20. Della piramide di pecore che, senza avere la pretesa di imitare gli egiziani, elevarono i rancheni.

Una volta, c’era un vecchio testardo come un mulo. Era un vecchio con la faccia schiacciata e gli occhi sporgenti che la gente aveva soprannominato Faccia di Rospo. Non voleva capire che la “Cerro de Pasco Corporation” se la faceva con un capitale di cinquecento milioni di dollari. Da parte sua, il vecchio non possedeva che una trentina di pecore, una collera e due pugni. E c’era pure un capo ronda, un certo Egoavil, dallo sguardo cattivo e dagli occhi obliqui, che guadagnava migliaia di soles tagliando la coda alle vacche e calpestando gli agnelli sotto gli zoccoli del suo cavallo. Malgrado ciò, la Culoelettrico aveva scolato una bottiglia di cognac Poblete a spese del bravaccio e poi non si era data per intesa quando lui aveva voluto aprirle le gambe. Sconfitta questa che fu il vecchio a pagare con una bastonatura che lo lasciò li piú di là che di qua. Ma poi successe che il bruto cominciò a sognarsi del vecchio. La malattia dei sogni lo scarní. Il vecchio gli appariva con la faccia di Cristo. Roba che può succedere benissimo, da queste parti. Ma non si può dare una battuta a Gesucristo e venirsene via tutti tranquilli e beati. E cosí, un giorno il vecchio stava riposando – be’, cercava di farlo – sdraiato sulla sua pelle di montone. Aveva tutto un mosaico di pezzetti di carne fresca sulle ecchimosi. Lo scarso cielo che gli autorizzavano i suoi occhi gonfi era oltre a tutto annuvolato. Ma perse anche quel poco di cielo. Un uomo magro, con gli zigomi ossuti e con grandi orecchie trasparenti, gli oscurò la porta. Il vecchio riconobbe uno dei troioni della ronda. Si sollevò, disposto a mulinare le mani. Ma il tizio dalle orecchie diafane venne avanti, piuttosto mogio, tenendo il cappello in mano. Ed ebbe inizio il seguente dialogo:

“Le auguro una gran bella giornata, don Fortunato. Mi permette una parolina? Vengo a parlarle a nome di Egoavil.”

“Non nominare quel figlio di puttana in casa mia,” ruggí il vecchio.

“Non si scaldi, don Fortunato. Mi permetta. Don Egoavil riconosce che lei è un vero uomo, tanto è vero che continua a insultarci e a disprezzarci. ‘Vorrei avere uomini come quel Fortunato, e non una banda di cagoni come voi.’ Ecco cosa dice don Egoavil quando si sbronza.”

Forse senza intenzione, il vecchio schizzò la saliva verde di coca sugli stivali dell’orecchione.

“Cosa vuole?”

“Don Egoavil è stanco di lottare. Vuole fare la pace con lei. Dice che se lei vuole può fare entrare le sue bestie nei nostri campi.”

Don Fortunato aggrottò le sopracciglia per nascondere il suo trionfo.

“Non sono i vostri campi. Voi avete recintato abusivamente la terra d’altri.”

L’uomo dalle orecchie trasparenti fece appello alle prerogative dei sottosviluppati.

“Io non sono altro che un povero salariato, don Fortunato, e ubbidisco agli ordini.”

“E quale sarebbe la proposta di Egoavil?”

Il povero salariato sorrise, nella speranza di vedersi risparmiata una sequela di sacramentele da parte di Egoavil.

“Ecco, lei potrebbe far entrare le sue bestie di notte. Noi chiuderemmo tutt’e due gli occhi. Don Egoavil la prega solo di far entrare le sue bestie di notte. Non lo comprometta.”

“Hum!”

“Ci pensi, don Fortunato. È un delitto far morire le pecorelle.”

Il vecchio venne colto da un accesso di collera.

“E tu ci pensi adesso, coglione?”

“Non se la prenda con me, don Fortunato. Io sono un poveraccio. Proprio cosí. Guardi un po’ cosa si deve fare pur di sfamare la famiglia.”

