Prologo
Marco Tanzi. Milano, dieci anni fa.
Sfreccio come un pazzo criminale lungo le strade congestionate dal traffico, neanche fossi un personaggio di Grand Theft Auto. Al posto dello schermo al plasma, il parabrezza dell’auto di servizio. Invece del joystick, il volante che stringo tanto forte da sbiancarmi le nocche. Gocce di sudore mi scendono lungo le tempie e sento la giugulare che mi pulsa per il battito accelerato. Non conto neanche più i semafori rossi, le strombazzate di clacson, i gestacci di quelli a cui taglio la strada.
“Marco, sono Luca,” gracchia la voce nella mia radio portatile, “dammi la posizione.”
“Via Turati,” rispondo. “Tre minuti e sono sul posto.”
“Marco, non fare stronzate,” cerca di tranquillizzarmi il mio collega. “Aspetta la pattuglia, saranno là in dieci minuti al massimo e sto arrivando anch’io.”
“Dieci minuti sono troppi, lo sai!”
“Marco, se sono già arrivati non puoi intervenire da solo… Aspetta la pattuglia, cristo!”
“Ti chiamo appena sono lì, chiudo.”
Immagino Luca che impreca a denti stretti mentre cerca di districarsi nel traffico dell’ora di punta con la sua station wagon Fiat verde metallizzato nuova di zecca. Si starà maledicendo per avermi fatto ascoltare la registrazione della telefonata di Tong, il nostro informatore. È un ragazzo di ventotto anni, sbarcato in Italia quando ne aveva appena quindici. Da Shanghai a Napoli, pressato nella stiva di una nave insieme con un centinaio di suoi connazionali. Neanche il tempo di rivedere la luce del sole ed è stato trasferito in provincia di Teramo, dentro a un container. Destinazione: lo scantinato di una casa di campagna, dove, con un’altra ventina di sventurati, ha confezionato borse per oltre sei anni. È il tempo che ha impiegato a racimolare la somma necessaria per riscattare il passaporto e pagarsi il viaggio per l’Italia, compreso l’interesse composto del trenta per cento annuo applicato dai suoi aguzzini. Quando, finalmente, è tornato libero, si è trasferito a Milano dove ha trovato lavoro in un ristorante orientale molto frequentato, soprattutto dalla malavita. L’ho agganciato sei mesi fa, convincendolo a passarci informazioni, in cambio della regolarizzazione del suo permesso di soggiorno e di quello di Yee Ling, la sua fidanzata che fa la sguattera nello stesso locale. Ha accettato perché così hanno potuto sposarsi.
Da qualche settimana ci sta fornendo informazioni sugli spostamenti di una banda di armeni che ha intenzione di spodestare gli albanesi in un giro di prostituzione minorile e traffico di ecstasy. Mezz’ora fa Luca Betti, il mio collega all’Anticrimine, ha ricevuto una telefonata dal suo cellulare. Solo che la voce non era quella di Tong, ma di qualcun altro. Qualcuno con un forte accento straniero.
“Ciao, sbirro. Ti porto notizie di tuo amico cinese. Lui vuole salutare suoi amici poliziotti, prima di partire.”
“Chi cazzo sei?” ha provato a rispondere Luca. “Non fare stronzate o ti ritrovi in un mare di merda!”
“Tuo amico è in un mare di merda. In questo momento lui è legato a un palo. Abbiamo messo intorno vecchi copertoni e buttato benzina. Adesso lui saluta te e poi parte. Per inferno…”
“Luca… Luca,” grida Tong al telefono, “Yee Ling e il bambino… Yee Ling e il bambino, salvateli!”
“Tong, dove sei? Dimmi dove sei, cazzo!”
Ma l’unica risposta è stata un orribile e prolungato urlo, accompagnato da un crepitare di fiamme. L’urlo di terrore di un uomo che sta bruciando vivo.
Via Panfilo Castaldi è una sorta di zona interrazziale che collega corso Buenos Aires a piazza della Repubblica. Ristoranti di tutte le etnie possibili, negozi dove trovi dall’artigianato africano ai dischi in vinile, passando per i fumetti rari e vecchie vhs da collezione. Di giorno è un posto divertente e pieno di profumi speziati. Di notte è una zona di guerra, il punto di riferimento di almeno una decina di bande di malviventi, di varie nazionalità, che gestiscono i loro sporchi traffici di esseri umani e sostanze proibite nel retro di piccoli bazar o di squallidi negozi di alimentari. È qui che abitano Tong e Yee Ling, con Tony, il loro bambino nato appena tre mesi fa. Un monolocale ricavato nel soppalco di un negozio da parrucchiere di proprietà di una famiglia di arabi che gestisce anche un kebab a un paio di isolati di distanza.
Parcheggio con due ruote sul marciapiede, scendo al volo, senza nemmeno togliere le chiavi dal quadro, con la Beretta in presa bassa a due mani e il colpo in canna. Ruoto su me stesso in cerca di un eventuale palo, o qualcuno in attesa su un mezzo di trasporto pronto per la fuga. Niente.
Mi guardo bene dal suonare il campanello sul lato dello sgangherato portoncino, di fianco alla vetrina del negozio. “Famiglia Leung”, c’è scritto con un pennarello sulla targhetta di plastica. Quella semplice scritta racconta tutto l’orgoglio di Tong, la soddisfazione di poter finalmente dichiarare di abitare una casa, svolgere un lavoro onesto, aver formato una propria famiglia. Insomma, di esistere.
Era un bravo ragazzo, Tong. Se ha fatto quella fine orribile è stato solo per colpa mia. Io l’ho ricattato col miraggio dei permessi di soggiorno. Ma ora devo rimanere lucido, devo concentrarmi sul mio obiettivo che è quello di salvare la vita a sua moglie e suo figlio. Nessun cedimento, o le mie possibilità di sopravvivenza si ridurranno in modo esponenziale.
Sono pronto a forzare la porta, ma non ce n’è bisogno: è aperta.
La spalanco con un piede tenendomi di lato e punto l’arma sulla ripida scalinata. Non c’è nessuno. In cima alla rampa la porta è socchiusa, nel monolocale la luce è accesa. Tutto questo mi dice che qualcosa non va. Per un attimo valuto l’opzione di attendere rinforzi, poi mi lancio su per la scala aggredendo i gradini due a due, con la pistola pronta a vomitare i quindici proiettili calibro 9. Una scarica di adrenalina mi fa illudere di essere preparato a qualsiasi cosa mi aspetti oltre quella porta socchiusa. Ovviamente mi sbaglio.
Yee Ling è per terra, nuda. Il suo corpo è coperto di sangue, dilaniato da ferite e bruciature. Le gambe allargate, in una posa oscena. Un oggetto infilato nella vagina, mi sembra un manico di scopa spezzato.
Alzo lo sguardo e le gambe mi tremano. Tutto si offusca, devo appoggiarmi al lavello della cucina per assorbire l’impatto di qualcosa che nessun occhio dovrebbe mai vedere.
Tony, il bambino. Il piccolo di tre mesi, nudo, senza vita, è stato esposto come una grottesca farfalla senza ali, con le braccia e le gambe divaricate. Ha gli occhi aperti e il corpicino martoriato in modo orribile.
Quei bastardi lo hanno inchiodato al muro.