Trentasette
Marco Tanzi. Milano, carcere di San Vittore, sei anni fa.
Ora d’aria.
Sarebbe vero se non ci trovassimo a Milano, la capitale dello smog e delle polveri sottili. Me ne sto seduto in un angolo del cortile, a farmi i fatti miei, come sempre. Leggo un romanzo che ho trovato in biblioteca, racconta storie di sbirri corrotti, di servizi segreti deviati, di politici collusi con la mafia. È scritto bene, l’ha presentato qui in carcere l’autore, il mese scorso. Pare sia uno sbirro anche lui, per la precisione un maresciallo della finanza. Chissà se somiglia ai suoi personaggi o se nella realtà è un onesto lavoratore padre di famiglia. La sua faccia, sul risvolto della copertina, farebbe propendere più per la prima ipotesi.
Mi accorgo del tizio che si avvicina, senza nemmeno alzare gli occhi dalla pagina, quando è ancora a una decina di metri di distanza. Piccolo, biondiccio, sui trenta. Una faccia da schiaffi. Se hanno mandato uno simile a tentare di farmi la pelle, devono essere davvero ottimisti. Soprattutto, vista la sorte che è capitata all’ultimo. Pare che adesso possa nutrirsi solo tramite un sondino infilato direttamente nello stomaco.
Ho rischiato di beccarmi altri dieci anni, se non fosse stato per la testimonianza dell’unica guardia onesta di questo carcere e del filmato dell’impianto a circuito chiuso. La legittima difesa era evidente. Quello era alto dieci centimetri più di me e pesava almeno centocinquanta chili. Il più grosso figlio di puttana che abbia visto in vita mia. Ed era forte, anche. Non avrebbe avuto nessuna difficoltà a infilarmi quel coltello direttamente nel cuore, se non avessi reagito con prontezza. Fortuna che quella mattina mi ero fatto una striscia di coca.
È pessima quella che circola qua dentro, tagliata male e troppo. Ma per la legge del mercato, quando l’offerta è scarsa, la domanda aumenta e l’unico fornitore di un determinato prodotto si ritrova a detenere, di fatto, il monopolio.
E il monopolio dello spaccio, a San Vittore, appartiene al clan dei Lucariello.
Piuttosto ironico, considerato che fummo proprio io e Luca a sbattere dentro i fratelli Lucariello, sei anni fa. Due bastardi di prima categoria, arrivati da Napoli con l’intenzione di diventare i padroni di Milano e la convinzione di potersi scopare tutte le femmine della città. Gli facemmo cambiare idea. Ora il massimo che possono concedersi è il culo di qualche malcapitato sbattuto in gabbia per spaccio o guida in stato di ebbrezza. La violenza carnale è all’ordine del giorno qui dentro, grazie alla connivenza delle guardie vendute, affamate di biglietti da cento euro. E ce n’è un mucchio disponibili. Sia di guardie sia di biglietti.
Il piccoletto si ferma a due metri di distanza. Non nasconde le mani che mi sembrano vuote. Buon per lui, potrei spezzargli la schiena senza fatica, in meno di tre secondi.
“Ehi, tu… Sei Marco Tanzi?”
Continuo a fingere di leggere senza degnarlo della minima attenzione. Nel frattempo cerco di allargare la mia visione periferica. Il tizio potrebbe essere un diversivo, una distrazione per permettere a qualcuno di colpirmi alle spalle.
“Ehi, amico, mi hai sentito?”
Alzo la testa squadrandolo con la mia espressione peggiore. “Levati dai coglioni, sto leggendo.”
“No, aspetta un momento,” insiste lui, “insomma, sei Tanzi sì o no?”
“Chi lo vuole sapere?”
“Vallaròla. Gianni Vallaròla, piacere!” esclama tendendomi la mano.
La guardo come fosse una merda di cane sotto le scarpe. Lui se ne accorge e ha il buon gusto di ritirarla.
“Ho sentito che sei un poliziotto, o meglio, un ex poliziotto. Si dice anche che tu sia un tipo pericoloso, è vero che hai già subìto tre tentativi di aggressione? E che sei sempre riuscito a farla franca?”
“Che vuoi?”
“Avrei una proposta da farti. Tu avrai senz’altro sentito parlare della Vallaròla production, giusto?”
