Ventinove

La Pianura Padana scorre veloce fuori dal finestrino del Frecciarossa Roma-Milano, ma Laura Damiani non riesce ad afferrarla. Il suo sguardo si ferma sulla superficie del vetro. È come ipnotizzata dal volto riflesso che le sembra quasi quello di un’estranea. Studiandosi con attenzione, nota che le sue rughe d’espressione sono aumentate, anche se, dice a se stessa quasi a volersi giustificare, “quelle sono inevitabili quando hai superato i trent’anni. Soprattutto per una che dimentica sempre di usare la crema idratante”.

No, quel genere di giustificazioni non le basta più, sente che il suo cambiamento ha radici più profonde. Si dice che gli occhi siano lo specchio dell’anima e lei conclude che evidentemente, in questo periodo, la sua anima non ha niente di buono da comunicarle. Quella che aveva creduto essere la storia d’amore della sua vita si è rivelata un equivoco. I sogni di un futuro diverso, di una stabilità sentimentale talmente improbabile da non essere mai stata presa realmente in considerazione prima di allora, si sono infranti rovinosamente contro una consapevolezza che l’ha lasciata a pezzi: ormai il suo lavoro e la sua vita pericolosa da poliziotta di prima linea le sono entrati talmente dentro da fondersi in maniera indelebile con la sua anima. Laura sperava che con quell’uomo, il capitano dei carabinieri del quale si era innamorata, avrebbe potuto ignorare questa verità, per il semplice fatto che anche lui era abituato a vivere in quel modo. Insieme avevano sperato in un futuro diverso, addirittura in una famiglia. Ma entrambi hanno dovuto arrendersi all’evidenza di non essere più in grado di rinunciare a ciò che sono, a ciò che quel lavoro li ha resi. Anime solitarie. E il loro rapporto si è rivelato essere solo l’ennesima, amara delusione.

Riemergendo improvvisamente dai suoi pensieri, Laura si volta e incrocia lo sguardo del tizio calvo seduto sull’altro lato del corridoio. Avrà fra i trenta e i quarant’anni, occhiali da trecento euro, vestito da fighetto. La sta fissando da quando il treno è partito da Roma. In particolare fissa la sua scollatura. Sul Frecciarossa fa un caldo asfissiante e Laura, poco dopo la partenza, ha tolto il maglione. Il tipo abbozza un sorriso, deve essere molto sicuro delle sue doti da seduttore.

La donna cambia posizione: accavalla le gambe e si gira leggermente di lato. In questo modo la sua camicia bianca si solleva scoprendo la fondina agganciata alla cintura, che contiene la Beretta calibro 9.

Con la coda dell’occhio, Laura si accorge che al pelato va di traverso la saliva e tossisce, rischiando di strozzarsi. Si guarda intorno agitato, come a cercare conforto per la sua grande scoperta. Dopo un po’ si alza, e si allontana in direzione opposta a quella della donna, che si disinteressa a lui e prova a concentrarsi sul panorama per non incontrare di nuovo il suo stesso sguardo.

Quello che vede le fa abbastanza schifo. Chilometri e chilometri di campagna, niente alberi, qualche casa colonica sperduta ogni tanto. Le torna in mente la fattoria di un cartone animato che guardava sempre con suo nipote, a Londra. In Italia si chiama Leone il cane fifone o qualcosa del genere. Per un attimo, pensando al piccolo Luca, ai suoi sei anni e alle sue risate, le torna una parvenza di buonumore. Che scompare subito quando si accorge del gruppetto di persone che muove verso di lei, direttamente dall’altro vagone.

Il mollusco calvo è preceduto dal capotreno in divisa e da un tizio alto, sui trent’anni, con un vestito blu da due soldi, che la fissa preoccupato. Laura nota che tiene la mano destra nascosta dietro la schiena. È lui ad avvicinarsi e a parlare, mentre gli altri due restano in disparte.

“Mi scusi, signora, sono il responsabile della sicurezza di questo convoglio. Le dispiace favorirmi i documenti?” mentre lo dice, con la sinistra mostra il tesserino. Laura riesce a leggere il nome: Attilio Sorgi, agente scelto della Polizia ferroviaria di Roma.

Con un gesto molto lento, la donna estrae il documento dal taschino della camicia. Lui lo esamina e, subito, si rilassa, mollando la presa dalla pistola che tiene infilata nella cintura, ben celata dalla giacca di un paio di taglie più grande. “Ah, mi scusi, commissario,” dice abbozzando una specie di saluto militare, “un passeggero era rimasto un po’ turbato vedendo la sua arma di ordinanza e ci ha chiesto di controllare.”

“Prego,” dice Laura, “mi dispiace, non mi ero accorta che si vedesse.” Cambia posizione e, con un lembo della camicia, copre la fondina.

“Mi scusi… per caso lei è quel commissario Laura Damiani? Quella che ha catturato Lino Raspelli, il mafioso?”

“Già,” risponde la poliziotta un po’ a disagio.

“Sono onorato di conoscerla! Lei è davvero una leggenda, alla Questura di Roma!”

“Dai, non esagerare,” replica la donna piuttosto seccata, sperando che il collega se ne torni da dove è venuto.

“E come mai va a Milano? Ho sentito che aveva chiesto il trasferimento, non mi dica che…”

“Sì, Milano è la mia nuova destinazione.”

“Caspita! Mi dispiace che non stia più a Roma. Lei è davvero forte!”

“Senti, Attilio, scusa ma ho un po’ di mal di testa…” ribatte Laura.

“Ah, certo certo… mi scusi l’invadenza.” L’uomo replica il buffo saluto di poco prima. “Le auguro che a Milano possa rivivere l’esperienza di Roma e fare onore a tutto il corpo di polizia. Buon viaggio, commissario!”

La Damiani lo saluta con un cenno della testa e lo guarda allontanarsi insieme al capotreno.

Il pelato ha ripreso posto, non la fissa più, finge di concentrarsi su un tablet di ultima generazione.

La donna riflette sull’augurio del collega. “Rivivere l’esperienza di Roma.” Se dovesse avverarsi vorrebbe dire che a Milano, ad attenderla, troverà l’inferno.