7. Della quantità di munizione richiesta per stecchire un cristiano.

Un inverno prematuro sciaguattò per le strade. Le orme si smarrivano nel fango. Dicembre tuonava lungo le cordigliere. Rintanata nelle capanne, la gente guardava dimoiare il mondo. Un mercoledí piovoso, una Guardia Civile emerse dalla strada di Yanahuanca. La guardia Paz infilò il muso rincagnato nella casa del Personero Agapito Robles. La gente si assiepò. Rimasero un po’ delusi: la guardia non recava ordini di cattura. Il Sottoprefetto Valerio confermava che la comparizione tra la fazenda Huarautambo e la Comunità di Yanacocha si sarebbe celebrata il tredici dicembre. La guardia Paz ringraziò per il bicchierino di acquavite e si estinse nella nebbia.

“È molto strano,” disse Melecio de la Vega, “molto strano che l’autorità ci usi tanti riguardi.”

“Non essere sospettoso,” disse il Personero. “Il dottore sarà stufo di tante notifiche. Forse vorrà sistemarle.” Si grattò il polpaccio e rise. “Forse non ci sarà bisogno di violenza.”

“Bisogna preparare il ricevimento,” disse il Ladro di Cavalli.

“Un bel ricevimento,” consigliò l’Abigeo. “Che non ci succeda come a quelli di Chinche.”

Il Ladro di Cavalli sghignazzò. Le autorità si segnarono. Erano mesi che quelli di Chinche, scorticati dagli sconfinamenti della fazenda, avevano sollecitato una comparizione. Affranti da metri e metri di suppliche, le autorità deliberarono il viaggio dell’ispettore Galarza. Chinche, ancora novellina in fatto di tortuosità giudiziarie, si scombuiò. Il Personero Amador Cayetano mandò a noleggiare trombe e tamburi nel raggio di cinque leghe e ordinò l’erezione di un arco di trionfo. Scese di persona in provincia per comprare una camicia nuova e per far preparare un discorso dallo scribacchino Lorenzana. Il celebre Linguadoro compose infatti un ditirambo degno del Prefetto. La vigilia, Cayetano partí per Tambopampa coi migliori cavalli della comunità. Tambopampa è una schizzata di capanne buttata là all’inizio della strada per Chinche. Cayetano pensò a tutto meno che all’inverno. Tra Cerro e Tambopampa si sprecano, normalmente, cinque ore; ma le piogge si erano accanite contro le strade. L’arrivo dell’ispettore, previsto per le undici del mattino, avvenne in realtà alle otto di sera. Impregnato di fango e di stanchezza, col viso inacidito, scese dal camion imbiancato dalla tempesta.

“Come sta Vostra Eccellenza?” domandò Cayetano. L’Ispettore percorse con lo sguardo le capanne sferzate dalla grandine.

“I cavalli di Vostra Eccellenza sono pronti.”

“Cazzo, vuoi farmi crepare?” gridò l’ispettore. “Non ti sei accorto che non si vede piú in là della punta del naso? È impossibile partire. Fermiamoci qui. Fammi portare qualcosa da mangiare e poi voglio riposare.”

Cayetano sbigottí.

“Non c’è niente da mangiare?”

“A Chinche abbiamo preparato una pachamanca, Eccellenza.”

“Smettila di sfottermi col titolo di Eccellenza.”

“Va bene, Eccellenza.”

Ci misero un’ora ad accendere un fuoco. In una delle capanne, Cayetano rinvenne un barattolo di estratto di caffè. L’Ispettore aspettava piú morto che vivo, senza niente nello stomaco dalle sette della mattina; finalmente Cayetano venne avanti con una brocca. Galarza soffiò e sorbí il caffè bollente; si trasfigurò e sgargagliò una smorfia di ribrezzo.

“Che intruglio è mai questo?”

“È caffè, Eccellenza.”

“Mostrami il caffè!”

Gli portarono il barattolo fangoso. L’ispettore lo stappò e scostò il naso, disgustato.

