13. Sull’incredibile buona stella del dottor Montenegro.

L’Abigeo non disvelò i pensieri di Chacón. Vanamente si tuffò nelle negre lagune del sogno. Chacón sfidava le notti. Contro l’uomo sveglio il braccheggiatore del sogno è impotente. Per tre notti vagò l’Abigeo tra i pruneti della sonnolenza: per tre notti Chacón si rifiutò di spalancargli le porte della sua veglia. L’Abigeo, stanco di aspettare, partí per i casali. Quattrocento uomini si vantavano nella provincia del padrinato del dottore, ottocento sguardi piú infidi delle strade di gennaio. Col pretesto di compravendita di bestiame, l’Abigeo percorse i paesucoli e convocò gli uomini di fiducia. Non era facile riunirli senza destare sospetti.

Fu la buona stella ad aiutarlo. Una mattina, doña Josefina de la Torre, Direttrice del Centro Scolastico Femminile, si svegliò con l’ispirazione di acquistare un mappamondo per la scuola. “È necessario che le bambine viaggino,” disse la decana delle male lingue della provincia. La sua idea di organizzare una sagra venne subito accettata. E, sia perché la gente approvava il progetto di far viaggiare le proprie figlie per plaghe ignote, sia, e soprattutto, perché era ansiosa che doña Josefina – Fina per gli amici intimi – facesse riposare per un po’ di tempo la sua lingua biforcuta, si dichiarò disposta a fornire gli aiuti necessari. Dopo una quindicina di conciliaboli – un vero balsamo per i peccatori –, doña Josefina annunciò un programma sensazionale. La gente spalancò tanto di bocca. Un cartoncino giallo annunciò delle manifestazioni deliranti. I nemici di doña Josefina si ostinano ad assicurare che la metà dei numeri in programma fu soltanto un parto della sua fantasia. In effetti, almeno un paio delle manifestazioni è simbolico:

  1. Risveglio
  2. Diana patriottica a cura della Benemerita Guardia Civile
  3. Gaudio Generale
  4. Imbandieramento della Città
  5. Petardi, petardini, petardoni
  6. Pranzo di Gala

Ma non si può nemmeno negare che il programma offrisse attrazioni note soltanto agli audaci viaggiatori: chi aveva mai sentito parlare della corsa nei sacchi, dell’albero della cuccagna e della sfilata delle torce? E non bastava: dimostrando quanto talento sprecasse nei pettegolezzi, doña Josefina tramò due sorprese destinate a far colpo: la Fiera Gastronomica e il Sorteggio dei Montoni. La direttrice indusse le madri di famiglia a preparare almeno qualche brodaglia. E qui toccò il tasto piú sensibile. Considerate le rispettabili dimensioni delle pance dei notabili – ventri che sarebbe stato opportuno adattare come modello per il famoso mappamondo – è facile dedurre che a Yanahuanca la cucina non è arte da poco conto. Esistono mani capaci di preparare uno stufato con quattro sassi. Le matrone si divisero i compiti: doña Magda de los Ríos, la Alcaldessa, offrí il suo celebre spezzatino di pollo; doña Queta de Valerio, la Sottoprefetto, s’impegnò a fornire il suo famoso brasato alla segale; doña Queta de Cisneros, promise i suoi tamales,14 cosí celebrati in una decantata occasione che lo stesso Prefetto di Cerro de Pasco ne supplicò la ricetta. Ne venne fuori una babilonica bisboccia: porcellini allo spiedo ripieni di noci e mele, brodi di testa d’agnello pelata con la cenere, humitas15 dolci e salati, il lussurioso riso con anatra alla chiclayana, il piccante capretto alla norteña, le ampollose patate alla huancaina, e la ocopa16 all’arequipeña, vero peccato di vescovo. L’Opus Magna sarebbe stata rappresentata da una colossale pachamanca.17 Sotto il suo profumato vulcano decorato con una bandierina peruviana, la Benemerita si impegnò a sotterrare tutti gli animali provenienti dai sequestri. Il numero di fondo sarebbe stato il Sorteggio dei Montoni. Al signor Cisneros, Direttore della Scuola Maschile, venne in mente di farsi dare gli animali in regalo dai fazenderos; ma doña Josefina, in un lampo di genio, perfezionò l’idea. Perché non richiedere animali di razza all’ufficio Agropecuario di Junín? “È una pazzia,” obiettò il Direttore. “Sia detto con tutto il rispetto, Signora Direttrice, a chi verrebbe in mente di rivolgersi ad un’istituzione pubblica per una faccenda che riguarda la collettività?” “Al massimo sprecheremo i francobolli,” rispose doña Fina, e scrisse all’Agropecuaria. Sorprendentemente l’ufficio rispose a volta di corriere: offriva in regalo dodici montoni d’origine australiana “al solo scopo di fomentare l’allevamento di bestiame di codesta esimia provincia.” Si avvicinava la campagna elettorale. Il Senatore della circoscrizione di Pasco, ansioso di essere rieletto, si era rivolto all’Agropecuaria dando disposizione che si prestassero “tutte le facilitazioni del caso ai suoi rappresentati.” Agropecuaria e tutto, scritto e timbrato dalle autorità, e tuttavia la gente non prestava fede. Non avevano promesso di riparare il ponte, di costruire l’ufficio sanitario, di dotare di libri le scuole dei casali, di costruire la centrale elettrica? La stessa doña Josefina ritenne piú prudente mantenere i contatti coi fazenderos in apparenza indifferenti al desiderio manifestato dalle bambine di vedere il mondo. Ma un sabato fangoso, un camion giallo emerse dalle curve frastagliate di Chipipata: dodici enormi montoni traballavano dietro le grate del pesante Ford. La gente sbigottí. Gli ubriachi e gli stessi commercianti uscirono dalle botteghe per ammirare i superbi animali.

