito cominciò a russare sommessamente. Il vicario iniziò il sermone leggendo il Padre nostro dall’enorme Bibbia posata in permanenza sul pulpito di marmo. Si fermò al Liberaci dal male con un pesante respiro nel microfono. Mormorò quelle parole, ripetendole più volte con una pausa tra una e l’altra, la voce che saliva di volume a ogni ripetizione fino a gridare nel microfono: MA. LIBERACI. DAL. MALE.

Accanto a me la vecchia si svegliò di soprassalto. Si guardò attorno, poi reclinò di nuovo il mento sul petto.

“Spesso chiediamo al Signore di liberarci dal male” disse il vicario. “Ed è bene. Ma dobbiamo anche considerare gli indicibili mali che ci procuriamo da soli. Che cosa facciamo riguardo ai mali spaventosi da cui possiamo liberarci da soli? Perché dobbiamo sempre aspettare il Signore, quando noi facciamo tanto male con le nostre mani? Ci soffermiamo mai a pensare al male che introduciamo nel mondo? L’elenco è infinito, ma lasciate che ve lo ricordi: adulterio, pigrizia, invidia, gelosia, rancore, collera, ubriachezza...”

Gli occhi del vicario, mentre parlava, percorrevano le file di banchi. Quando accennò all’ubriachezza i nostri sguardi si incontrarono, come se lui sapesse qualcosa sul mio conto, qualcosa di nascosto, di segreto. Il suo sguardo sostò su di me; forse sperava di farmi tremare il cuore. Io scossi la testa da una parte all’altra, lentamente, come pensavo facessero i santi quando sentivano parlare di tutti i peccati del mondo.

Il fatto è che non sono un ubriacone. Non bevo molto. A volte sto mesi senza toccare alcol, neanche un bicchiere di vino. Per contare tutte le volte che mi sono ubriacato in vita mia bastano le dita di una mano. La prima volta ero adolescente. All’epoca mio padre mi mandava tutte le sere a comprargli una zucca piena di vino di palma fresco. Spesso Dotun mi accompagnava. Sulla via del ritorno bevevamo un goccio e prima di entrare in casa masticavamo foglie crude di ewedu per mandar via l’odore. Una volta decidemmo di berci tutta la zucca. Il piano era dire a Baba che eravamo stati aggrediti dai malviventi, che ci avevano rubato la zucca. Fu l’ultima volta che ci mandò a prendere il vino di palma.

Secondo Moomi, io e Dotun eravamo arrivati nella nostra via completamente ubriachi, cantando inni di chiesa e battendo il ritmo sulla zucca. Superammo casa nostra per dirigerci a passo di marcia verso il complesso vicino, per esortare al pentimento le anime perdute. Moomi incolpava Baba perché mandava dei ragazzini a comprare bevande alcoliche. E lui incolpava lei per aver tirato su dei ragazzini che non reggevano l’alcol. La discussione andò avanti per tutto l’anno, ogni tanto scemava per poi riaccendersi nei momenti più impensati, con la voce stridula di Moomi e gli studiati silenzi di Baba.

Moomi ci straziò le chiappe con la sferza tutti i giorni per una settimana, estorcendoci a ogni colpo la promessa di non toccare alcol fino alla morte. Io mi beccai il doppio delle frustate rispetto a Dotun, per ricordarmi che da me si aspettava di più perché io ero il maschio primogenito, l’inizio della sua forza. La settimana seguente scoprii la birra. Il bello era che Moomi non riconosceva l’odore nel nostro fiato, perché all’epoca Baba non la beveva. Io e Dotun versavamo la birra nei bicchieri di plastica, e ce la scolavamo sotto il naso di Moomi dicendole che ci eravamo divisi una bottiglia di malto.

Quella domenica, mentre il vicario proseguiva il sermone, mi appuntai sul blocco di procurarmi una cassetta di birra in previsione della prossima visita di Dotun; aveva in programma di fermarsi qualche giorno a Ilesa, sulla via del ritorno ad Abuja, un giorno non precisato nel giro di un paio di settimane. Quando rialzai gli occhi non guardai il vicario, ma fissai la vetrata istoriata. Colpito per la prima volta dalla bocca di Giuda rivolta all’ingiù, mi chiesi se si fosse già pentito di quello che stava per fare. Io quella mattina ero pentito di essermi ubriacato durante la cerimonia per il nome di Olamide. Avevo bevuto la prima birra dopo l’arrivo di Dotun e famiglia da Lagos, verso le dieci del mattino, appena prima che iniziasse la cerimonia. Ero nello stanzino-dispensa di fianco alla cucina, un posto dove nessuno avrebbe pensato di cercarmi. Avevo mandato giù un sorso dopo l’altro di birra calda fino a svuotare tre bottiglie scure di seguito. Sorridere fu più facile quando tornai a unirmi alla gente raccolta in casa nostra per festeggiare insieme a me e a Yejide. Nonostante questo, non farfugliai leggendo a voce alta i ventuno nomi che Olamide avrebbe portato.