“Bada, Fortunato, è una trappola,” lo avvisarono i pastori. Il vecchio rispose: “Cosa posso perdere? Peggio della morte non c’è altro. Quante bestie mi rimangono?” Riuní i resti del suo gregge. Quella stessa notte staccò con un paio di pinze il filo di ferro del pascolo Querupata. Le sue pecore vi pascolarono fino all’alba. Il vecchio tornò a casa gelato ma contento. La sera successiva ripeté l’impresa. I pastori ammiravano affascinati le sue pecore rimpinguate. “Approfittatene. Cosa potete perderci?” insisteva Fortunato. Non osavano. Chi si decise per primo fu proprio una donna, doña Silveria Tufina, che lo supplicò di far entrare nel pascolo anche le sue pecore. Fortunato mise insieme i due greggi convinto che quella notte tutti i timori sarebbero stati dissipati. Staccò il filo di ferro e introdusse le bestie. Gli si chiudevano gli occhi. “Per favore, doña Tufina, non ce la faccio piú. Vado a dormire un po’, ma torno subito.” Lo svegliò il sole. Saltò dalla pelle di montone, cacciò la testa in un secchio d’acqua e corse verso la pampa. La nebbia non si diradava. Da lontano scorse Tufina, seduta su una roccia. Si rilassò.

“Stai bene?”

Non gli rispose.

“È successo qualcosa?”

“Malasorte,” disse Tufina accennando vagamente alle rocce.

Fortunato si arrampicò sul pendio sfumato dalla nebbia e contemplò un orizzonte di animali sgozzati. Ribollí nel brodo di una rabbia biblica. Sollevò lo sguardo. I primi avvoltoi stavano planando, puntuali.

“Signorina, fa la nanna,” singhiozzò la vecchia, accarezzando la testa di una pecora moribonda.

Fortunato strappò un ciuffo d’erba e la scagliò in aria. Un vento freddo disperse gli steli: tre fili gli sferzarono la faccia.

“Chi è stato?”

“Signorine, non lasciatemi, signorine!”

“La cosa non può finire qui! Non può finire qui.”

Strappò di nuovo l’erba, lacerandosi le dita con le spine.

“Sono stati i cani. È stato Egoavil!”

Le sue mandibole si confusero coi profili delle rocce aguzze.

“Resta qui,” ordinò. “Sorveglia i tuoi morticini.” E corse a Rancas ancora perduta nei vapori dell’alba. Fortunato attraversò la viuzza e corse verso il campanile, aprí la porta, salí i quindici scalini e cominciò a spingere la campana. Il suo braccio scoteva la campana, senza ritmo, furiosamente, con rabbia. Istantaneamente la piazza nereggiò di facce gravi. Fortunato scese. Gli uomini circondavano il corpo sbranato di una pecora. Fortunato si fermò sulla porta. Aveva il petto sporco di sangue.

“Siete uomini o donne?”

“Cosa succede, don Fortunato?”

“I capoccia de ‘La Cerro’ hanno sorpreso la signora Tutina, hanno calpestato le pecore coi cavalli e poi hanno fatto entrare i cani. Sono morte tutte. Uomini o donne, io non so cosa siete. Che cosa aspettate? Che il Recinto entri nelle vostre case? Aspettate che la donna non possa piú mettersi a letto con l’uomo?”

Le facce si raggrinzivano, azzurravano con un colore diverso il giorno nascente. Negli sguardi si spegneva e si riaccendeva, nasceva e rinasceva, una forza estinta.

“Qui ormai non si può piú indietreggiare. Indietreggiare vuol dire toccare il cielo col culo. Uomini o donne, non so cosa siete, ma dobbiamo lottare.”

La nebbia non si dissipava. Le rocce esalavano fumigazioni biancastre. Incas, capi, viceré, corregidori, presidenti della repubblica, prefetti e sottoprefetti erano i nodi di un quipus28 di un filo di terrore immemorabile.

