5. Delle visite che dalle mani del dottor Montenegro ricevevano certe guance.

Colui che offende il dottor Montenegro con una parola maliziosa, con un sorriso sconveniente o con un gesto di dispetto, può stare tranquillo: verrà schiaffeggiato pubblicamente. Durante i trent’anni in cui il dottore ha favorito dei suoi lumi il Tribunale, la sua mano ha reso visita a molte guance sfacciate. Non schiaffeggiò l’ispettore Scolastico? Non schiaffeggiò quasi tutti i Direttori della Scuola? Non schiaffeggiò il sergente Cabrera? Non schiaffeggiò il Capo della Cassa di Depositi e Prestiti? Tutti vennero oltraggiati e tutti gli chiesero scusa. Perché il dottor Montenegro si risente con la persona che lo costringe a castigarla. Dal momento in cui le sue mani designano qualcuno, l’eletto dalle sue dita può tentare tutte le scappellate: per il dottore è invisibile. Piú che il castigo intimorisce il perdono. Per meritarlo c’è bisogno dell’intercessione di amici o parenti. I castigati organizzano feste; solo nel bollore delle acquaviti, il vestito nero acconsente a perdonare.

Il castigo e il perdono sono pubblici. La provincia viene a sapere che le mani del dottore si struggono per una faccia. Questo è tutto: nessuno sa quando l’insolente riceverà l’assordante carezza. All’uscita dalla messa? Nel circolo? In piazza? In mezzo alla strada? Sulla porta di casa? Il designato dalle mani del vestito nero si macera nell’impazienza. Un certo giorno i notabili giocavano a poker nel Circolo Sociale. Scozzava il Direttore della Scuola. Distribuiva la seconda mano quando il diavolo soffiò per bocca del Sottoprefetto: “Don Paco,” disse don Arquímedes Valerio (primo errore: al dottore piace essere onorato pubblicamente col titolo che gli spetta), “uno dei suoi contadini è venuto a lamentarsi nel mio ufficio.” Il Direttore si congelò sulle carte. I giocatori si nascosero dietro i loro full. Il Sottoprefetto morsicchiò un sorriso. Troppo tardi. Il dottore si alzò, scostò educatamente una sedia e le sue mani visitarono le gote della prima Autorità della Provincia. La pappagorgia del Sottoprefetto oscillò in un terremoto di gelatina. I giocatori atterriti si astrassero in un’immaginaria scala reale. Il Sottoprefetto – da quel volpone che era – si finse ubriaco. “La birra mi fa male,” balbettò; si lisciò i capelli e uscí barcollando.

