10. Intorno al luogo e all’ora in cui il verme di fil di ferro apparve a Yanacancha.
Io il Recinto non lo conoscevo ancora. Dato che l’allevamento del bestiame non mi dà abbastanza da vivere, ho messo su un’osteria nei dintorni di Yanacancha, a trenta chilometri da Rancas. Il sergente Cabrera, che a ricordare il suo tirocinio di guardia semplice ha lasciato lí un buon numero di nemici, dice che a Yanacancha non c’è nemmeno la piazza. È vero. Misi insieme delle tettoie inservibili e tirai in piedi una baracca. Trovai una tavola, un’incerata a fiori e delle panche e, per non intristire i clienti, pitturai un cartello: “Qui si sta meglio che là.” “Là” è il cimitero dirimpetto. Ai minatori è piaciuto il mio caffè annacquato. Perché poi Yanacancha dovrebbe aver bisogno di una piazza? Le sue catapecchie sono sparse, un po’ alla carlona, lungo il dirupo che scende a Huariaca. Da noi, d’inverno e d’estate, i cristiani camminano con le mani cacciate in tasca e con la faccia affondata nella sciarpa. Soltanto il sole di mezzogiorno scalda. I cani aspettano impazienti quel fulgore e lo inseguono fino a perderlo nella steppa. Allora, d’un botto, si fa sera. Il vento esce dalle caverne e lecca rabbiosamente la terra spelacchiata.
Yanacancha comincia dove finisce Cerro de Pasco: nel cimitero. I viandanti si stupiscono di quel camposanto, troppo vasto per il paese. Il fatto è che, tanti anni fa, Cerro de Pasco era arrivata ad avere perfino dodici viceconsolati. Cercatori di tutte le razze risalivano questi nevai sperando di scoprire il filone favoloso. Vennero a cercar fortuna e ci lasciarono le ossa. Scialacquavano i loro anni vagando per le cordigliere. Un brutto giorno li sorprendeva la febbre e nelle pause del delirio supplicavano che col loro oro gli comprassero, per lo meno, una bella tomba. Sono tutti là, infilati nei loro catafalchi, a borbottare contro le nevicate.
In uno dei muri del cimitero, un giovedí, la notte partorí il Recinto.
Mi feci tre segni della croce. Una folla d’ingiacchettati lo guardava strisciare. Sotto i miei occhi il Recinto circondò il camposanto e scese verso la strada. Era l’ora in cui i Camion ansimano verso Huánuco, felici di avvicinarsi a terre alberate. Sul bordo della strada il Recinto si fermò, meditò una mezz’ora e poi si divise in due. La strada per Huánuco cominciò a scorrere tra due confini. Il Recinto serpeggiò per tre chilometri e poi puntò verso le terre scure di Cafepampa. “Qui c’è qualcosa che non va,” pensai. Non mi curai della nevicata e corsi ad avvisare don Marcelino Gora. Ma don Marcelino non era in vena di ascoltare notizie. Quella mattina gli abigei – sia maledetto il loro stampo! – lo avevano pregiudicato di due tori. Era la terza volta in quell’anno che gli abigei lo prediligevano. Seduto sulla soglia della sua capanna, con gli occhi bassi, don Marcelino immaginava che cosa avrebbe strappato agli abigei nel momento della loro cattura. Mi feci avanti sotto il maltempo, proteggendomi con un sacco di juta.
“Senta un po’, don Marcelino, sulla strada per Huánuco è nato un Recinto molto strano.”
“Se metto le mani su quei cornuti li castro.”
“Don Marcelino, la strada cammina tra due fili di ferro, sospetti.”
“Qualcuno mi ha fatto la fattura, Fortunato. Ho trovato croci di cenere sulla mia porta.”
“A Yanahuanca c’è un mago che dissotterra tutte le ladrerie nei suoi sogni, ma ha un nome che mi farebbe pensare, se fossi in lei: si chiama Abigeo. Cosa ne dice del Recinto, don Marcelino? Non sarebbe bene sonare qualche rintocco e radunare la gente?”
“Saranno ingegneri, Fortunato.”
“Da quando in qua le strade hanno avuto un recinto? Un recinto è un recinto, don Marcelino; e un recinto vuol dire padrone.”
Don Marcelino contava rabbiosamente le gocce di pioggia.
Tornai nell’osteria a inumidirmi la gola. Il temporale si stava indebolendo. Tornai fuori, mi arrampicai sulla scarpata e spalancai tanto d’occhi: il Recinto si era inghiottito Cafepampa. È cosí che è nato quel cornuto, in un giorno di tempesta, alle sette della mattina. Passò la notte nel fontanile Trinidad. Il giorno dopo corse fino a Piscapuquio: lí celebrò i suoi dieci chilometri. Chi non conosce l’acqua delle cinque sorgenti di Piscapuquio? Per chi arriva, berla è un godimento. Per chi parte, è un godimento ricordarla. Da quel momento nessuno si è piú potuto affezionare a quelle fonti. Il terzo giorno il Recinto compí altri cinque chilometri. Il quarto attraversò i lavaggi dell’oro. Tra quegli scheletri di pietra innalzati dagli antichi, gli spagnoli lavavano il loro oro. È meglio non attraversare di notte quelle solitudini: un decapitato chiede l’elemosina con la sua testa in mano. Lí pernottò il Recinto. All’alba avanzò verso la gola dove la strada s’incassa tra due montagne invalicabili che le fanno da guardia: il rossiccio Pucamina e l’abbrunato Yantacaca, inaccessibili perfino agli uccelli.
Il quinto giorno, il Recinto batté gli uccelli.