15. Curiosissima storia di un crepacuore collettivo che non nacque dalla tristezza.
Solo don Medardo de la Torre, il padre di don Migdonio, non disdegnò di passare la vita a cavallo per congetturare con lo sguardo le inabbracciabili frontiere della fazenda El Estribo. Don Migdonio de la Torre, altezzoso torrione di muscoli incoronato da una testa spagnola bruciata da barbe imperiali, preferí consolarsi col godimento dei propri privilegi. Né i suoi confini sperduti in tre diversi climi, né le vicende dei raccolti, né l’ingrassamento del bestiame lo interessavano. L’unica cosa che accendeva il suo sguardo azzurro era la crescita delle sue “figliocce.” Ne aveva a centinaia. Tutte le figlie dei suoi contadini gli appartenevano. Ai dubbiosi onori di un senatorato reiteratamente offerto, preferiva la pianura di piume del suo letto gigantesco sostenuto da quattro artigli d’aquila intagliati nel legno. Un condor disseccato spalancava ali immense sulle sue veglie. Né il Libro dei Conti, né il Registro del Bestiame, né il Dare, né l’Avere, dove figuravano le sue dovizie, lo assorbivano come il Libro delle Nascite. Sfogliava ansiosamente il registro dove veniva annotata la data di nascita di ognuna delle bimbe nate a El Estribo. Il giorno del loro quindicesimo compleanno gliele infilavano nel letto perché le migliorasse. Nelle fazendas, tuttavia, questa non era una gran novità. Ciò che s’ignorava era la mitologica potenza della sua terza gamba. Era inesauribile. Non gli bastavano cinque ragazzette al giorno e una volta, dopo aver slombato tutto il puttaname di un bordello di Huánuco, uscí fuori a inzuppare i fiori con bianca rugiada. Era colossale. I suoi stessi contadini erano orgogliosi del vigore del suo serpente, e spesso facevano scommesse sul numero di figliocce che egli avrebbe potuto dissigillare nelle notti in cui il sonno lo sdegnava. Al di fuori delle cavalcate notturne gli interessavano solo le prove di forza. Per dimostrare la potenza delle sue braccia di quercia scendeva raramente dalla sua camera da letto. Nessun domatore di cavalli poteva rivaleggiare con la tensione dei suoi muscoli. Solo Espíritu Félix, uno sbarbatello capace di trattenere un torello per le corna, uguagliava, non superava, la sua forza.
Ma un giorno la Patria lo distolse dal suo perpetuo orgasmo.
Quali motivi indussero il Capo della Guarnigione a rastrellare El Estribo in cerca di coscritti? Mistero. Un venerdí, il Tenente comparve a El Estribo in uniforme e con pistola d’ordinanza, in cerca di reclute. Don Migdonio lo ricevette con un sorriso lardellato di scherno e di buona educazione, ma il Tenente si ostinò. Nemmeno le figliocce che don Migdonio gli fece trovare nel letto gli piegarono la volontà. Le istruzioni del Comando erano precise. Nessuna fazenda poteva essere esente dal servizio. Di fronte a una fumante pachamanca, il mattino dopo don Migdonio capitolò.
“Almeno,” sospirò, “mi lasci scegliere i coscritti.”
“D’accordo, don Migdonio,” concesse il Capo della Guarnigione.
Don Migdonio fece riunire i contadini nel grande patio lastricato. Ordinò che aprissero la bocca; al servizio della Patria designò le cinque migliori dentature: Encarnación Madera, Ponciano Santiago, Carmen Rico, Urbano Jaramillo e Espíritu Félix. Enormi lacrime sparsero i ragazzotti. Il Tenente se li portò immediatamente via. Don Migdonio, che si era vestito solo per ricevere il Tenente, tornò nel monumentale letto dalle zampe d’aquila: quel giorno compivano gli anni due delle sue piú agognate figliocce.
