27. Dove l’inclito lettore farà conoscenza, sempre a spese della casa, dello spensierato Pis-pis.
Le malelingue, unico archivio della provincia, discordano. Doña Josefina de la Torre, decana delle viperine, proclama apertamente la falsità del seguente capitolo. Eduvigis Dolor, la concubina del medico, giura di averlo sentito dire dalle labbra del suo amico. Chi può esserne certo? Certi cronisti affermano che non appena il dottor Montenegro venne a sapere della sfortunata fine del Tagliaorecchie, sparse un lacrimone. Per pietà, secondo alcuni; per pura gioia, secondo altri. Gli storiografi che scambiano le commozioni del dottore per lacrime di coccodrillo, si ostinano a sostenere che sfoderò un sorriso identico a quello che sfoggia Lucifero nel celebre Giudizio Universale della chiesa di Yanahuanca. Finalmente aveva in mano le autorità di Yanacocha! Scortato da notai e da guardie civili, il dottore riconobbe il cadavere dell’infausto Tagliaorecchie. Contraddicendo gli annalisti che proclamano che i giudici del Perú sono incapaci di piangere, il vestito nero si asciugò un altro lacrimone e fece trasportare il cadavere a Yanahuanca. In quel modo, Amador entrò nella provincia come certi politicanti: a spalle. A questo punto gli scolastici si accapigliano. La commiserazione s’impose. Invece di spedire il cadavere all’obitorio, il vestito nero diede ordine di condurlo nella propria casa. Si compí cosí anche per il Tagliaorecchie il destino dei grandi artisti: da morto gli vennero spalancate le porte che in vita non gli erano state aperte. Il vestito nero scacciò via i curiosi. Col defunto rimase soltanto Procopio, il fratello, piú innervosito dall’impresa di doversi sedere sulle sedie di plastica verde che addolorato dall’irrigidimento del Tagliaorecchie. Lí, intanto che Leandro si gonfiava, il dottor Montenegro spiegò a Procopio che le autorità della comunità di Yanacocha avevano privato l’arte del coltello di uno dei suoi piú insigni cultori. Disgraziatamente non esistevano prove, ma la giustizia esisteva apposta per riparare i torti. “Se graffiassimo un poco la faccia di Leandro,” singhiozzò il dottore, “i colpevoli non riderebbero della tua famiglia.” “Sarebbe un peccato, doctorcito” disse l’afflitto Procopio. Il Giudice ribatté con la definizione teologica: “Peccato sarebbe se i criminali riuscissero a burlarsi della giustizia. Tu saresti il colpevole,” disse il dottore e fissò i suoi occhi disgraziatamente troppo piccoli per una scena cosí grande in quelli di topo di Procopio, che della filippica aveva afferrato solo l’idea della sua presunta colpevolezza. “Come lei vuole, doctorcito,” mormorò Procopio. Si mandò a chiamare il Chuto. Ildefonso entrò nella sala visibilmente commosso. Infiammato da sacro fuoco di giustizia, condusse il defunto nei cortili interni. Probabilmente, in quei luoghi non si accontentarono di graffiarlo un poco perché quando il Tagliaorecchie fece ritorno il suo viso era coperto di bozze multicolori provocate da un diluvio di bastonate e di sassate. Dopo aver osservato l’effetto del trattamento, Procopio si sentí quasi venir meno, ma fu riconfortato da trecento soles caritatevolmente offerti per le “spese della veglia.” Il che comprova che il suono del denaro rinfranca gli animi piú del suono delle parole.
Quello stesso pomeriggio il medico stabilí che il Tagliaorecchie aveva perso la vita nel corso di un’evidente sassaiola pubblica. Sempre sollecito del rispetto degli interessi della signora con la bilancia, il Tribunale di Prima Istanza di Yanahuanca emanò l’ordine di cattura immediata dei presunti colpevoli: i dirigenti della comunità di Yanacocha. Simpaticamente invitati dal sergente Cabrera entrarono in prigione Agapito Robles, Blas Valle, Alejandro Gui, Sinforiano Liberato, Felicio de la Vega, Jorge Castro, José Reques e i tre Minaya: Carmen, Jesús e Anacleto.
Una settimana dopo, i dieci interessati ricevettero un invito scritto dal carcere di Huánuco: in quel luogo rimasero ospitati per un anno.