Sto perdendo la pazienza. Continuo a fissarlo e, lentamente, scuoto la testa.
“Sul serio? Dici sul serio? Oh, mio Dio! È molto che sei qui allora…”
“Tre anni. Vieni al dunque o levati dalle palle.”
“Sì… la Vallaròla production è una casa di produzione cinematografica. Film hard, ma di qualità! Il nostro motto è ‘la classe prima di tutto’. Nei nostri prodotti ci sono vere trame, vere colonne sonore, location ricercate, non le solite ammucchiate girate nei garage o nelle camere dei motel. Insomma, noi ci teniamo particolarmente a…”
“Non me ne frega un cazzo. Hai tre secondi per dirmi cosa vuoi o ti rispedisco da dove sei venuto a calci nel culo.”
“Ci stavo arrivando. Il fatto è che la mia attività sta ingranando, i miei dvd si vendono come il pane, le mie ragazze sono sempre più richieste nei locali per soli adulti e questa storia sta creando qualche grattacapo a certe persone… persone che hanno investito soldi nel mercato del porno, con altri produttori. Insomma, dato che mi trovo qui… momentaneamente, per un equivoco riguardante certi assegni a vuoto, una bazzecola che il mio avvocato chiarirà presto… pensavo che non sarebbe male avere una guardia del corpo, qualcuno che mi copra le spalle, che mi eviti qualche brutto scherzo da parte di quegli invidiosi dei miei competitor che…”
“Non sono interessato.”
Resta con la bocca aperta e la frase spezzata a metà. Sembra stupito, non si aspettava un rifiuto.
“E dai, amico, non fare il difficile. Guarda che sono in grado di pagarti bene! Per non parlare della figa che posso rimediarti una volta usciti da qui. So che hai ancora qualche anno da scontare, mentre io sarò fuori entro qualche settimana, ma Gianni Vallaròla è uno che non dimentica!”
Rifletto sul fatto che un po’ di soldi potrebbero farmi comodo per procurarmi la roba. Ma in fondo, forse, è meglio continuare a tenere un profilo basso. Devo già guardarmi le spalle per conto mio, iniziare a farlo anche per gli altri potrebbe rivelarsi pericoloso.
“Mi dispiace, amico, niente da fare. E ora, se non vuoi farmi incazzare veramente, vedi di sparire.”
Passano due giorni e mi ritrovo in mensa a mandare giù la solita merdosa sbobba, seduto nel solito tavolino d’angolo. Nessuno si azzarda a farmi compagnia. Sanno che sono un soggetto a rischio, lo sbirro rinnegato che voleva vendere i suoi colleghi, e temono di rimanere coinvolti in qualche guaio. Non hanno tutti i torti, al posto loro farei lo stesso.
A un certo punto, il piccoletto si avvicina, col suo bel vassoio carico fra le mani. Riso al pomodoro, coscia di pollo lessa e purè di piselli. Le stesse schifezze che ho preso io.
“Ehi, amico!” mi saluta alzando il mento con un sorriso ebete stampato in faccia.
Non rispondo, continuo a mandare giù il mio pranzo, se così si può definire questo schifo.
“Posso sedermi con te?” mi chiede prendendo posto.
“L’hai già fatto.”
“Volevo dirti che poi l’ho risolto quel piccolo problemino… Lo vedi quello? Quello seduto lì, con la bandana verde.”
Mi indica un ciccione dai lineamenti orientali e la pelle olivastra. Dall’aspetto sembra sveglio e in forma come un bradipo ottantenne alcolizzato.
“Quello è Rafael, la mia guardia del corpo. Un vero e proprio colosso! Ci siamo accordati subito, lui mi guarda le spalle e io gli sgancio un po’ di grana. Nemmeno troppa, a dire la verità. A te t’avrei pagato molto di più… devo dire che sono stato fortunato. Pensa che c’era qualcuno che mi aveva già proposto di fare delle cose sotto la doccia… Davvero un postaccio questo, eh?”
Mentre sorride compiaciuto per le sue stronzate, io mi accorgo che quel Rafael parlotta con un tizio magro, sui cinquanta, col cranio rasato e le braccia piene di tatuaggi. Ha una faccia che non promette niente di buono.