“Da dove cazzo avete tirato fuori questo caffè?”

“È puro estratto, comprato a Huancayo, Eccellenza.”

“Quando l’hai comprato, bestia?”

“Un anno fa, Eccellenza.”

L’Ispettore alzò le braccia al cielo.

“Dio mio, quando progrediranno questi selvaggi? Quando si civilizzeranno? Per lo meno, mi darete da dormire?”

Gli portarono una pelle di montone. L’Ispettore Galarza precipitò in un sonno disperato. Le autorità di Chinche uscirono fuori a recriminarsi. Il rabbioso Ispettore avrebbe sentenziato contro! Sull’anarchia dei cazzotti s’impose l’autorità del Personero. “È andata cosí,” disse Cayetano. “Offriamogli almeno una buona colazione.” Era un santo proposito. La tempesta murava le strade; andarono a spidocchiare le capanne. Non trovarono nemmeno una briciola di pane. A mezzanotte decisero di battere la zona. La tempesta non si placava. Fermín Espinoza – un ex sergente, colono espulso da Chinche che viveva rifugiato in una grotta – trovò una gallina. La sequestrò. Stava quasi albeggiando.

“Sai fare da mangiare, tu?” domandò Cayetano.

“Nelle caserme s’impara a fare un po’ di tutto.”

“Prepara un buon stufato.”

Quando la fame destò l’ispettore, un sole glorioso rimetteva tutti i debiti e uno stufato fumigava su una cassa di legno decentemente coperta da una pagina giallastra de El Comercio.

“La colazione, signor Ispettore,” annunciò Cayetano.

L’Ispettore Galarza stimò l’immensità dello sforzo e sorrise. Si gettò quasi sullo stufato, ma non aveva ancora finito d’inghiottire la prima cucchiaiata quando la faccia gli si risollevò.

“Cos’è questa mostruosità?”

“Gallina, Eccellenza,” lo informò Cayetano. “L’ho spennata con le mie mani.”

“Questa è merda,” si strozzò l’ispettore.

Cayetano annusò lo stufato e si contorse dalle risa: era proprio merda.

“Di un po’, Espinoza. Hai chiuso la pentola?”

“Quale pentola?”

“Grandissimo figlio di puttana,” ruggí Cayetano. “Non sai che quando si cuoce con lo sterco bisogna chiudere la pentola per non far prendere al mangiare l’odore della merda?”

La tragedia dei chinchesi fece raccapricciare gli yanacochani.

“Bisogna prepararsi,” s’inquietò Agapito Robles, timoroso.

“Sarebbe bene contrattare una banda di musicanti,” consigliò l’Abigeo.

“Costerebbe trecento soles.”

“Li vale.”

Il dodici dicembre, in mattinata, il Personero e sessanta cavalieri scesero a Yanahuanca. La Piazza d’Armi non rammentava una cavalcata simile. Lo stupore sottrasse le guardie alla siesta. Il sergente Cabrera si aggiustò la cartuccera e percorse la piazza con l’intracciglio aggrottato. Non osò altro. Héctor Chacón, il Ladro di Cavalli e l’Abigeo entrarono nella piazza preceduti da un ronzio di vespe. Gli uomini aspettarono, fumando, chiacchierando o bevendo. La nebbia autorizzò un rapido crepuscolo. Alle sette di sera due fari titillarono sulle alte curve di Chipipata.

“Arrivano,” gridò il Personero.

Trenta minuti dopo un camion spruzzato di fango entrò nella piazza. La banda scandalizzava con le prime note della Marcha de Banderas. L’Ispettore si tolse il cappello.

“Le autorità di Yanacocha,” disse il Personero, dignitoso, “le danno il benvenuto, illustrissimo Ispettore.”

L’Abigeo e il Ladro di Cavalli si diedero da fare coi bagagli. La banda e il clamore accompagnarono l’ispettore fino all’Hôtel Mundial.

