Diciotto

Luca Betti. Milano. Oggi.

Sono quasi le quattro del pomeriggio, Elisa è tornata dal lavoro un paio d’ore fa. Aspetto in auto, sotto casa, fino a quando non vedo Sara che esce con lo scooter. Lo zainetto della piscina sulle spalle, i capelli ricci che fuoriescono dal casco bianco. Con lei parlerò in un altro momento, magari fra qualche giorno. Posso scalare una sola montagna alla volta.

Apro la porta ed Elisa esce dalla cucina asciugandosi le mani con uno strofinaccio. “Ah, sei tu. Sei tornato,” mi viene incontro sorridendo e mi bacia su una guancia. Noto che si sforza di apparire cordiale, affettuosa, ma si rende subito conto che qualcosa non va.

“Novità su Giulia?” mi chiede.

“Purtroppo no. Comunque i colleghi stanno facendo tutto il possibile.”

Lei annuisce. Restiamo in silenzio e la tensione fra noi, il peso dei sottintesi è talmente insopportabile che mi pare di trovarmi sotto a una pressa.

Decido di farla finita subito, non c’è un altro modo. “Andrò via di casa,” le dico, “almeno per un po’, ho bisogno di schiarirmi le idee.”

Non la prende bene, diventa bianca, come se tutto il sangue defluisse in meno di un secondo dal suo volto. “Cosa? Via… Ma perché… È per Marco? Perché sono stata in ospedale? Luca, non lo so che mi è preso, ti giuro, volevo solo dirgli che ora siamo felici e che non può tornare all’improvviso a rovinarci la vita. L’ho fatto per te, per noi due.”

Stiamo qui, fermi all’ingresso a parlare come due estranei, come se questa non fosse casa nostra e non fossimo sposati da diciassette anni. Come se non fossi perdutamente innamorato di lei, tanto innamorato da odiarla, ora, con tutto me stesso per quello in cui mi ha trasformato, per quello che mi ha condannato a essere.

“Elisa, non è per Marco. Anzi, forse sì, in parte anche per quello, ma non solo. Ci sono delle cose che stiamo nascondendo da troppo tempo… Noi due siamo infelici. Anche se ci amiamo.” In realtà so bene che lei non mi ama affatto, l’ho detto solo per farle una concessione. Come sempre.

“No, Luca, che dici? Ti prego, vieni qui, fermiamoci un momento…” Mi prende la mano, mi trascina in soggiorno. Vorrei resistere ma mi sembra assurdo restare in piedi, rifiutare. Tanto non cambia nulla, continuo a essere determinato ad andare fino in fondo.

Ci sediamo sul divano, lei mi tiene la mano, me la stringe.

“Luca, forse dobbiamo ritagliarci più tempo per noi due, dobbiamo fare una vacanza, da soli. Sara è grande e ormai…”

“Ho fatto sesso con Flavia. A Roma.”

È come se il tempo si fermasse, come se lo spazio si lacerasse all’improvviso e ci ritrovassimo in un’altra dimensione. Il suo volto diventa una maschera, e nei suoi occhi percepisco qualcosa di simile all’odio. “È successo per caso,” continuo senza darle il tempo di replicare, “non è stato né premeditato né bello, per nessuno dei due. E non si ripeterà mai più.” Sto cedendo, queste giustificazioni non erano previste, sono superflue.

Ritira la mano, distoglie lentamente lo sguardo fissando un punto astratto avanti a sé come per raccogliere le idee.

“Ma non è questo,” continuo. “Ho riflettuto, ho capito che in tanti anni abbiamo solo fatto finta. Dalla tua relazione con Marco. La crisi, i pianti, la terapia di coppia. Mi sembra tutta una farsa. Io lo so che non sono l’uomo che vorresti.”

Si volta di scatto verso di me. Ora è senza dubbio odio quello che leggo nella sua espressione. “È per questo che sei andato con quella puttana? Per vendicarti? E sei contento, ora che me l’hai fatta pagare? Ora che ti sei preso la rivincita sul tuo amico?”