Né al Ladro di Cavalli, né al Nittalope, né al Personero, l’Abigeo rivelò che li sognava. Per la prima volta nella sua vita l’Abigeo si perdeva in un arruffío di sogni strani. Sognò che stava arrivando a Tambopampa. Per qualche circostanza che nessuno dei vicini riuscí a spiegare soddisfacentemente, il sole, fermo a un’ora incerta, pendeva da un cielo livido. Né la notte avanzava, né il giorno retrocedeva. Dopo qualche settimana il sole cominciò a marcire. A poco a poco la luce si trasformò in una tumefazione: il giorno del suo arrivo il cielo era una piaga, la luce sgocciolava. A fatica, l’Abigeo si aprí la strada tra le filacce di luce tumefatta. Scese verso le casupole. Scoprí il Ladro di Cavalli, seduto su una pietra. Si rallegrò di incontrare un cristiano in mezzo a tanto livore. “Qual buon vento, compare?” Il Ladro di Cavalli non si accorgeva delle malefiche trasmutazioni del cielo. “Non lo sai, compare? Sono già le nove! Non lo sai?” Sghignazzò e gridò: “Andiamo sulla vetta Murmunia!” “Andiamo,” accettò l’Abigeo e si pietrificò: il Ladro di Cavalli era piantato su un paio di piedi enormi, un paio di piedi di dimensioni terrificanti. Piedi piú alti della cintura dell’Abigeo, dita piú grosse delle sue braccia arboree. L’Abigeo rimase senza fiato. “Spicciati, compare!” disse il Ladro. “Non perdere tempo.” L’Abigeo ricuperò un fiatino di voce: “Che malattia ti ha preso, compare?” Il Ladro di Cavalli stappò la bottiglia di una spumosa sghignazzata. “Ah, compare mio, questa non è una malattia, è una precauzione!” E gli spiegò che si stava preannunciando una faticosissima corsa che lui, il Ladro, avrebbe vinto. I cavalli, i suoi amici intimi, i puledri, i suoi compari, i suoi fedeli, glielo avevano annunciato. Gli equini gli consigliavano di lasciarsi crescere i piedi. Era facile: bastava, immergere i piedi per sette notti in una laguna. Ma attenzione, era necessario pitturare i piedi, ogni notte, con un’anilina diversa: rossa, blu, gialla, verde. Il ladro si era sottoposto al trattamento. Le sue sghignazzate demolivano le rocce. “Voglio proprio vederli! Voglio vedere che faccia faranno il Sottoprefetto e le autorità il giorno in cui mi consegneranno la coppa. Chi potrà fermarmi, con dei piedi simili?” E si contorceva dalle risa. L’Abigeo si svegliò tremando. Uscí nel patio e immerse la testa in un secchio di acqua gelata: sempre offuscato, sellò il suo cavallo e salí verso Pillao in cerca di Polonio Cruz.