Alle undici della mattina dopo, il cisposo Sottoprefetto valutò la propria enormità, si lavò accuratamente le mani, i gomiti e perfino il collo, indossò il vestito blu da cerimonia, si avvinghiò un cravattone a righe e andò a scusarsi. Il Giudice non lo ricevette. “Il dottore non si sente bene,” biascicarono i servi, tenendo gli occhi bassi. Il Sottoprefetto chiese il permesso di aspettare. Alle cinque del pomeriggio, senza avere la temerità di volgersi verso il balcone dove l’offeso convalesceva al riverbero solare, l’offuscato funzionario si accomiatò. Tornò il giorno dopo. “Il dottore ha sempre mal di fegato,” lo informò la signora Pepita, con una voce che non consentiva incertezze alla responsabilità di Valerio per l’indisposizione del magistrato. L’angoscia devastò la faccia molliccia del Sottoprefetto. Tornò il terzo giorno: il dottore “sta sempre male.” Ingobbito dal fardello della propria colpa, il Sottoprefetto attraversò trenta volte la piazza; trenta volte tornò sui suoi passi con le spalle prone. La città assisteva sbigottita al suo infortunio. Privata dei suoi funzionari essenziali, Yanahuanca si paralizzò. Tutte le pratiche amministrative soffrirono di reumatismo. Nella Sottoprefettura l’ulcerato funzionario avvampava, alla minima provocazione, in collere di tigre. Indotti dalla sua disgrazia, tre infelici presentarono un reclamo insignificante: uscirono ammanettati. La Prima Autorità politica s’inclinò all’esplosione di rabbie sconosciute. Lo stesso Santiago Pasión non osava sottoporgli gli incartamenti. Solo in un’occasione ebbe l’audacia d’insistere con una cartelletta obesa di telegrammi dalla Prefettura: “È urgente, signore!” sorrise. “Me ne fotto dell’urgenza e della madre dell’urgenza!” tuonò la Prima Autorità e lacerò l’incartamento, fece a pezzi il calendario dove geishe inopportune sorridevano, scagliò un calamaio contro il ritratto del signor Presidente della Repubblica e fece uscire a calci lo scribacchino. “Soccorso, mi ammazzano, soccorso!” gridò Pasión spaventato. Lo schiamazzo risvegliò le guardie civili, ma la cosa non andava presa sottogamba; le guardie fissarono il turbolento Sottoprefetto e fecero schioccare regolamentarmente i talloni, intanto che si portavano le cinque dita ai cheppí bisunti. Nessuno osò tornare nella Sottoprefettura. In mancanza di permesso, la kermesse della scuola venne rimandata. Per non fare uno sgarbo al Sottoprefetto, reso incapace di tollerare il clamore di una banda, si sospesero le feste. Il Sottoprefetto si abbiosciò. Un giorno attraversò la piazza con la barba lunga e i calzoni slacciati, stato che non si confaceva alla sua condizione di rappresentante del signor Presidente della Repubblica. Quella mattina avvenne il miracolo: il dottor Montenegro lo ricevette. Quando don Arquímedes Valerio udí dalle labbra stesse della signora Pepita che il dottore chiedeva “perché mai non veniva avanti,” a momenti venne meno. Penetrò in lacrime. Il dottore lo aspettava con la testa inclinata e le braccia aperte. L’emozionato don Arquímedes, che neanche un minuto prima aveva condannato a trenta giorni di gattabuia due colpevoli della ragliata di un asino, si abbatté sul petto dell’amico che con un sorriso, mezzo pietà, mezzo disillusione, proclamava, buon cristiano, il perdono delle offese. “Don Paco,” piagnucolò il Sottoprefetto, “mi scusi se nella mia ubriachezza l’ho offeso.” “Tra amici non c’è offesa,” disse il vestito nero. “Amici come sempre, Valerio,” e lo abbracciò. Erano le sei di sera: il Sottoprefetto chiese il permesso di mandare a prendere un ponce. Il vestito nero accettò. Alle nove don Arquímedes pregò il dottore di far da padrino al suo matrimonio. Tre mesi prima il fratello di doña Enriqueta de los Ríos era precipitato in un burrone sulla strada per Chinche lasciando una fattoria sull’orlo del precipizio. La tentazione di trasformarsi in gamonal4 e il desiderio di far colpo con un irraggiungibile padrinato, lo incoraggiarono ad attraversare lo spesso rubicone dei quarantott’anni della fidanzata. “Non so se sto abusando, dottore,” tossí timidamente, “vorrei che lei mi facesse da padrino.” Incapace di albergare risentimento, il dottore fece portare una bottiglia di champagne La Fourie. Quando, grazie alla velocità delle lingue che è superiore alla vorticosità della luce, la provincia seppe che il Sottoprefetto non solo era stato perdonato – quel pomeriggio scortò il dottore nella sua passeggiata – ma che il Giudice, inoltre, accettava niente meno che di far da padrino al suo matrimonio, gli invidiosi non poterono uscire in strada: erano verdi; ma si morsero la lingua: nessuno voleva mancare agli sponsali. Insuperbito dal favore di una amicizia turbata da una nuvoletta che i maligni avevano confuso con la notte, ma che, in realtà, era il preannuncio di un radioso mezzogiorno, il Sottoprefetto fece preparare la festa piú sfarzosa mai celebrata nella provincia. Un mese prima, la Guardia Civile ricevette istruzioni precise: la benché minima infrazione ai regolamenti di transito, il benché minimo rumore, sarebbero stati inflessibilmente castigati. Don Herón de los Ríos, l’Alcalde, ammoní cosí severamente i messi comunali, che un grammo di meno nel peso o un attraversamento di muli contro mano cominciarono a tradursi in gravosissime multe in denaro o in natura: i maiali, le capre, le galline, i porcellini d’India soffocavano negli angusti recinti della Caserma della Benemerita Guardia Civile. Otto giorni prima che il padre Lovatón benedicesse la cerimonia, il sergente Cabrera chiese il permesso di sospendere la battuta: non si sapeva piú dove stivare gli animali. Non c’era piú spazio nemmeno nelle cantine del Sottoprefetto, zeppe di squisitezze importate da Lima: rossi Tacama, bianchi Ocucaje, champagne Poblete, tonni, panettoni, biscotti, frutta candita.

La prima domenica di settembre, padre Lovatón benedisse i maturi sposi (la coppia totalizzava quasi cent’anni). Una folla si sgolò quando lo sposo uscí dalla chiesa tenendo sotto braccio il suo verecondo mezzo secolo. In conformità al testo degli inviti fatti stampare a Cerro de Pasco in inchiostro rosso su cartoncino azzurro, e al seguito del padrino, gli invitati penetrarono nei “saloni,” in altri termini, nella sala da pranzo del Sottoprefetto. Quasi stramazzano: le tavole – rinforzate dai carcerati con assi di legno – gemevano sotto una montagna di maiali, di porcellini, di galline e di capretti. Se il Sottoprefetto, senza dubbio posseduto dal demonio della vanità, si fosse accorto dell’espressione del suo padrino, forse avrebbe misurato il proprio errore, ma gli dei accecano chi vogliono perdere. Intiepidito dalle adulazioni, piú traditrici del bicchiere, il Sottoprefetto Valerio perse la testa. Non si avvide che il dottor Montenegro non si degnava di assaggiare nemmeno un brindello delle carni cosí pomposamente esposte. Verso le sei del pomeriggio, il Sottoprefetto alzò il calice e pronunciò il brindisi fatale: “Salute, padrino, mi sono concesso il piacere di offrirle la migliore festa della provincia!” Il vestito nero s’imbiancò. Cosa intendeva dire l’untuoso ubriacone? Le feste offerte dal magistrato erano forse inferiori? La sua casa non traboccava di manicaretti infinitamente migliori di quelle ladronerie arrostite? Esisteva nella provincia un essere umano in grado di proporre festeggiamenti migliori? Era forse quel tronfio avvinazzato? E se quell’assurdità poteva essere concepita, c’era bisogno di proclamarla il giorno in cui si riunivano tutti, ma proprio tutti i notabili di Yanahuanca? Il volto del dottore s’impolverò di cenere; il suo calice s’infranse sul nitido pavimento di cemento. Si aggiustò il borsalino. Coloro che stavano intrattenendolo impallidirono. Il Sottoprefetto era una statua con un calice in mano. La sposa appassita congetturò l’abisso che ingoiava l’uomo da sei ore suo signore e sposo e avanzò verso il dottore, con le braccia aperte. Il Giudice Montenegro la scostò delicatamente; superò due sedie, un Alcalde e due maestri, ricuperò lentamente la memoria; la mano sinistra gli sostenne il cuore mentre la destra spiccava il volo. Tre volte lo schiaffeggiò.