“Fortunato ha ragione,” disse Rivera, logorato. Le pietraie, il vento, le facce, si corrugavano in un’altra età piú consunta. Nella voce rauca si notava la vecchiaia. “Bisogna protestare!” gridò. “Andiamo a Cerro! Protestiamo a Dio, al Prefetto, al Giudice, ai cani, ma protestiamo! Facciamo vedere alla gente il nostro dolore.”

“Le autorità sono vendute,” si lagnò Abdón Medrano. “Qui non c’è nessuno a cui protestare.”

Anche lui aveva una nuova faccia.

Fortunato sollevò la pecora e. se la mise sulle spalle. Il Personero Rivera, che aveva in casa sua la storia di Gesucristo, si rammentò che in una delle incisioni un profeta, altro uomo incollerito, si era messo una pecora sulle spalle prima di predicare la perdizione e il fuoco, ma non disse nulla: non sapeva come dirlo.

“Andiamo a raccogliere le pecore,” disse Fortunato, “e poi tutti a Cerro de Pasco!”

Raccolsero gli animali. Tra uomini, donne e bambini, si strinsero insieme un centinaio di persone. Il mattino accigliato si acquattava nella pampa. Passò strillando uno stormo di anatre selvatiche. Il vento gelido tiranneggiava i visi angosciati. Lungo la strada si unirono a loro altri pastori. Guardavano la carovana e, senza una parola, raccoglievano le loro pecore e camminavano: erano quasi un migliaio. Percorsero in silenzio dieci chilometri. Videro in lontananza Cerro. Un sole smemorato scoloriva le prime case. Entrarono nel viale Carrión e avanzarono tra le buche scavate dai ferri dei cavalli. La gente cedeva il passo al corteo.

“Cosa succede?” interrogavano, ma poi guardavano la processione di uomini curvi sotto il peso delle pecore morte e tacevano.

“Guardate quello che ci fa ‘La Cerro’!” gridò Fortunato. “Non si accontenta di recingere le nostre terre. Ammazzano le nostre bestie coi loro cani. Presto ammazzeranno anche noi! Presto non rimarrà piú nessuno! Presto recingeranno il mondo!”

La voce risonava come se la città fosse il ventre di una campana colossale. Erano le dodici. Impiegati e operai mal vestiti si allineavano sui marciapiedi. Il vecchio evocava le furie della sua impotenza.

“Hanno recinto Rancas! Hanno recinto Villa de Pasco! Hanno recinto Yanacancha! Hanno recinto Yarusyacán, recingeranno il cielo e la terra! Non ci sarà né acqua da bere né cielo da guardare!”

“Non hanno diritto!”

“Questo è un abuso!”

“Quei gringos di merda non hanno diritto di scacciarci dalle nostre terre!”

“Cosa fanno le autorità?”

La gente s’indignava. Un minatore alto e magro si tolse il casco giallo e se lo posò sul petto, come se passasse un funerale. Un venditore di berretti di cuoio, un grassone sdentato, lo imitò. Percorsero tutto il viale Carrión. Erano una moltitudine, quando entrarono nella piazza.

“Alla Prefettura! Alla Prefettura!”

La folla cenciosa si diresse verso la Prefettura del distretto, uno scalcagnato edificio con le finestre verdi sulla porta del quale si stavano annoiando due guardie repubblicane. Le guardie guardarono la folla e armeggiarono coi loro vecchissimi mauser. Dalla Prefettura uscí un caporale grassoccio, con la faccia imbruschita. La giubba semi sbottonata denunziava il pranzo interrotto. Sei guardie arcigne si allinearono dietro il suo malumore. Davanti alle armi, come sempre, la folla si fermò.

“Cosa succede?” gridò il caporale.

“Vogliamo parlare col Prefetto,” si umiliò Fortunato.

Il caporale non ritenne necessario finire di abbottonarsi.

“Chi siete?”

“Sono... noi siamo i comuneros29 di Rancas,” balbettò il Personero Alfonso Rivera. Avrebbe voluto parlare, ma non gli venivano le parole, sudava.

Il caporale lo rivestí, di nuovo, di disprezzo.