Solo Héctor Chacón, il Negletto, non ascoltò il tuono della giustizia: stava attraversando i confini della provincia, favorito dalla grandinata. La neve che bloccava le strade non bloccò lui: sette giorni dopo scendeva a Huamalíes, domicilio di un uomo coraggioso che egli aveva conosciuto durante i suoi cinque anni d’incarceramento: Pis-pis, l’uomo dal sorriso d’oro. Non fu l’alito cattivo di una dentatura cariata né una scalciata di mula a privare Pis-pis dei suoi denti: furono le donne. Per abbagliarle si fece togliere la sua magnifica chiostra: la sostituí con uno sfolgorante sorriso. Era in grado di pagarselo: coltivava papaveri e alleggeriva le fazendas dal bestiame esorbitante. Durante una delle sue escursioni commise il grosso errore di ridere: un contadino riconobbe la sua allegria aurea. In carcere fu sul punto di farsi cambiare la risata d’oro con una discreta dentatura d’argento. I suoi compagni lo dissuasero dal commettere l’attentato. Ma le guardie repubblicane non lo stimavano soltanto per lo sfarzo della sua bocca: temevano il suo potere in fatto di veleni. Il giorno in cui sua madre lo abbandonò sulla piazza di Huánuco, disperata perché non poteva mantenere sette bocche, Pis-pis ebbe la fortuna di cadere nelle mani di don Angel de los Angeles. Il signore dei veleni se lo portò nella selva. Lí gli insegnò il potere delle erbe. Pis-pis fu il misterioso aiutante che venne notato accanto a don Angel de los Angeles durante il celebre duello. Non lo provocò don Angel, bensí l’insensatezza di un Governo ostinato nel voler sistemare un diplomato a spasso. Si sa con sicurezza che quando il Governatore venne informato che il Governo gli stava mandando un medico, si sobbarcò una cavalcata di tre giorni per spedire il seguente telegramma: “Presidente della Repubblica, Palazzo del Governo Lima Perú Sud America stop Onoromi informarla che città non abbisogna medico stop Salute perfetta grazie incalcolabili servigi don Angel de los Angeles stop Terza parte popolazione supera cento anni stop Bacio mani Sua Eccellenza stop Governatore Padilla.”
Ma nemmeno un testo cosí salutifero impedí l’arrivo di un personaggio grasso e sudaticcio: il nuovo medico. La città, avvezza alla visita dei costieri che si stancavano presto del clima e si allontanavano maledicendo la malsana atmosfera delle lagune, lo tollerò. Qualunque cristiano avrebbe compreso che il miglior modo di occupare il tempo sarebbe stato quello di salire e scendere le scale del poker, ma il grassone si ribellò e cominciò a screditare don Angel. L’erborario, invecchiato nella gratitudine, scrollò le spalle, ma una domenica, mentre attraversava la piazza, il medicastro lo abbordò:
“Senta un po’, stregoncello,” gli gridò davanti alla gente che sbavava d’incredulità, “se lei è un uomo, l’aspetto domenica prossima in questa piazza. La vedremo se è capace di curare se stesso.”
Don Angel sospirò e la domenica seguente fu puntuale, su un cavallo nero, davanti a una piazza zeppa di viaggiatori venuti da dieci leghe di distanza.
Si accordarono su tre bevute. Don Angel chiese di bere i tre veleni del medico in un fiato solo. Bevve i tossici e poi masticò tre erbe. Sudò viola, giallo e blu. Pis-pis, che allora aveva tredici anni, gli asciugò il sudore con un fazzoletto cosparso di croci tracciate a luna calante. Il medico bevve la pozione preparata da don Angel, con un sorrisetto sprezzante; cinque minuti dopo si dissanguò. Cercò invano di farsi iniezioni, si tamponò e cercò di frenare la velocità con la quale scorreva il sangue. Perse la vita dal naso, dalla bocca, dalle orecchie e dal culo. Il discepolo di tanto maestro s’impose alle guardie repubblicane desiderose, tra l’altro, di farsi dare beveroni capaci di suscitare la simpatia delle donne crudeli o di triplicare il potere delle cozzate.
Héctor Chacón fuggí da Yanahuanca col pensiero rivolto a Pis-pis. Capiva che non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo se avesse affrontato solo con le sue mani l’ostentato disprezzo delle guardie civili. Dirigendosi verso Huánuco, Chacón aveva sognato di formare una banda di uomini armati in grado di espellere, a colpi di fucile, tutti i fazenderos. Disgraziati non erano soltanto gli uomini: il Ladro di Cavalli gli aveva raccontato della sofferenza degli animali. E sognò anche di riunire i disperati e di tornare per sistemare i conti con Montenegro. Pis-pis lo avrebbe aiutato. L’uomo dal costosissimo sorriso l’aveva giurata ai prepotenti. Lui stesso l’aveva sentito in carcere dipanare il gomitolo delle ingiustizie. Pis-pis non era un uomo qualunque; e sognò delle mani di Pis-pis intente a spargere polveri sull’acqua delle guardie civili, per tostare col veleno gli acquartierati, per costringere gli smargiassi a pisciare sangue.
Scorse Huamalíes. Si fermò, legò il cavallo e si lavò la faccia in una pozza d’acqua. Attraversò il villaggio e riconobbe la casa di Pis-pis, sul ciglio della strada. Da lontano sentiva ridere a crepapelle. Una donna paffuta, una bella femmina, si sporse dall’uscio.
