Tredici
Marco Tanzi. Milano, dieci anni fa.
Legare un uomo a un palo e dargli fuoco non è una cosa semplice. Devi disporre di un posto isolato, lontano da abitazioni e strade trafficate. Le urla, il fumo, la puzza di carne bruciata, sono tutti effetti collaterali che potrebbero attrarre curiosi, destare sospetti, spingere qualcuno ad avvertire gli sbirri. Nella telefonata a Luca hanno parlato di copertoni. Guardacaso, il cognato di uno degli armeni gestisce un’autodemolizione a Melegnano, una copertura per il traffico di pasticche, dove ricicla anche ricambi ricavati da auto rubate. Un’informazione che Tong mi aveva passato qualche giorno fa e che non ho nemmeno riferito al mio collega. È là che mi sto dirigendo.
Il cellulare è ancora spento, ma ho riacceso la radio di servizio. La tengo col volume al minimo senza rispondere alle chiamate. Quello che sto per fare devo farlo da solo.
Attraverso centri abitati a centosessanta all’ora, brucio semafori rossi con noncuranza, neanche fossi Vin Diesel in Fast and Furious. La mia Lancia Delta lacera lo spazio come una saetta, disintegrando i chilometri che mi separano dall’obiettivo. Un impatto a questa velocità mi ridurrebbe a una poltiglia sanguinolenta, ma in questo momento non temo nulla. Il mio è un distacco quasi mistico, mi sento come un angelo dell’inferno, giunto sulla terra per raddrizzare i torti e purgare le anime dei peccatori. Sono onnipotente, motivato. Sono sereno.
È come se mi osservassi dall’esterno, da una posizione di assoluta neutralità. E allora mi dico che tutto questo non ha senso. Che sto per cacciarmi in una situazione senza via d’uscita, a prescindere dall’esito che avrà la mia azione. Mi dico che la violenza non scaccia la violenza, che la vendetta non riporta in vita le vittime, che la rabbia è sempre e comunque una cattiva consigliera.
Penso a mia moglie Flavia, a mia figlia Giulia che ha appena compiuto otto anni. Penso che, andando fino in fondo, rischio di rovinare le loro vite. E poi c’è Luca, il mio collega. Gli voglio bene come a un fratello, non se la merita questa merda.
È evidente che il bilancio dei “contro” mette al tappeto la lista dei “pro”.
Ma non me ne frega un cazzo.
L’unica cosa che voglio è prendermi la vita dei bastardi che hanno fatto scempio di quel bambino innocente.
Fermo l’auto a cento metri di distanza, sulla provinciale, prendo le mie armi e proseguo a piedi. Il posto è all’interno, in una specie di area di risulta, ricavata nel sito di una cava di inerti esaurita ormai da tempo. C’è un cancello chiuso con un catenaccio a lucchetto, ma lo ignoro. Scavalco l’inferriata con il Benelli fissato sulla schiena da una cinghia di cuoio, mentre cartucce e caricatori li ho messi in una tracolla di tela. In condizioni normali, la tanica di benzina da venti litri che stringo nella mano destra me la renderebbe un’impresa tutt’altro che facile, invece riesco a muovermi con una agilità che ha del sovrumano. Non provo stanchezza né dolore, ho messo in standby buona parte delle mie sensazioni. Non solo quelle fisiche ma anche cose come paura, pietà, rimorso.
Percorro pochi passi nel buio più totale, ma mi sembra di sapere alla perfezione dove mettere i piedi. Così come avverto in anticipo l’arrivo delle bestie, ancor prima che la brezza notturna venga contagiata dai loro latrati. Rottweiler, una coppia. Mi fiutano a distanza, nonostante io sia a favore di vento. Si avvicinano ringhiando, senza abbaiare, pronti ad attaccare per assaporare il gusto del mio sangue. Mi fermo e li aspetto. Il primo ha fretta, è il maschio alfa, accelera il passo e mi salta addosso. Errore. Ruoto su me stesso, allungando il braccio che stringe la tanica e lo colpisco violentemente sul muso. Provo una grande soddisfazione nel sentire il rumore secco del suo collo che si spezza. Crolla ai miei piedi come un sacco vuoto, senza emettere nemmeno un lamento. Il secondo mi azzanna un braccio, il sinistro. Mollo la tanica e, con la mano destra, estraggo il pugnale di acciaio al cobalto dal fodero alla caviglia. Dotazione dei corpi speciali, battaglione San Marco. Glielo pianto nel cranio affondandolo come fosse una forchetta in un soufflé di patate. La sua mascella molla la presa, i denti fuoriescono dalla mia carne. Me lo scrollo di dosso e avverto qualcosa di caldo e bagnato che mi cola lungo il braccio. Nessun problema, lo ignoro e vado avanti.