“Sai,” dice il produttore di porno, “appena uscito da qui, mi concederò un pellegrinaggio a Ortona. Ortona a mare, paese di nascita del mio mito, Rocco Siffredi. Lo sai chi è Rocco Siffredi, vero? Il mio sogno è di coinvolgerlo in una produzione della Vallaròla production… Ho già in mente il titolo: Rocco e i gladiatori. Una sorta di peplum erotico ad alto budget, che rivisiterà il mito di Spartacus in chiave hard…”
Mentre il pornografo continua a vomitare le sue cazzate, mi accorgo che Rafael lo sta indicando con un dito al tizio tatuato. Subito dopo si alza e si allontana, con i cuscinetti di ciccia, distribuiti su tutto il corpo, che ballonzolano allegramente facendolo somigliare all’omino della Michelin.
Testa rasata si avvicina, con lo sguardo fisso verso il suo obiettivo. Che, una volta tanto, non sono io.
“Ascoltami bene,” dico al piccoletto, senza perdere d’occhio il brutto ceffo che sta arrivando, “quando dirò ‘ora’ devi buttarti per terra, alla tua destra. Hai capito bene?”
“Cosa?” chiede lui allungando il collo e stringendo gli occhi.
“Non c’è tempo,” gli dico, “fallo. O muori… ora!”
Il tipo è meno idiota di quanto possa sembrare, buon per lui. Si butta a terra e si rannicchia in posizione fetale, proprio mentre il tatuato sta per pugnalarlo alle reni con un punteruolo metallico. Probabilmente una posata affilata contro la parete di cemento del cortile. Nello stesso istante in cui l’attacco del killer fallisce, mi alzo di scatto sollevando il tavolo e sbattendoglielo addosso con tutta la forza che ho in corpo.
Quello si ritrova per terra, coperto di riso e poltiglia di piselli, ma reagisce in fretta, e due secondi dopo è già in piedi. Mi fissa in cagnesco e mi mostra i denti. Storti e anneriti, per la cronaca. Scatta in avanti come una furia, puntando direttamente al mio stomaco col suo coltello improvvisato. Mi getto di lato e insieme gli assesto una pedata nello stomaco. Mi ha mancato d’un soffio e ora si contorce dal dolore arretrando di un paio di passi. Il biondino, intanto, striscia sul pavimento lercio andando a nascondersi sotto a una panca, mentre tutti gli altri si sono alzati e hanno creato una sorta di anfiteatro umano, stipandosi ai bordi, per godersi lo spettacolo. Mister cranio rasato torna all’attacco. Stavolta riesce a ferirmi un braccio, anche abbastanza profondamente. La cosa mi fa incazzare, così decido di farla finita in fretta. Aspetto il suo secondo affondo, fingendo di aver accusato il colpo, e quando arriva gli blocco il polso con la mano sinistra. Una manovra pericolosa, se avessi mancato la presa mi avrebbe beccato in pieno. Ma me ne sbatto, tutto sommato una fine vale l’altra, purché fine sia. A questo punto non può più schivare i miei attacchi, è bloccato dalla mia mano artigliata sul suo polso. Con la destra gli afferro la nuca e ruoto su me stesso, avvicinandomi al muro e sbattendoci contro la sua testa. Il rumore sordo è impressionante, l’impatto è molto violento. Lascia cadere il coltello e le gambe gli cedono. Lo mollo e lui crolla a terra svenuto. Sul muro una bella macchia rossa, sembra uno schizzo di pomodoro.
Le guardie mi sono addosso, mi immobilizzano obbligandomi a inginocchiarmi e, dopo avermi ammanettato, mi lavorano col manganello. Nella mensa, intanto, è scoppiato il casino. Tutti urlano, sbattono i vassoi sul tavolo, insultano me, il pelato che voleva farmi fuori, le guardie. Insomma, la solita festa che conosco fin troppo bene.
Prima che mi portino in isolamento, incrocio, per un secondo, lo sguardo del piccoletto, ancora rannicchiato per terra. Più che gratitudine, il suo sembra stupore.
È stata l’ultima volta che l’ho visto, pare che subito dopo sia stato trasferito in un altro resort.
Chissà se riuscirà mai a farlo, quel viaggio a Ortona a mare.