L’Ispettore avanzò, nauseato dall’altitudine e dagli applausi.

“Sono molto stanco,” disse avvicinandosi alla porta.

“Non da quella parte, signor Ispettore,” disse il Personero.

“Come?”

“Bisogna salire dal patio,” lo informò l’Abigeo.

L’Hôtel Mundial era uno degli edifici beneficiati dai talenti di Simeón lo Sbadato, unico rappresentante dell’architettura nella provincia. Simeón non si ricordava mai né delle offese né dei progetti di costruzione. Gli sfuggiva sempre di mente una porta, una finestra, un corridoio. Grazie al suo genio, molti yanahuancani dormivano in sala e mangiavano in granaio. Nell’Hôtel Mundial gli sfuggí la scala. Tra la demolizione dell’edificio e l’adozione di una scala a pioli, i proprietari scelsero l’ultima soluzione, che presentava un vantaggio: scartava gli ubriachi dalla clientela.

“Vado a riposare,” si rassegnò l’ispettore.

“A che ora desidera i cavalli?”

“Alle nove.”

Il Personero Agapito Robles s’inchinò.

Esplose, di nuovo, la Marcha de Banderas. L’Ispettore si arrampicò tra salve d’ovazioni.

“Domani, tutti in piazza!” gridò il Personero.

“Vi chiameranno le scampanate,” aggiunse Felicio de la Vega.

I cavalieri si dispersero nel buio. Il trotto dei cavalli si assottigliò. Un’ora dopo sguazzavano nel fango di Yanacocha.

“Ci vedremo domani,” sbadigliò il Personero.

“Fermati,” ordinò Chacón.

“Cosa c’è?”

Il Nittalope soppesò un sacchetto.

“Cos’è?”

“Quarantacinque colpi.”

Il Personero si ritrasse sulla sella.

“Héctor,” scaracchiò, “ho fatto un brutto sogno.”

Il Nittalope osservava un ragno che risaliva il tetto di una capanna.

“Ho sognato che la pampa formicolava di guardie.”

Il Nittalope fece schioccare le articolazioni delle dita.

“Héctor, magari il dottore cede.”

“Il Giudice cederà il giorno che voleranno i maiali.”

“Noi autorità,” tossí il Personero, “non siamo d’accordo su quella morte. Tu non puoi compromettere il villaggio, Héctor.”

“Hai sognato anche quello?”

Il Personero si umiliò.

“Nessuno può procedere senza autorizzazione.”

Il revolver arse nella mano del Nittalope.

“Per che cosa mi sono preparato?”

“Cosa hai perso a prepararti?”

“Va bene,” gridò il Nittalope, e diede di sprone al suo balzano. Il cavallo partí sparato.

“Héctor, Héctor!”

Il Nittalope stava già galoppando lungo la pampa enorme. Solo all’alba s’impietosí del cavallo e tornò indietro. Tigre uscí a strofinarsi contro le sue gambe, agitando la coda.

“Per di qui, papà, per di qui,” Io guidò la voce di suo figlio.

‘Crede che sono bronzo,’ pensò Chacón. Dalla porta si affacciò la testa di un bambino sporco di sonno.

“Accendi una candela, Fidel.”

Il bambino gli baciò la mano e accese il resto di un moccolo. La luce vacillante spruzzò le pareti senza sbiancarle. Nella stanza erano ammucchiati sacchi di patate, finimenti, selle, some e casse; ritmicamente, sua figlia russava. All’improvviso una stanchezza antica lo strinse alle gambe. Si slacciò il cinturone e posò il revolver e il sacchetto sulla tavola. I proiettili si sparpagliarono. Gli occhi di Fidel lampeggiarono sull’arma.

‘Domani morirò,’ pensò il Nittalope. ‘La Guardia Civile mi crivellerà, mi legheranno per i piedi a un cavallo e mi trascineranno in giro. Nessuno riconoscerà la mia faccia. Né mia moglie, né Juana, né Fidel, né Hipolito mi riconosceranno.’