Avanzo nelle tenebre, fra montagne di carcasse metalliche e cumuli di copertoni, adattando la vista all’oscurità circostante, fino a scorgere, in lontananza, la baracca. È un container attrezzato di quelli da cantiere, rialzato dal terreno e appoggiato su tre file di blocchetti in cemento. La porta principale è accessibile tramite una scaletta di ferro zincato a quattro gradini. Nell’aria un olezzo dolciastro, odore di carne bruciata. Carne umana. Forse i due cani hanno interrotto un banchetto per venire a darmi il benvenuto.
Mi avvicino seguendo un percorso laterale, per non rischiare di tradire la mia presenza. Dalle due finestre, ai lati della porta, traspare un chiarore intermittente e filtra una musica ovattata. Merdose melodie slave, cantate da qualche baldracca scosciata con un trucco da ottuagenaria. Quegli armeni del cazzo vanno matti per questa merda.
Nella mia manovra di aggiramento capito dietro a un cumulo di copertoni e mi imbatto in Tong. In quel che ne rimane. È ancora legato al palo, ridotto a un fantoccio bruciacchiato, con al posto delle gambe due spuntoni di ossa spolpate. Non mi sbagliavo a proposito dell’ultimo pasto di quelle due bestie. Reprimo un conato di vomito e proseguo deciso per la mia strada stringendo l’impugnatura della tanica. Ho un lavoro da fare.
Qualche minuto dopo, carico il Benelli e lo punto in avanti, reggendolo con la sinistra, poi accendo il mio zippo e lo lancio verso la baracca. Le fiamme divampano all’istante provocando una nube di fumo denso che crea strani giochi di luce nel contrasto con l’oscurità del cielo e le lampade alogene che illuminano il piazzale. Passano una decina di secondi prima che quei bastardi si accorgano che la loro tana sta andando a fuoco. Il primo che prova a uscire per salvarsi non immagina che sta per finire dritto all’inferno. Da questa distanza la scarica di pallettoni di acciaio è micidiale. Il rinculo lo catapulta all’interno mentre il suo sangue sembra pietrificarsi immobile nell’aria, prima di finire a imbrattare ulteriormente il lercio pavimento della baracca.
Le finestre scompaiono, letteralmente polverizzate dai colpi calibro 12 del fucile a pompa Benelli M3TC.
I pannelli “sandwich” in lamiera, imbottiti con lana di vetro, vengono attraversati dalle mie scariche come se fossero di carta. Mentre continuo a sparare, mi avvicino sempre di più. Dall’interno sento arrivare urla e qualche colpo di pistola sparato a casaccio. Non mi preoccupo nemmeno di schivarlo: in fondo sono onnipotente.
Attraverso la cortina di fumo ed entro. Mi ritrovo tra corpi sanguinanti e tavolini rovesciati in un lago di vodka e polvere bianca. Questi vermi stavano facendo baldoria. Ne vedo almeno un paio ancora vivi. Uno prova a trattenere, con le mani, le budella che gli fuoriescono dall’addome, centrato dai pallettoni del mio Benelli. L’altro mi vede e cerca di afferrare una pistola su un tavolino. Mossa sbagliata: si becca una fucilata al braccio. Al posto della mano, ora, ha un moncherino sanguinante. Un proiettile mi passa a non più di due centimetri dall’orecchio sinistro, mi giro di scatto e faccio fuoco, cancellando letteralmente la faccia di quello che ha provato a bucarmi la testa. Mi sbagliavo, erano in tre a essere ancora vivi. Erano. Torno a voltarmi verso il tipo al quale ho sparato al braccio, che ora urla come una sirena, terrorizzato e pazzo di dolore. Si inginocchia a terra tentando di bloccare l’emorragia con la mano superstite. Mi avvicino e lo tramortisco colpendolo duro col calcio del fucile in mezzo agli occhi. Un gesto di grande misericordia del quale mi stupisco da solo. Forse volevo semplicemente che smettesse di urlare.
Valuto la situazione. Dentro la baracca, quattro morti e due feriti gravi. I conti tornano, i cinque della banda più il cognato ricettatore.
Bene, non mi resta che finire il lavoro. Vado fuori e mi guardo intorno, cercando una postazione adeguata per godermi lo spettacolo.
Pochi minuti dopo sono seduto su una poltrona ricavata da un sedile di camion divelto e con le molle sfondate, a qualche decina di metri di distanza dalla baracca. Un fumo acre e velenoso esce dai tre squarci che fino a qualche minuto fa erano una porta e due finestre. Ho gettato all’interno la tanica con quel che restava della benzina. Mi concentro cercando di ricordare se le grida dei due che stanno bruciando vivi, dentro al container, somiglino o no a quelle della telefonata di Tong. I loro lamenti si affievoliscono, confondendosi col suono delle sirene.
Non ci ha messo poi molto Luca a scoprire il posto. È in gamba il mio collega, non c’è che dire.