Sei
Luca Betti. Milano, ore 23:30. Oggi.
Contro ogni previsione mi addormento come un sasso, un quarto d’ora dopo essermi sdraiato sul letto. Con Elisa abbiamo scambiato solo poche parole. Le ho detto che Marco avrebbe dormito da noi, sul divano, e che domani, prima di partire per Roma, lo avrei accompagnato in un albergo economico del quale conosco il proprietario. Non ho parlato dei nostri accordi, del fatto che lui avesse implicitamente promesso di rimettersi in sesto. La consuetudine mi insegna che è meglio non fare dichiarazioni affrettate che in seguito mi si potrebbero ritorcere contro. In una specie di flashforward ho visto mia moglie che mi rinfaccia l’ennesima promessa non mantenuta dal mio collega addossandomene tutta la responsabilità. “Avevi detto che si sarebbe rimesso in sesto, e invece… guarda cosa ha combinato! Hai visto che avevo ragione io? Visto che è tutto inutile? Sei l’unico che continua a dargli credito, nonostante il male che ti ha fatto!”
Alle due di notte mi sveglio di soprassalto, per un fragore improvviso proveniente dal soggiorno. Anche Elisa apre gli occhi e accende la luce sul comodino. Si mette a sedere stringendosi il lenzuolo al corpo e mi guarda terrorizzata. Mi alzo di scatto, rivolgendole un gesto vagamente rassicurante e, in pantaloni del pigiama e t-shirt, corro verso la fonte del rumore.
Accendo la luce e vedo Marco a terra. Si muove a disagio fra i cocci del nostro tavolino di vetro, procurandosi ferite sul corpo già sanguinante in più parti. “Cristo, Marco!” Mi avvicino e lo afferro per un braccio, tentando di sollevarlo. Ha lo sguardo perso, tiene in mano una bottiglia di vodka, vuota. Da quel che ricordo, era piena per oltre tre quarti ed era chiusa a chiave nello sportello del mobile bar. A quanto pare l’ha forzato senza difficoltà. È a petto nudo, scalzo, indossa solo i pantaloni della tuta e pronuncia delle frasi senza senso, in preda a un evidente delirio alcolico. Si guarda intorno con occhi liquidi senza riuscire a vedere nulla. Con molta difficoltà riesco a farlo stendere sul divano, sperando che non mi vomiti addosso. Elisa ci guarda spaventata dal corridoio. Ha addosso la vestaglia rosa di pile, quella con Tom e Jerry che le ha regalato Sara al compleanno. Se la tiene stretta con entrambe le mani come se volesse proteggersi da qualcosa.
“Chiama il 118!” le urlo, mentre estraggo frammenti di vetro dal petto di Marco, cercando di tamponargli le ferite con la felpa grigia.
Le quattro e mezza del mattino, sono in una sorta di stato catatonico, seduto su una squallida panca di plastica del pronto soccorso. Marco si è procurato delle brutte ferite alle braccia e al torace, i medici sono dovuti intervenire con parecchi punti di sutura. Quando hanno iniziato a rimuovergli le schegge di vetro, con delle pinze chirurgiche, e a disinfettarlo, ha dato in escandescenze. È stato necessario immobilizzarlo e uno degli infermieri per un pelo non ci ha rimesso un occhio. Marco ha afferrato un paio di forbici da un carrello e ha tentato di colpirlo. Per fortuna quello si è scansato appena in tempo e ha rimediato solo un graffio allo zigomo. Ho dovuto aiutare i paramedici, ma ho faticato parecchio per riuscire a bloccargli le braccia. L’hanno legato con delle cinghie e sedato, poi il medico del pronto soccorso ha richiesto la visita del neuropsichiatra di turno che è entrato nella stanza da circa un quarto d’ora, dopo un’attesa che mi è parsa interminabile.
È un tizio alto, segaligno, sulla cinquantina. Ha il cranio rasato e un paio di occhiali dalla montatura pesante. Uscendo nel corridoio si guarda intorno e poi procede spedito nella mia direzione. “Lei è un parente?” mi chiede quando è ancora distante parecchi metri.
“Ah, no… solo un amico. Sono un ufficiale di polizia,” gli dico alzandomi e mostrandogli il tesserino. Per fortuna mi sono ricordato di prenderlo quando mi sono vestito in fretta e furia con jeans e un maglione, dopo che l’ambulanza ha caricato Marco. Il trambusto è stato tale che tutto il condominio era per le scale a curiosare e a lamentarsi. Elisa non me lo perdonerà mai.
“Può dirmi in che condizioni è?”
