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Alla fine, quando arrivarono, i rapinatori sembravano un gruppo di uomini che si erano persi ed erano entrati nel nostro salotto per chiedere indicazioni. Parlando un inglese impeccabile, si accomodarono in poltrona come ospiti e ci chiesero qualcosa da bere (niente alcol in servizio, grazie). Poi ci puntarono un’arma alla testa e ci chiesero di preparare tutte le apparecchiature elettroniche.
All’inizio sembrava più una visita che un’aggressione. Uno di loro disse persino grazie quand’ebbe svuotato la bottiglia di Limca. Akin, Funmi e io caricammo sul loro furgone tutti i nostri apparecchi, e non appena rientrammo in casa si sentì uno sparo, un urlo che perforò il silenzio della notte. Altri spari seguirono, lasciando echi che per mesi avrebbero tenuto svegli, con le facce sudate e le bocche riarse, tutti i residenti del complesso.
Akin mi spinse a terra dopo il primo sparo, gettandosi sopra di me. Restammo così, il suo corpo sul mio, facendo del nostro meglio per respirare senza rumore. Sapevo che anche Funmi era in salotto, da qualche parte; continuava a gemere piano, finché lui non le disse di stare zitta. Restammo a terra fino all’alba; Akin non mosse un muscolo, neanche quando Funmi gli chiese se non gli importava proprio di proteggere anche lei.
Quando ci alzammo, al mattino, Funmi si mise a piangere.
“Tu non mi ami” disse ad Akin. “Non te ne importa niente.”
Akin non rispose. Mi chiese se stavo bene e uscì a controllare dai vicini. Io salii di sopra, lasciando Funmi da sola in salotto.
Risultò poi che gli spari avevano preso di mira mobili, pareti e finestrini delle auto. Nessuno era rimasto ferito, solo il signor Fatola era svenuto nell’istante in cui i rapinatori erano entrati in casa sua. Si era riavuto solo quando quelli se n’erano andati e sua moglie gli aveva versato in faccia un bicchiere di acqua gelata. Dopo la rapina il comitato del complesso scrisse una petizione alla centrale di polizia di Ayeso: i cacciatori che avevamo assoldato ci avevano detto che il giorno dell’aggressione nessuno degli agenti si era presentato al lavoro. Sentita la notizia la signora Ojo annunciò, con il suo accento inglese, che uno dei poliziotti era tra i ladri. Nessuno le diede retta. Era ovvio che la polizia fosse in qualche modo coinvolta, ma che prendesse le armi addirittura contro di noi? Non pensavamo proprio di essere a questo punto.
* * *
Mentre Iya Bolu si preoccupava per le rapine, io avevo di meglio a cui pensare. Il mio ventre era gonfio del bambino che aspettavo – e stavolta anche l’ecografia confermava. Infilai la lucida immagine dell’esame sotto la cornice di legno del mio specchio, nell’angolo in alto, dove potevo vederla la mattina mentre mi pettinavo. Mangiavo molta frutta e Akin tutte le sere mi cucinava verdure in umido. In mezzo c’era quasi sempre qualche sassolino, ma io non mi lamentavo. Mi rifiutavo di cambiare abbigliamento, in modo che la gravidanza tendesse i miei abiti troppo stretti. Continuai così finché una domenica alla funzione, mentre mi alzavo per unirmi ai parrocchiani nell’inno di grazie, mi si strappò il vestito dall’ascella fino al ginocchio.
Rimasi famosa come “la donna incinta con il vestito strappato” fin dopo la nascita del bambino. Ma non mi dava fastidio se la gente mi indicava in chiesa, o se con le mani nascondeva un sorriso durante l’inno o alla recita del Credo niceno. Ero diventata immortale, parte dell’infinito ciclo della vita. Una nuova esistenza scalciava dentro di me e presto avrei avuto qualcuno da poter definire mio. Non una matrigna o un fratellastro. Non un padre in comune con altre due dozzine di bambini o un marito da dividere con Funmi, ma un figlio, mio figlio.
Questi pensieri mi riempivano di una tale felicità che ne fui terrorizzata. Che qualcuno potesse essere tanto felice e fortunato mi sembrava troppo. Nei primi mesi di gravidanza più di una volta tolsi le mani dal volante, mentre guidavo, per posarmele sulla pancia allargando i palmi a coprirla quanto più potevo. Cercavo di trattenere dentro il bambino: ero certa che la mia gioia infinita di quel periodo mi avesse guadagnato un’ondata di disgrazie, e che il mio piccolo sarebbe schizzato sul pavimento della Volkswagen, squarciandomi la pancia.
I colpi di clacson e le imprecazioni degli altri automobilisti mi ricordavano che avere un incidente era un modo molto più sicuro di perderlo. Incredibile ma vero, non andai mai a sbattere mentre mi tenevo la pancia. A ulteriore conferma che presto la sventura sarebbe venuta a bussare alla mia porta. La mia vita così felice era troppo bella per essere vera, presto qualche disgrazia mi si sarebbe abbattuta sulla testa con uno schianto. Mi imposi di bloccarle tutte le possibili vie d’accesso. Diventai gentile con Funmi, dandole qualche dritta su Akin, dalla sua sfumatura di rossetto preferita – un rosso squillante troppo vistoso per lei – a come gli piacevano i fagioli – in umido e con tanto pepe. Ero disposta a condividere. Un uomo non è cosa che si possa accumulare tenendolo tutto per sé, può avere molte mogli; ma un figlio può avere una sola vera madre. Una sola.
Contro le mie peggiori previsioni, la gravidanza filò liscia. Ogni volta che andavo a farmi visitare i medici erano soddisfatti. E al terzo trimestre ogni ansia scomparve e mi godetti l’attesa. Mi piaceva avere mal di schiena. Mi vantavo dei piedi gonfi e non facevo che lamentarmi perché non riuscivo a trovare la posizione per dormire. Il periodo più bello della mia vita.