“Vado a domandare,” grugní e sparí nel corridoio. La folla silenziosa ascoltò il ticchettio degli stivali consunti. Tornò dopo cinque minuti. Per parlare col suo ufficiale si era abbottonato regolarmente la giubba; ma ora, davanti alla folla, tornò a sbottonarsela.

“Il signor Prefetto non c’è,” e li guardò rabbiosamente. La sua bistecca con cipolle si stava coprendo di untume.

“Ma se lo abbiamo visto alla finestra,” protestò Fortunato.

“Non c’è e non c’è,” grugní il caporale.

Il viso degli uomini si tinse di delusione. Imbaldanziti dalle parole di Fortunato avevano sognato, per un attimo, di poter protestare. Il caporale li riportava alla realtà. Il Prefetto non c’era. Le autorità non ci sono mai. È da secoli che in Perú non c’è mai nessuno.

“Va bene,” si rassegnò Fortunato. “Volevo solo fargli vedere questo.” E sollevò le braccia e posò la sua pecora morta sulla soglia.

“Via di li,” sbraitò il caporale.

“Mettete giú le vostre pecore,” ordinò Rivera.

Gli uomini esitarono. Scintille di paura accesero le loro pupille. Non ne avevano il coraggio. Era da centinaia di anni che perdevano tutte le guerre, secoli che si ritiravano.

“Ubbidite,” disse il Personero Rivera posando il suo montone di pena. Abdón Medrano lo imitò, e cosí fecero tutti gli altri, ad uno ad uno. Gli urli del caporale e le cariche delle guardie non impedirono il sorgere di una piramide di teste insanguinate. Un vertiginoso monticello di animali morti andò crescendo sulla porta della Prefettura, sotto lo scudo sbiadito che proclamava che in quel luogo, in quell’edificio a due piani, con otto finestre verdi, risiedeva il rappresentante politico del signor Presidente della Repubblica Sua Eccellenza don Manuel Prado.

Le urla del caporale trasudavano paura. Conosceva la cocciutaggine degli indios: vent’anni di servizio sulle montagne gli avevano insegnato che quando i comuneros si decidono a fare qualcosa, nessuno può fermarli. E per stanchezza, per tristezza, per incoscienza, continuavano ad ammonticchiare le loro pecore, ignorando che se la Prefettura fosse crollata sarebbero stati loro i primi ad essere travolti. La Prefettura di Cerro de Pasco si trova su una cantonata. A destra confina con la premiata drogheria “La Serranita” e a sinistra col viale Libertad. (In nessuna città del Perú mancano strade intitolate alla Libertà, all’Unione, alla Giustizia, al Progresso.) L’edificio della Prefettura pendeva un po’ da quella parte, oppresso dall’oceano moribondo di lana. Ormai non si potevano piú distinguere le pecore vive da quelle morte. Le pecore hanno una loro prerogativa: anche dopo sgozzate continuano a ruminare. E sia perché la passeggiata le avesse ristorate o per semplice brama di esibizionismo, le pecore ruminavano, continuavano il loro stupido ed inutile lavoro.

Don Alfonso Rivera guardò la piramide di lana insanguinata:

“Sarà meglio andarcene! Non sia mai che la Prefettura crolli giú e che ci obblighino a pagare una multa!”

“Sí, ormai può bastare,” disse Fortunato, sporco di sangue.

Tornarono sui loro passi. Sulla salita, all’altezza della chiesa, furono raggiunti da una camionetta della Polizia. Un tenente rabbioso gridò dal finestrino:

“Siete stati voi a lasciare quelle pecore davanti alla Prefettura?”

Si esprimeva martellando le sillabe. Dalla velocità delle sue parole, secche e definitive, si riconosceva l’ufficiale della costa per il quale il disprezzo contro gli indios è quasi del tutto naturale.

“Sí, signore.”

“Chi è Fortunato?”

“Io, signore.”