Ogni nome era il contributo di uno dei membri principali della famiglia. Alcuni erano offerti persino dalle matrigne di Yejide. Olamide l’aveva scelto lei, ma tutti pensavano fossi stato io, visto che fu il primo nome che pronunciai. Ma io non diedi neanche un nome a quella bambina, nemmeno uno. La birra mi aiutava a snocciolare i nomi come se io, il padre, avessi meditato a lungo sul profondo significato di ciascuno prima di acconsentire a inserirli nell’elenco scritto a mano da cui stavo leggendo. Era molto più facile essere padre, dopo tre bottiglie di birra.

Tutti si congratulavano con me. Mi chiamavano Baba Aburo, Baba Ikoko, Baba Baby, e poi, dopo che erano stati pronunciati i nomi, Baba Olamide. I colleghi mi davano pacche sulla schiena, mi dissero che il prossimo doveva essere maschio. Gli amici dissero che avevo permesso a Yejide di iniziare con qualcosa di facile, partorendo una femmina; la prossima volta toccava a un maschio, anzi, meglio ancora, ai maschi. Due, tre, quattro maschietti, quanti riuscivo a infilargliene dentro in una volta sola. Poi qualcuno si ricordò di Funmi, si ricordò che adesso facevo i doppi turni.

Amici e colleghi decisero che avevo bisogno di rinforzi. Del genere che sarebbe servito a qualsiasi uomo chiamato ad affrontare il compito di mettere incinte di qualche maschietto due belle donne. Era tempo di cominciare a prepararsi, disse un mio amico. Eravamo tutti seduti attorno a un tavolo di metallo sotto il grande tendone d’incerata usato per la cerimonia dei nomi. Chiacchieravamo, bevevamo birra e mangiavamo carne fritta. Ero meno ubriaco della maggior parte di quelli seduti al tavolo quando Dotun suggerì che avrei dovuto bere parecchie bottiglie di odeku per prepararmi alla fatica che mi aspettava.

E fu sempre Dotun a portare la cassetta di stout al tavolo. Mi passò la prima bottiglia scura, mentre gli altri cantavano: odeku odeku odeku. Gli uomini si alzarono per passarmene altre, come se ciascuna fosse un regalo – il loro contributo al consolidamento della mia virilità e all’atto di popolare la mia famiglia con tanti bambini. Tanti di loro mi avevano chiesto per anni di fare qualcosa per la donna sterile che avevo in casa, adesso dovevo compensare. Mi porsero una bottiglia dopo l’altra, lanciando grida di esultanza ogni volta che ne sbattevo una vuota sul tavolo, come un signore della guerra che torna dalla battaglia brandendo la testa di un nemico.

Non ricordo come Funmi ci abbia raggiunti al tavolo, come anche lei si sia ritrovata coinvolta negli ebbri preparativi in vista dell’impegno di riempire la nostra casa di una dozzina di figli. Ma in poco tempo io e lei ci scambiavamo bottiglie di birra, ridendo come idioti. Era la prima volta che le vedevo bere la stout. No, l’alcol non era mai stato un problema, né per me né per le donne della mia vita. E quella domenica, quando il vicario cominciò a sciorinare il suo sermone, circa un mese dopo la morte di Funmi, decisi che non era l’alcol ciò da cui dovevo essere liberato.

“Forse quando chiediamo al Signore di liberarci dal male, in realtà gli stiamo chiedendo di liberarci da noi stessi.” Il vicario si asciugò la fronte con un fazzoletto bianco. “Vi esorto oggi a liberarvi da tutti i mali che avete introdotto nella vostra vita, con le vostre mani. Chiniamo il capo in preghiera.”

Cercai di chiudere gli occhi e di pregare, ma non riuscii a smettere di pensare a Funmi. La vedevo nitidamente mentre studiavo la vetrata. Sentivo il suo ultimo grido, vedevo le sue mani che cercavano di afferrarsi alla ringhiera dopo che l’ebbi spinta giù per le scale.