Della requisizione si ricordò solo trenta mesi dopo, il giorno in cui le reclute tornarono dal servizio militare alla fazenda con l’abbacinante spettacolo dei loro scarponi nuovi, ma Madera, Santiago, Rico e Jarimillo persero coraggio nell’avvicinarsi a El Estribo. Mancava ancora una lega quando si scalzarono prudentemente. Solo Espíritu Félix entrò nel patio della casa-fattoria tacchettando. La caserma lo aveva trasformato. Nella solitudine dei camminamenti di ronda altri soldati gli avevano svelato le vere dimensioni del mondo. Durante le veglie nei corpi di guardia qualcuno lo aveva informato dell’esistenza di una specie di scrittura dei diritti, la Costituzione, che riguardava perfino i guardiani di porci e gli zoticoni come lui. E c’era di piú: quella misteriosa scrittura affermava che grandi e piccoli erano uguali. E di piú ancora: una notte che festeggiavano in una viuzza del rione Vitarte il compleanno di Santiago, avevano arditamente invitato anche un caporale, uno del Cuzco, e il gallonato li sbigottí: nelle haciendas18 del sud un tale Blanco organizzava sindacati di contadini.
“Sindacati? E che cavolo vuol dire, caporale?”
“È qualcosa come una confraternita per lottare contro gli sfruttatori della povera gente.”
Non ci capí un’acca, ma cinque settimane dopo, non per festeggiare un santo ma per consolarsi dell’insensibilità di certe servette che si erano insuperbite perché servivano a Miraflores,19 chiese diritto d’asilo a una bettola di mala fama nel rione di Chorrillos. Quel sabato, un sergente di Chinche, certo Fermín Espinoza, gli fece cadere la benda dagli occhi.
“Sarebbe bene organizzare quella confraternita a El Estribo,” disse Espíritu, con gli occhi di bragia.
“Nessuno è tanto gagliardo da fare una cosa simile a don Migdonio,” naseggiò Jaramillo, sbronzo.
Espíritu tracciò una croce con le dita.
“Per questa,” giurò, e baciò il segno.
Quando don Migdonio scoprí dalla finestra gli scarponi di Espíritu, lustrati dalla maraviglia, scese a quattro a quattro i larghi scalini di pietra.
“Buon giorno, padrone,” riuscí a dire Espíritu, con un sorriso timido, ispirato al ricordo delle gare di forza.
“Togliti subito quelle scarpe, pezzo di stronzo,” urlò don Migdonio. “Cosa ti sei messo in testa, razza di screanzato. In questa fattoria le scarpe le porto solo io. Mi senti, figlio di una grandissima puttana?”
Schiumava, sulla soglia dell’apoplessia.
A Espíritu si coagularono le lacrime, ma non osò ribattere né volse lo sguardo verso il falò dove ardevano i suoi scarponi inzuppati di petrolio. La prudenza ricompensò Madera, Santiago, Jaramillo e Rico. Nessuno pensò di perquisire gli zaini e cosí almeno i loro scarponi furono salvi. Tanto per rammentare i mesi di caserma, un’epoca ormai sommersa nel mare di cenci dell’abitudine, nelle grandi occasioni tiravano fuori gli scarponi, di nascosto, per contemplarli. Trent’anni dopo, nell’ora della morte, Santiago avrebbe chiesto alla sua prossima vedova di farglieli vedere per l’ultima volta.
Ma Espíritu non cedette. Al fervore del suo remoto giuramento egli aggiunse la tristezza dei suoi scarponi calcinati. Delicatamente, come quando si palpa una caviglia rotta, continuò a vellicare lo spirito dei contadini. Di coloro che avevano condiviso con lui le pedate e le malinconie di Lima, gli si smarrí solo Santiago. Ventidue mesi dopo frequenti riunioni clandestine in spelonche o in valloni solitari, abbacinò una dozzina di contadini col miraggio della grande confraternita. Incredibilmente, accettarono.