Quando i curiosi si accorsero del gesto di ribrezzo col quale i montoni appena scesi dal camion rifiutarono l’umile erba della Piazza d’Armi, ci si avvide che tali aristocratici potevano solo provenire dalla bionda Australia. Perfino i nemici della Direttrice – quelli che propagavano che se doña Josefina si fosse morsa la lingua sarebbe stramazzata al suolo morta avvelenata – si tolsero il cappello. Una vera folla accompagnò gli aristocratici fino al modesto chiuso villareccio. Le pepite d’oro di una delirante ambizione ardevano in tutte le pupille. Quale doveva essere la stirpe degli sprezzanti australiani, se lo stesso dottor Montenegro si accorse di loro e interruppe la sua meditazione solare, cosa che aveva fatto solo il giorno in cui una certa persona aveva attraversato la piazza coi polsi legati dalle Guardie Civili? Attraversò il portone e si mescolò alla gente come un semplice concittadino. Si alzarono applausi. Coi pollici infilati nel panciotto e le altre dita distese sul petto, il dottore si avvicinò al chiuso. Fecero strada i figli di puttana, belarono gli animali incoscienti.

“Chi vende i biglietti?” domandò il dottore.

Doña Josefina de la Torre, resa edotta dall’andirivieni dei monelli in fermento, si avvicinò, soffocando.

“Ah, che piacere!” disse la matrona. “Quanti biglietti vorrebbe, caro dottore?”

“Me ne dia dieci, Finita,” sorrise il magistrato, e consegnò un biglietto nuovo da cento soles.

Il venerdí pomeriggio i prigionieri, gentilmente forniti dalla Benemerita Guardia Civile, terminarono i chioschi. Il sabato le professoresse ornarono i padiglioni con catene e fiori di carta crespata.

“Vorrei che lei scendesse a Yanahuanca per una faccenda di una certa importanza,” disse l’Abigeo.

Polonio Cruz sollevò la gamba e l’appoggiò a una pietra, per grattarsi meglio.

“Di che cosa si tratta?”

“Di una faccenda da uomini.”

“Non puoi dirmelo?”

“No.”

Polonio sputò la saliva verde di coca.

“Parlate a vanvera. Sono stato tre volte in prigione per essermi riunito a sparlare dei padroni. Nessuno mi ha portato nemmeno acqua da bere. Chi siete voi? Voi siete parole al vento. Scapperete non appena le castagne scottano.”

“Viene o non viene?” si seccò l’Abigeo.

“Dove?”

“Alla scarpata Quencash, quando cambia la luna.”

“Ci verrò,” disse Polonio.

Cosí, alla leggera, decise della sua vita.

I bellimbusti di Yanahuanca buttarono sottosopra i loro bauli. Il sabato i commercianti esaurirono le ultime riserve di Agua Florida. La domenica, le madri invasero la piazza già a partire dalle nove. Da un’ora doña Josefina cercava di costringere il proprio corpo in un corsetto comprato a Huancayo con delirante ottimismo. Alle dieci la piazza ribolliva. Le autorità – il dottor Montenegro; il Sottoprefetto Valerio; don Félix Cisneros, Direttore della Scuola; doña Josefina de la Torre; il Capo della Cassa Depositi e Prestiti; il tenente Peralta; il sergente Cabrera; il caporale Minches – arrivarono alle undici. Il sole aveva aderito al prestigio della giornata. Si sedettero nel palco graziosamente approntato dai prigionieri della Benemerita Guardia Civile. Un altoparlante noleggiato a Cerro de Pasco trasmetteva la musica di alcuni dischi prestati da un commesso viaggiatore.

Yo la quería, patita,

era la gila más buenamoza del callejón,

si lamentava il grammofono scatenato nella confusione di sentimenti. Imparzialmente, il cantante proclamava la disgrazia.

Hoy me pasaron el dato,

el blanquiñoso que la tenía la abandonó.

Il sergente Cabrera interruppe il valzer e ordinò alla banda di farsi onore nell’“Assalto di Uchumayo.” L’imbonitore si sgolò: “Signore e signori, è arrivato il momento tanto atteso da tutta l’esimia popolazione. Mancano pochi minuti al sensazionale sorteggio! Mancano cinque secondi, quattro, tre, due! Avvicinatevi, guardateli! Non si sono mai visti nella provincia animali simili, veri campioni dell’allevamento mondiale!”

“Tre urrà per doña Josefina!” gridò un’alunna ansiosa di mettersi in mostra. “Hip...!”

“Urraaaa...!”

Doña Josefina non riuscí a contenere un singulto. L’annunciatore chiese il permesso di iniziare il sorteggio. Il Sottoprefetto Valerio si tolse il cappello. Un bambino vestito da marinaretto si avvicinò a un bariletto di latta dipinto coi colori della Patria, cortesia della Benemerita Guardia Civile. Il pubblico trattenne il respiro. Una brezza mortifera si alzò dalle ascelle nemiche dell’acqua.