“Abita qui Pis-pis?”
La donna lo squadrò con un’occhiata diffidente.
“Pis-pis e io siamo stati in carcere insieme per cinque anni, signora.”
Un paio d’occhi maliziosi sbirciarono dalla fessura della porta, poi uno scarpone rozzo la violò completamente: un grassone dal viso paonazzo allargò le braccia e un sorriso. Rideva e si batteva sulle cosce.
“Chaconcito, Chaconcito, avevo una gran voglia di rivederti! Quanto tempo, Chaconcito! Quante volte ho pensato a te, fratellone! Ma tu la gente povera non vai a visitarla volontieri. Amici, venite fuori a conoscere il mio compare Chacón!”
Si abbracciarono. Uscirono due uomini. Il primo, l’uomo piú magro che Chacón avesse mai visto in vita sua, portava un paio di calzoni rattoppati e una giacca di pelle sbrindellata. L’altro, enorme e muscoloso, sbozzò un sorriso amichevole.
“Questo è il mio compare, Héctor Chacón.” Pis-pis gli batteva sulla spalla.
“Quante volte abbiamo sentito parlare di te, don Chacón!” disse il Magro.
Pis-pis pizzicò le natiche alla donna.
“Senti, mogliettina, ammazza subito una gallina e prepara un buon arrosto per il mio compare.”
La stanza era un guazzabuglio di sedie, di sacchi di patate, di selle e di finimenti. Sei bottiglie di birra vuote e sei piene stavano a dimostrare un’allegria anteriore all’incontro.
Pis-pis stappò un’altra bottiglia.
“A cosa si deve questo piacere, compare?”
“Sono venuto a trovarti perché te lo avevo promesso.”
“Si può?” domandò dalla porta un uomo solido e muscoloso, un vicino del paese di Choras.
“Questo è Chacón,” disse Pis-pis. Negli occhi dell’ultimo arrivato scomparve la diffidenza.
“Sono Héctor Chacón, della provincia Daniel Carrión.”
“Mi hanno detto molte cose sul tuo conto, signor Chacón,” disse l’uomo di Choras.
“Salute!” disse Pis-pis. “A me piace bere con gli uomini, non coi castrati. Cosa ti succede, compare? C’è qualcosa che non va, nella tua faccia. Parla pure. Questi uomini sono amici miei. Abbi fiducia.”
“Mi è successa una disgrazia, fratelli. Ho ammazzato un uomo.”
“Io ho sentito parlare spesso di quel giudice Montenegro,” sputò Pis-pis, quando Chacón finí il suo racconto.
Altre dodici birre aspettavano le gole dei collerici.
“È ormai vent’anni che quel Giudice, facendosi forte del suo potere, mette sotto i piedi tutti i cristiani. Chi osa sfidarlo, entra in prigione. Quell’uomo ne ha due: una nella sua fazenda e l’altra nella provincia.”
“Ho sentito dire che nella prigione di Huarautambo non ci sono finestre,” disse il Magro.
“È vero, c’è solo un buco della grandezza di un pugno, quanto basta per cacciar dentro una patata al giorno per il prigioniero.”
“E tu cosa pensi di fare, amico?” disse Pis-pis stappando un’altra bottiglia.
“Penso di ricuperare la mia terra a colpi di fucile. Non c’è altro modo, coi fazenderos. Io penso di cominciare una lotta di sangue.”
“E che cosa ne pensa il tuo Personero?”
“È in prigione.”
“E il Presidente della Comunità?”
“È in prigione.”
Il Magro si alzò.
“Non è possibile tollerare tante prepotenze.”
“Héctor ha ragione,” disse Pis-pis. “Dire che siamo liberi è una bugia. Siamo schiavi. L’unico modo di uscirne fuori è di ammazzarli tutti.”
“Questo si può fare nella mia provincia, signori,” disse Chacón. “La morte dei ricchi dobbiamo cominciarla a Yanahuanca. Sono pronto a prestare la mia vita. Puoi aiutarmi, compare?”
Guardò Pis-pis, timidamente.
Pis-pis strabuzzò gli occhi burloni.
“Io ti appoggio, compare. Di che cosa hai bisogno?”
“Di carabine e di consigli, compare.”
“Queste ingiustizie dobbiamo affrontarle col sangue,” disse il Magro, entusiasmato. “Dovrebbe essere come una rivoluzione.”
“Verranno armati,” disse Pis-pis.
“Risponderemmo con le armi,” continuò il Magro. “Io ho studiato. Ci sono molti modi di contrarrestare una truppa di uomini.”
“Cominciamo da Montenegro,” disse Chacón.
“Io sono pronto, compare.”
Le mani agili di Pis-pis accarezzarono e poi sverginarono un’altra birra.