Mantengo la calma, anche se non è facile. Forse non avrò un’altra occasione di dire ciò che penso. “No, non è stato per quello, non devo vendicarmi di nessuno. Ne avevo voglia e anche lei, tutto qui. Forse è successa la stessa cosa a te e a Marco dieci anni fa. Ne avevate voglia e l’avete fatto. Solo che tra voi ha funzionato meglio, è andata avanti per mesi, anche se tu l’hai sempre negato. Ricordo perfettamente quando iniziasti a cambiare, quando sembrava che il tuo sguardo mi attraversasse. E mi ricordo di come guardavi lui. È successo qui, facevate l’amore in casa nostra, mentre nostra figlia era a scuola e io al lavoro. Mia moglie e il mio migliore amico.”

“Ma sì,” esplode lei, “continua, continua pure a vendicarti, a infierire. Tanto è solo questo che vuoi, è questo che hai covato dentro per anni. Ti ho chiesto perdono in ginocchio, ho consumato fiumi di lacrime, ho capito di aver sbagliato. Ma per te il mio pentimento non significa niente. Per tutti questi anni non hai aspettato altro, pugnalarmi alle spalle e andartene. Perché non l’hai fatto subito? Perché non te ne sei andato dieci anni fa?”

“Perché ti amo. Ti amo troppo e al solo pensiero di lasciarti mi si spezzava il cuore. Ho preferito fare finta, illudermi che avremmo potuto ricominciare, ricostruire un rapporto. Adesso, però, ho capito che è finita.” Altra bugia. L’ho capito da molti anni che era finita, ma sono rimasto lo stesso, per l’idea della famiglia. Per Sara.

“E quante volte mi hai tradito in questi anni? Quante? Dieci? Cento? Io da allora ti sono sempre stata fedele…”

Sto per dirle che ieri è stata la prima volta. In realtà, però, ci sarebbero le prostitute. Quelle dalle quali andavo quando non ce la facevo più a sopportare i suoi rifiuti, prima che iniziassimo la terapia di coppia. Vorrei dirle che è stato per amore suo che sono stato con quelle donne. Farle capire che mi sono sottoposto a quello squallore, a quella umiliazione, solo perché la amavo follemente e non volevo che il mio bisogno di fare sesso creasse una reale spaccatura fra noi, mi allontanasse da lei spingendomi a innamorarmi di qualcun’altra. Qualcuna che apprezzasse le mie carezze, il contatto col mio corpo, qualcuna che provasse piacere nel fare l’amore con me. Ma su questo preferisco tacere, non voglio darle un’altra arma da usare.

“Senti, Elisa. Possiamo stare qui a rinfacciarci le cose, a farci del male, ne abbiamo entrambi la possibilità, forse anche il diritto. Perché alla fine, facendomi accettare questa finzione, in fondo hai sacrificato anche te stessa. Sono colpevole anch’io, esattamente come te. Adesso, però, ho capito che non posso andare oltre, mi dispiace. È come se si fosse alzata la nebbia, vedo cosa siamo diventati e nonostante io continui ad amarti… anzi, forse proprio per questo, mi è impossibile continuare ad accettare questa farsa. Scusa ma è così. Sara è grande, capirà. Le parlerò. Se vuoi, almeno per qualche giorno puoi dirle che sono fuori per lavoro, così, forse, riusciremo a trovare entrambi le parole giuste, le cose da dirle per farle capire la situazione.”

“Luca, senti…” Ora ha cambiato espressione. “Ti prego, non buttiamo via diciassette anni. Siamo stati felici, proviamo a ripartire dalle cose belle e costruiamoci sopra qualcosa. Ricominciamo. Hai detto che mi ami, anch’io ti amo, credimi, non voglio perderti. Siamo una famiglia, pensa a Sara, pensa…”

Mentre parla mi torna in mente una frase che ho sentito in un film. Un film con Mastroianni, di tanti anni fa. È una frase che mi è rimasta in mente, che mi ha torturato come una sorta di messaggio subliminale, come il presagio di ciò che mi sarebbe accaduto. Inconsciamente sapevo che un giorno sarei stato destinato a pronunciarla, che si sarebbe adattata perfettamente alla mia situazione. E che dopo mi sarei sentito solo, indifeso. Nudo. Con tutto il peso di una vita sbagliata sulle spalle e le conseguenze dei miei errori davanti a me. “Elisa,” le dico, “io credo che le epoche si chiudano così, all’improvviso. E per me, la nostra epoca si chiude oggi.”