25. Del testamento steso in vita da don Héctor Chacón.
“Io ero testimonio! Io ho firmato,” si vanta il Niño Remigio inarcando la gobba.
Il Niño Remigio parla tanto per parlare. La sera in cui il Nittalope riuní i suoi figli per comunicar loro le sue ultime volontà, il gobbetto russava nella prigione del posto di guardia. Il sergente Cabrera, incrollabile partigiano della candidatura unica di un Generale, futuro Presidente della Repubblica, era venuto a sapere che Remigio propagava per tutto il paese la diceria che le urne elettorali non erano altro che scatole magiche dove un voto contrario al Generale si sarebbe automaticamente trasformato in un voto favorevole al Generale. Lo scherzo costò al Niño Remigio quindici giorni di prigione. Come era possibile che avesse assistito all’apertura del testamento? Non vi assistette, né firmò, né era in grado di firmare. Il documento non lo poteva vedere nessuno dato che non esisteva. Gli unici convocati furono Ignacia, la moglie di Chacón e i suoi figli Rigoberto, Fidel e Juana. Hipolito era assente.
Li svegliò alle tre di mattina. Il Nittalope accese i resti di una candela. La luce vacillò. Chacón si bagnò le dita di saliva, calmò la fiamma e poi disse:
“Ho ammazzato un uomo!”
“Vergine Santissima!” Ignacia si piegò sulle ginocchia. Fidel guardò il volto invecchiato, debole, di suo padre: era l’ultima volta che lo vedeva. Rigoberto palpebrò in silenzio. Juana si mise a singhiozzare.
“Figli, ho ammazzato un uomo violento. Non appena farà chiaro la polizia verrà a prendermi. Devo andarmene questa notte stessa.”
“Quando tornerai, papà?” domandò Rigoberto.
“Non sono sicuro di tornare. Se mi prendono vivo la condanna sarà lunga; ma non sarà facile acciuffarmi.”
“Papà,” piagnucolò Juana, “mai hai parlato cosí.” Il Nittalope si sedette su un sacco di biada.
“Queste violenze sono nate dai pascoli, figli. Se Montenegro ci avesse lasciato un pezzetto di pascolo, tutto andrebbe come una volta, ma adesso è troppo tardi. Sono grave. Posso morire da un momento all’altro. Se cado nelle mani della polizia, mi ammazzeranno.”
“Fa’ fuori i fazenderos, papà,” disse Rigoberto mangiandosi le lacrime. “Anche se tu dovessi morire, falli fuori. Rompigli la schiena.”
“Non parlare cosí a tuo padre,” lo rimproverò Ignacia.
La candela ingiallí gli occhi del Nittalope. Quello era il viso che Rigoberto non si sarebbe piú dimenticato. Passati gli anni, quando si sarebbe sperduto nel labirinto dei lavori oscuri, non avrebbe pensato ai sorrisi dei giorni buoni, ma a quel viso smaltato di rancore.
“Sia come sia, Montenegro ha i giorni contati. Mi sono deciso a formare una banda per combattere contro l’oppressione. Ho amici disposti a bere il suo sangue.”
“Cosí va bene, papà,” disse Rigoberto. “Falla finita coi prepotenti.”
“Io non cadrò solo. Anch’io ammazzerò. Se vivo, tornerò; se muoio, morirò.”
“Cos’hai, cosa succede, papà?” tornarono a lamentarsi le donne.
“Io non sento pena, ma rabbia; non soffro, sono sereno.”
Si alzò.
Juana avrebbe rammentato quel volto. Passati gli anni, quando il rimorso le avrebbe roso il cuore, la nebbia di quegli occhi sarebbe venuta a farle visita.
Tornò a sedersi sul sacco.
“Figli, a me spettano tre campi di grano: Ruruc, Chacrapapal, e Yancaragra. Quelle terre sono mie. Quei campi saranno divisi in parti uguali tra i fratelli. Questa casa l’ha costruita mio nonno. Lui l’ha lasciata a me. Sarà divisa in parti uguali tra i maschi.
“E alle donne?” domandò Ignacia.
“Alle donne lascio il campo di Lechuzapampa. A te, Juana, niente. Tu vivrai con tuo marito. Ubbidiscigli sempre. Non lasciare sola tua madre.”
“Perché non mi permetti di accompagnarti, papà? Ormai sono un uomo, io so sparare,” disse Fidel.
“Non piangete. Io devo vendicare la gente povera. Anche se dovesse contrattare mille guardiaspalle, io ammazzerò Montenegro. Non sarà sempre protetto dai suoi leccapiedi. Il mese di maggio è ormai vicino. Dovrà per forza uscire a sorvegliare i raccolti, e allora cadrà.”
“Io posso accompagnarti dovunque andrai, papà. Posso portarti i sacchetti delle cartucce. Cosí potrai dormire tranquillo,” insistette Fidel.
“Rompi la schiena a tutti i fazenderos, papà,” ripeté Rigoberto, con rancore.
“Rigoberto, tu devi provvedere alla famiglia. Qui ti perseguiranno. Sarà meglio che tu vada a lavorare nella miniera Atacocha. Non ti compromettere. Il mese prossimo farò piazza pulita.”
“Va bene, papà, fallo. La gente dice che morirai. Va bene, muori, ma non morire senza far morire. Sei armato, non lasciarti battere.”
“Non mi batteranno. Non mi resta altro da dirvi. Vi ho dato tutto quello che ho. Mi restano solo due cose: un calendario che mi hanno regalato a Yanahuanca e un pacchetto di stelle filanti che pensavo di usare a carnevale. Il calendario è per te, Rigoberto; le stelle filanti sono per te, Fidel. E adesso sellatemi il cavallo. Me ne vado!”