Il bambino infilò la mano nell’urna, tirò fuori una pallina e la consegnò all’annunciatore.

“Quarantotto,” cantò l’annunciatore.

Tutti gli occhi cercarono la faccia della buona stella. “Presente!” gridò con voce strozzata un uomo dalla faccia antipatica: Egmidio Loro.

“Si avvicini,” ordinò doña Josefina de la Torre.

L’uomo dal viso granulato di foruncoli si fece sotto tendendo le mani sudate.

“Mi rallegro con lei,” sorrise la Direttrice. “Scelga un montone.”

“Uno qualsiasi, uno qualsiasi!” sospirò Loro.

Gli consegnarono un montone di discendenza mitologica.

L’Abigeo abbandonava le redini di “Primavera” fiducioso dell’esperienza del cavallo. Pensava. Per la prima volta nella sua vita non discerneva le parole modulate nei suoi sogni dai Vecchi. Il Vecchio dell’Acqua, il Vecchio del Fuoco e il Vecchio del Vento, masticavano frasi di lana. Non decifrava il messaggio. Volle purificarsi, digiunò per parecchi giorni e si astenne perfino dal visitare le sue donne. Il suo udito non migliorò. I Vecchi annunciavano un forestiero senza volto. Era un uomo che invece della faccia ostentava una parete di carne liscia solcata da sei rughe nere. I Vecchi lo condussero sulla strada per Chinche e svanirono tra le rocce. L’Uomo dalle Sei Rughe avanzava lungo la strada seguito da una folla di uomini anche loro privi di volto. Il gruppo procedeva verso Murmunia. Dalla respirazione ansimante dei senzafaccia, l’Abigeo capí che erano forestieri. Si mescolò tra le file. Vicino a Murmunia incontrarono un uomo a cavallo. Dal disordine delle sue redini si poteva subodorare, anche da lontano, la sbronza. L’Abigeo si avvicinò e si fece vecchio: era lui stesso. Inoccultabilmente, guardò il suo stesso viso spruzzato di farina e il suo collo taurino avvolto in stelle filanti. Che festa era? L’Abigeo passò accanto all’Abigeo senza riconoscerlo. E ancora peggio: come se il sognatore fosse invisibile, l’Abigeo si fermò a pochi passi dall’Abigeo e orinò stelle filanti. L’Altro non si stupí: piú che dal fiotto sinistro era preoccupato perché non riusciva a leggere il messaggio scritto sulle striscioline di carta. L’Abigeo si avvicinò e aguzzò lo sguardo, ma riuscí solo a interpretare parole confuse: “...carnevale... laguna..., corri, corri..., il fornaio dei morti...”

L’Abigeo scosse dalla testa i cattivi pensieri e scorse la capanna di Sulpicia. La vecchia stava zappando in fondo al suo podere. Legò il cavallo e avanzò verso la donna madida di sudore.

“Lavori anche di domenica, mammetta?”

“I miei figli non mangiano forse anche di domenica?”

Sulpicia sorrideva dolcemente con la metà della bocca sdentata.

“Puoi scendere per una riunione segreta, mammetta?”

“Posso scendere, ma non sono sicura di risalire.” Si asciugò la fronte sudata. “C’è molta gente che parla troppo.”

“Chacón vorrebbe parlarti.”

Negli occhi della donna arsero due raggi piú imperiosi del mezzogiorno.

“E cosí, Chacón è tornato per incassare i crediti!”

“Non lo so, mammetta.”

“Non dire storie. Tu sai tutto. Se fosse per dei ciarlatani come voi io non scenderei, ma se è per Chacón, verrò. Quell’uomo l’ha giurata ai padroni.” Poi si chinò per bere acqua fresca dalla brocca.