“Salga immediatamente! Il Prefetto vuole parlarle!” Fortunato non si fece pregare ma, prima di saltare sul pavimento della camionetta dove sacramentavano di freddo tre guardie repubblicane, abbozzò un sorriso. Il Prefetto lo mandava a chiamare. Finalmente avrebbero protestato. La camionetta partí. Il sorriso di Fortunato continuò ad ondeggiare sulla folla eccitata. Fortunato aveva ragione! La Ford si perse tra il fango delle viuzze. Si fermò davanti alla porta della Prefettura. Le pecore continuavano a ruminare. Il tenente saltò giú.

“Mi segua!” disse senza voltarsi e salendo i gradini a due a due, aggrappato alla ringhiera per non scivolare sugli scalini sconnessi. Fortunato lo seguí rispettosamente. L’anticamera della Prefettura era un salottino della mala sorte, arredato con tre poltrone imitazione Luigi XVI. Il ritratto del Presidente della Repubblica, Ing. Manuel Prado, sorrideva dietro una triplice fila di decorazioni.

“Eccotelo,” disse l’ufficiale a un grassone sbiadito dagli occhi mongolici.

“Lei è Fortunato?” domandò il segretario.

“Sí, signore,” disse Fortunato togliendosi il cappello.

“Entri.”

Fortunato entrò nell’ufficio. Lo studio della prima autorità politica del distretto partecipava del sudiciume generale. Davanti al modesto scrittoio, coperto di scartafacci, stava aspettando, in piedi, un uomo grasso, con le labbra gonfie e una grande pappagorgia. Il signor Figuerola, Prefetto del distretto di Cerro de Pasco, indossava un vestito liso, a quattro bottoni, acquistato nei tempi grami, prima che il Presidente lo favorisse.

“È lei Fortunato?” domandò, come chi scaglia un pugno.

“Sí, signore,” rispose l’altro, con la bocca impastata dall’emozione.

Il Prefetto Figuerola cominciò a passeggiare su e giú per la stanza. Per contenere la collera faceva schioccare le giunture delle dita.

“Lei ha preso la Prefettura per una stalla? Cosa le è venuto in mente di lasciarmi sulla porta la merda delle sue pecore?”

Fortunato si sentí sprofondare in un oceano di terrori ancestrali.

“Signor Prefetto, io volevo solo che lei vedesse l’abuso; io, signore...”

Il Prefetto proseguí il suo andirivieni davanti all’uomo che continuava a rimpicciolire.

“Io la farò marcire in carcere per la sua insolenza! Cosa si è messo in mente, morto di fame? Di venirmi a fottere l’anima con le sue pecore pidocchiose?”

La voce pugnalava.

“Va bene. Io lo so che è un delitto mostrare l’abuso,” disse il vecchio, ansioso di bere il suo millenario calice di umiliazione.

Il Prefetto, che si dominava per non prendere a calci lo sfrontato, si rammentò della pressione arteriosa. Grazie a Dio, lui non era nato in quella merda di paese e perciò l’altitudine lo faceva boccheggiare.

“Mi stia a sentire, imbecille. Mostrare l’abuso non è delitto! Delitto è sporcare la porta dell’Autorità.”

“La ‘Cerro de Pasco Corporation’ ci obbliga a protestare, signore. Lei lo avrà ben visto quel Recinto.”

“Io non so niente. È da anni che faccio l’autorità. Io ho servito in quasi tutti i distretti. Non ho mai conosciuto un indio onesto. Voi sapete solo protestare: mentite, ingannate, fingete. Voi siete il cancro che sta facendo marcire il Perú.”

“Signore, la sua pressione,” rammentò rispettosamente il segretario. Il Prefetto si sedette.

“Cosa ha intenzione di fare con quella porcheria delle pecore?”

“Me le porterò via, signore.”

“E come pensa di portarsele via?”

“Cosí come le ho portate qui, signore.”

“È pazzo? Vuole ripetere quella pagliacciata idiota? Nossignore, se le porti via con un carro!”

“Noi non abbiamo un carro, signore,” balbettò Fortunato.

“Chiami il Municipio e si faccia prestare il carro della spazzatura!”

“A me non daranno retta, signore.”

“Va bene,” disse il Prefetto Figuerola, rassegnato. “Va bene. Signor Gómez, chiami da parte mia il Municipio e dica che prestino un camion a questi imbecilli.”