“Il suo amico ha rischiato il coma etilico. Mi pare che, nonostante la sua notevole stazza, fisicamente sia alquanto debilitato. È evidente che si tratta di etilismo cronico, a uno stadio, direi, preoccupante. Dal punto di vista psichiatrico è difficile dare una valutazione su due piedi. Attualmente è in preda a delirio alcolico, quando si sarà ripreso potremo valutare se procedere con dei test specifici per tracciare un profilo più puntuale delle sue condizioni mentali. Domani sarà trasferito al San Raffaele Turro.”
“Insomma, per capire se il suo cervello ha subìto danni bisogna aspettare che gli passi la sbronza…”
“Direi che ha riassunto la situazione in maniera efficace. Bene, se non le spiace torno a dormire. La saluto.” Il dottore mi porge la mano e io gliela stringo ringraziandolo. Fa qualche passo, poi si ferma e si volta ancora verso di me. “Ah, senta, signor…”
“Betti. Luca Betti.”
“Non si faccia troppe illusioni. Dubito che il suo amico possa riuscire a liberarsi della sua dipendenza e a tornare l’uomo di un tempo. Statisticamente è quantomeno improbabile.” Detto ciò si allontana, in direzione degli ascensori.
Resto qualche istante a riflettere sulle sue parole. Ma che mi è preso ieri sera? Ho davvero pensato che bastassero una doccia e un po’ di cibo per far tornare Marco quello di una volta? Uno che non è mai riuscito a limitare i suoi appetiti e le sue dipendenze. È sempre stato quello che beveva più degli altri, mangiava più degli altri, scopava più degli altri. Ed era la superstar incontrastata della Questura, il miglior poliziotto di Milano. Figuriamoci se ora che è diventato l’ombra di se stesso può resistere al richiamo della bottiglia. Sono stato un idiota, come al solito.
Prima di andarmene decido di entrare nella stanza, tanto per vedere in che condizioni è. Ha gli occhi chiusi, starà dormendo per effetto dei sedativi. Ha il torace nudo, pieno di cerotti e macchie di tintura di iodio. Non mi piace vederlo legato alla lettiga da quelle strisce di cuoio. Mi avvicino e gli sfioro la mano. Con un gesto talmente rapido da farmi sobbalzare dallo spavento, me la afferra, apre gli occhi e si volta verso di me. “Cristo!” esclamo liberandomi dalla sua presa e indietreggiando di un passo.
“Luca! Il vecchio… devi portarmi dal vecchio. È la mia ultima speranza… Devi portarmi da lui. Devo andarci per Giulia!”
“Cosa? Di che vecchio parli?”
“Il vecchio… Solo lui può aiutarmi. Non so dove sia, chiedi in Questura… Il caso Baraldi… chiedi del caso Baraldi, trova il vecchio… Ti prego, è l’unica speranza che mi rimane.”
“Marco, devi riposare. Cerca di stare calmo, domattina partirò per Roma e quando sarò tornato ti aggiornerò sull’andamento delle indagini. Ma fino ad allora devi rimanere qui e startene tranquillo. Devi recuperare le forze e curarti.”
“No!” urla agitandosi e tentando di liberarsi. “Il vecchio! Devi trovarlo! Ti prego, aiutami… solo tu… solo tu puoi aiutarmi. Devi portarmi dal vecchio!”
Due infermieri entrano nella stanza, attirati dalle grida. “Cazzo, con la dose che gli abbiamo dato ha ancora la forza di agitarsi!”
“Meglio dargli altri dieci milligrammi,” replica l’altro, “se no questo bastardo ci tiene svegli tutta la notte.”
“Io gli darei una manganellata in testa, così si calma una buona volta…”
“Ehi!” gli dico puntandogli un dito in faccia, “tu non gli dai proprio un cazzo se prima non te lo fai prescrivere da un medico, mi sono spiegato? E se a quest’uomo succede qualcosa di male, i prossimi a essere ricoverati in ospedale sarete voi due, capito, stronzi?”
I due mi guardano e si zittiscono all’istante. Devo avere un’espressione alquanto ostile. Sarà perché negli ultimi due giorni avrò dormito in tutto tre o quattro ore.
“Stavamo solo scherzando, signore…”
“Vado a chiamare il medico di guardia,” dice l’altro.
“Ecco, bravo. E muovi il culo!”
Entrambi escono dalla stanza mentre io prendo una sedia e la trascino vicino al letto. Mi siedo e torno ad appoggiare la mia mano su quella di Marco. “Sta’ tranquillo, resto qui con te,” gli dico. Lui mi guarda e mi pare che i suoi occhi si inumidiscano.
“Luca, il caso Baraldi… ricordati del caso Baraldi…” Il mio ex collega parla con fatica, stringendomi forte la mano, al punto che temo possa stritolarmela. “Il vecchio. Devo andare da lui. È la mia ultima speranza.” Poi la stretta si allenta e Marco perde i sensi.