Qui le versioni sono discordi. Alcuni cronisti affermano che non appena il dottore sentí vociare il numero premiato si alzò di scatto e picchiò un pugno sul tavolo, ma tutti ammettono concordemente che egli si espresse nei seguenti termini: “Quest’uomo – disse il dottore puntando l’indice su Loro – è in combutta con gli organizzatori perché ha vincoli di sangue con loro.” Il pubblico rabbrividí: il magistrato denunciava una sacrosanta verità. Il miserando Loro era cognato di una cugina di terzo grado di doña Josefina. Neppure lo stesso beneficiato era al corrente che sua moglie – che da tre anni non dava segno di vita dopo essersi eclissata – celava una cosí invisibile parentela con una signora della distinzione di doña Josefina, la cui porta, è ovvio dirlo, non aveva mai varcato. L’implacabile memoria del dottore sgominava l’impostura. Gli organizzatori si sentirono gelare i piedi. Per sospetti ben minori c’era gente che marciva nel carcere di Yanahuanca. Il burrascoso volto del dottore mostrò la sua inflessibile decisione di impedire ulteriori attentati alla buona fede del popolo semplice ed onesto. Nel silenzio che si produsse quando la giustizia fece pendere pesantemente uno dei suoi piatti fatali, solo don Herón, l’Alcalde, che in simili occasioni si rivelava uomo di impensabili risorse, riuscí ad esalare un “Forza con la musica!”

Amar non es un delito

porqué hasta Dios amó.

Mi sangre aunque plebeya

también tiñe de rojo

si lamentò il grammofono. Il valzer incalzava sulla fatalità del povero che alza gli occhi su una donna decente. Tutti i fuochi degli inferni non lo assolveranno dal suo incancellabile peccato originale: la povertà. Il valzer s’intrideva di secoli di pregiudizio e di cattolico odio verso l’amore, mentre don Herón era assorbito in una conversazione serrata con doña Josefina dietro il palco delle autorità. Cosa si dissero? Don Herón confessava forse una sua passione insana nei confronti di doña Fina? Si diedero appuntamento in qualche angolo del fiume? Lo si ignora. Le tenebre coprono quel periodo. Senza rivelare nell’espressione del volto lo storico enigma, don Herón e doña Fina tornarono sulla tribuna.

“Che numeri ha, dottore?” domandò Herón, agitato.

Il dottor Montenegro allungò i biglietti al termine di un braccio sdegnosamente teso, mentre doña Josefina, con le gote arrossate – don Herón si era forse preso qualche libertà? – riprendeva posto sulla sua sedia.

“Continuate!” ordinò.

Il marinaretto scosse l’urna di latta. Gli innamorati approfittarono dell’attesa per lavorare di mano. L’araldo del destino estrasse la pallina e la consegnò a doña Josefina.

“Tredici,” proclamò la direttrice.

“Chi ha il tredici?” domandò don Herón.

“Io,” rispose il dottor Montenegro modestamente.

Ermigio Arutingo ricevette in consegna un superbo australiano. Il dottore non aveva tentennato di fronte al livido prestigio del numero ripudiato dalle superstizioni: il tredici riconoscente gli mutava la sorte. Il sette, la cifra lodata dai cabalisti, lo ricompensò col secondo montone; il trentaquattro – un numero grasso, dall’aspetto rispettabile – gli forni l’unico montone contraddistinto da una macchia nera; lo zero, colmo della sapienza indú, lo rese proprietario del quarto montone, uno splendido animale che sfortunatamente sarebbe morto quella stessa settimana; il sessantasei condusse nelle sue stalle il quinto ariete. La gente assistiva con la mascella penzoloni a una fortuna cosí inaudita. È difficile che la folla si mantenga immota, ma fu ciò che avvenne quel giorno a Yanahuanca. Ammaliata dalla buona stella del dottore, la gente abbandonava i chioschi per addossarsi sotto il palco.

“È incredibile!”

“Questa sí che si chiama fortuna!”

“Quando Dio regala, regala a piene mani!”

“Che fortuna gli hanno portato quei numeri cosí brutti!”

“Sessanta,” trillò doña Josefina.

“Qui,” rispose tutta raggiante doña Pepita.

“Le bacio la mano, padrino,” celiò il Sottoprefetto.

“Ce ne mangeremo uno,” lo consolò il magistrato, e rivolgendosi a doña Josefina: “È troppo, doña Fina, sarà meglio che mi ritiri, Finita.”

“No, no, no,” si agitò la direttrice. “Vuole umiliarci? Permetterete che il dottore si ritiri?”

“Se è per farle piacere, rimango tutto il pomeriggio, Finita.”

Il novanta, numero oscuro e senza precedenti, lo ricompensò col nono ariete e il sessantanove, numero che provoca sempre il sorrisetto dei malpensanti, rinchiuse nelle sue stalle il decimo montone. La gente non riusciva a scuotersi dalla stupefazione. L’altoparlante diffondeva un tango le cui parole proclamavano l’inutilità della lotta contro il fato.

Contra el destino nadie la talla

nasaleggiava l’indimenticabile Carlos Gardel.