Diciassette

La stanza è in realtà una cella, al piano terra della casa colonica. Da un locale di quattro metri per dieci è stata ricavata una sezione, più o meno quadrata, delimitata da tre pareti e da un’inferriata. Il pavimento e i muri sono rivestiti di piastrelle bianche e una lampadina penzola dal soffitto altissimo a rischiarare l’ambiente. L’arredamento è costituito da una branda con un sottile materasso e una coperta. Gli impianti igienici da un vaso in acciaio, senza tavoletta e saldamente bullonato a terra, un rubinetto a saracinesca, un secchio e uno scarico a pavimento.

Marco Tanzi entra accompagnato dal vecchio e da Biagio. È ancora nudo e trema per il freddo. La sua lunga chioma e la barba sono scomparse, rasate via con un tagliacapelli professionale. Sul suo cranio, ora, spunta una peluria da un paio di millimetri di lunghezza. Il pallore cadaverico del viso, che da anni non è esposto alla luce, risalta al confronto con il resto della sua carnagione.

“Le prime ventiquattro ore dovrai superarle da solo,” dice il vecchio. “Da domani inizieremo la cura. Devi sapere che, una volta entrato in questa cella, puoi uscirne solo in due modi. Guarito o morto. Le probabilità, nell’uno e nell’altro caso, sono le stesse. Ne sei consapevole?”

“Sì,” risponde Marco Tanzi rannicchiandosi sulla branda in posizione fetale.

“Bene,” conclude il vecchio. “Urlare, chiamare aiuto, lamentarti non servirà a niente. Ci rivedremo tra ventiquattro ore quando ti somministrerò il primo infuso.”

Marco Tanzi annuisce, mentre il suo tremore si accentua e diviene quasi una scossa elettrica che gli attraversa tutto il corpo costringendolo a bruschi movimenti involontari.

Il vecchio e il suo assistente richiudono l’inferriata facendo scattare per due volte la serratura di sicurezza. Poi abbandonano la stanza lasciando l’ex poliziotto solo con i suoi demoni.

Le prime ore trascorrono nel delirio indotto dalla febbre alta. Tanzi si rifugia sotto la coperta cercando di non dissipare il calore corporeo. A un certo punto, però, oltre alla febbre, oltre alla stanchezza, emerge una necessità prioritaria, un bisogno incontrollabile e assoluto. Bere.

L’ex poliziotto trova la forza di alzarsi dalla branda, si trascina fino all’inferriata provando a scuoterla. La solida struttura non accenna a nessun cedimento. Si guarda intorno senza sapere neanche cosa cercare. Apre il rubinetto e un potente fiotto di acqua gelida inizia a riempire il secchio di lamiera. Con le mani giunte ne raccoglie un po’ e se la versa sul viso nel tentativo di schiarirsi le idee. Poi torna a stendersi sulla branda sperando di riuscire ad addormentarsi, consapevole che non potrà fare altro per le prossime ore.

Dopo un tempo che non è in grado di quantificare, riapre gli occhi. È in un bagno di sudore, tutti i muscoli del suo corpo sono attanagliati da fitte dolorose. Cerca di ignorare quella sofferenza, si sforza di ritrovare lucidità, di ragionare.

Ed è allora che li vede.

Stanno invadendo la stanza, lentamente, attraverso le crepe formatesi nel muro piastrellato. Crepe nere, spesse due dita, che prima non c’erano. Devono essersi aperte durante il sonno. Strisciano sulle pareti immacolate, lentamente, col chiaro intento di occupare tutti gli spazi bianchi sui muri e sul pavimento, di inondare l’intera superficie della stanza e aggredirlo alle spalle per divorarlo. Sono vermi giganteschi. Neri, famelici. Non hanno occhi, sul loro muso spicca solo una grottesca dentatura che si muove ritmicamente come a preannunciare la imminente masticazione dei suoi muscoli, della pelle, delle sue ossa. Marco Tanzi porta le mani alle orecchie e chiude gli occhi, si rannicchia in un angolo della branda, terrorizzato dall’idea che quegli animali viscidi e immondi possano profanare il suo corpo, che possano cibarsi della sua carne. Li vede già masticare, senza sosta, con quei minuscoli denti aguzzi, affilati come rasoi, imbrattati del suo sangue.

Il terrore si fa insopportabile e Marco Tanzi urla. Urla, con tutto il fiato che ha in gola e tutta la disperazione che ha nell’anima. Urla fino a quando non gli sembra che il cuore gli esploda dentro al petto. Urla per minuti, per ore, per un tempo che gli pare infinito, fino a quando la voce lo abbandona, le forze vengono meno, il respiro si fa affannoso e forzato. E alla fine perde i sensi, rotola giù dalla branda e cade a terra, battendo il capo sul pavimento.