“Ammazzerò Montenegro,” disse il Nittalope. “Domani farò fuori quel prepotente. Se vogliamo avere pascoli, la dobbiamo fare finita.”

Il bambino accarezzò il revolver come il dorso di un gatto.

“Tante pallottole ci vogliono per ammazzare un uomo, papà?”

“Ne basta una sola.”

“Le guardie ti lasceranno vivo?”

“Ho molti colpi.”

“Ti spareranno?”

“Non ce la fanno a mirare un cervo, figurati se riusciranno a mirare me. Metti via quella roba, Fidel. È tardi, va’ a dormire.”

Gli occhi del bambino arsero.

“Falli fuori tutti i proprietari, papà. Io ti aiuterò. Nessuno deve sospettare, e cosí domani porterò io le armi sotto il mio poncho.”

Chacón si abbandonò a un sonno senza pensieri. Lo ridestarono le voci di Fidel e di Juana.

“Fa’ in fretta, sorellina,” gridava il bambino in cucina, “oggi è il gran giorno. Compra pane e formaggio.”

“Tu pulisciti il naso e sta’ zitto.”

“Non sai che cosa faremo oggi?” e sollevò il revolver. “Oggi ammazzeremo Montenegro.”

“Santissima Rosa di Lima! Metti giú quella roba!”

“No, sorellina, le donne non toccano le armi. E questa non è uno scherzo. Taci e prepara una buona colazione per Héctor.”

Disteso sulla pelle di montone, il Nittalope contava i rintocchi. Si alzò e si vestí: uscí nel patio e si bagnò la testa sgombra di rancore. Sulla tavola coperta da un’incerata equamente costellata di scortecciature e di ghirlande di fiori e frutta improbabili, erano in attesa una brocca di latte di capra, due pani e un piccolo cacio. Fidel si avvicinò e baciò la mano al padre.

“Pigrone,” lo rimproverò Chacón, “ti sei appena alzato!”

“Sono in piedi dalle quattro,” protestò il bambino. “Ti ho preparato la colazione. Héctor, bevi con calma il tuo latte. Io vado al chiuso del paese a prepararti un buon cavallo.”

Uscí con una fune in mano. Il Nittalope, sereno, masticò il pane inzuppato nel latte. Juana si avvicinò piagnucolando.

“È vero che ammazzerai Montenegro, papà?”

“Chi te lo ha detto?”

“Fidel ha una pistola e una cintura piena di pallottole.”

“Per dare agli animali la loro pastura, è necessario che io commetta quel delitto,” disse Chacón dolcemente.

“La nostra situazione si aggraverà, papà. La polizia ci darà addosso.”

Le lacrime solcavano gli occhi piccini.

‘Succeda quello che deve succedere, io ammazzerò Montenegro,’ pensò, e in quel baleno perdonò i sentenziati. Né il Niño Remigio, né Roque, né Sacramento sarebbero morti. Uno solo era il colpevole. ‘Ammazzerò la sua faccia, ammazzerò il suo corpo, ammazzerò le sue mani, ammazzerò la sua ombra, ammazzerò la sua voce.’

Sulla soglia si allungò un ragazzone dalle spalle poderose.

“Cosa succede, figlio?”

Rigoberto si tolse il cappello e gli baciò la mano. “C’è fin troppa gente in piazza. Molto baccano.”

“Oggi c’è comparizione.”

“La gente dice che oggi ammazzerai Montenegro. Per la strada corrono voci.”

“Cosa?”

“Non dovevi dirlo a nessuno, Héctor.”

“Pochi eravamo, Rigoberto.”

“Pochi? Tutti sanno che hai tenuto raduno a Quencash. Il paese ha pelle d’oca, papà.”

“Lascia che muovano la lingua.”

“Hai intenzione di agire, papà?”

“In ogni modo la farò finita.”

Rigoberto cercava di mandare a mente, con disperazione, la faccia di suo padre.