“Ci appenderanno a testa in giú!” rabbrividí Jaramillo.
“Nessuno è mai morto per quello,” sentenziò Espíritu Félix.
Quell’inverno, osò l’inconcepibile: chiese udienza a don Migdonio. I servi ascoltarono la richiesta e gli sbatterono la porta in faccia. Insistette tre giorni. Il quarto lo annunciarono. Don Migdonio, che forse si rammentava delle gare di un tempo, acconsentí ad uscire nel patio. Sotto una delle arcate di pietra, Espíritu, in uniforme di caporale, fece costernare don Migdonio. Ma la collera che arse mezzo corpo di don Migdonio non arrivò a infiammare i suoi occhi azzurri.
“E cosí, volete formare un sindacato?”
“Se lei lo permette, padrone.”
“Già.”
“Cosí lavoreremo piú volentieri.”
“Già! E quanti sono che la pensano come te?”
“Ce ne sono diversi, padrone.”
“Quanti?”
“Dodici, padrone.”
“Non è una brutta idea. Mettili insieme e vieni da me con loro. Voglio parlare a tutti.”
Si smarrirono in visioni. Non solo Espíritu non usciva ammanettato dalla casa-fattoria, ma don Migdonio in persona, con voce educata, perfettamente udita dai servi, lo invitava a tornare. Si entusiasmarono. Félix convocò i congiurati. Erano già quindici. Una settimana dopo comparvero davanti alle barbe imperiali di don Migdonio. Forse perché la notte prima aveva rinvenuto qualche pepita d’oro tra le gambe di una figlioccia o perché il diamante del mattino lo invitava alla benevolenza, don Migdonio li fece accomodare. Si sentirono venir meno. Nella vastità della memoria nessuno rammentava che alcun contadino fosse mai entrato nella casa-fattoria. Pretendere una confraternita è una cosa, ma bazzicare i padroni è un’altra; ma, fosse perché ubbidiva a un capriccio, fosse perché compiva una promessa in memoria della sua santa madre, don Migdonio ripeté l’invito. Non gli rimase altro da fare che ubbidire. Avevano la gola secca. Lo stesso Félix faceva di tutto per ricordarsi del giorno in cui, sull’attenti a sei passi di distanza, aveva dialogato con un colonnello, che è quasi come un fazendero.
“Avanti, ragazzi, sedetevi!” li invitò dalla porta un don Migdonio trasformato dalla malia di qualche beverone.
Credettero di sognare i seggioloni di pelle rossa e i sofà trapuntati di fiori gialli, mobili nevati di pizzi tessuti dalla mano eburnea della madre dell’uomo che essi intendevano danneggiare. “Con permesso, padrone,” riuscirono appena a spiccicare. Nella bocca sentivano bruciare il salnitro del tradimento.
“Cosa volete, ragazzi?” domandò cordialmente don Migdonio.
Espíritu sentí la terzana nelle ginocchia.
“Padrone, io...”
“Senti, Félix, per non farti stare in pena ti dirò subito che io non mi oppongo al sindacato. Non ci sono inconvenienti,” disse con la stessa naturalezza con la quale avrebbe potuto autorizzare: “bevete pure dal fiume” o “potete pisciare nel prato.” “No, non mi oppongo; al contrario, sono proprio contento. Io voglio che la fattoria progredisca e cambi. Dobbiamo fare un brindisi!”
E si rivolse a un servo.
“Senti, portami la caraffa di acquavite della sala da pranzo.”
Il servo – aveva chiuso gli occhi a don Medardo – uscí senza celare il ribrezzo che si meritava l’apoteosi dell’ingratitudine. Tornò con la caraffa e riempí i bicchieri.
“Io brinderò col bicchiere vuoto. Ieri sera ho alzato il gomito,” disse giovialmente don Migdonio. “Bene, ragazzi, salute!”
Per sottrarsi ai vortici del delirio i ragazzi vuotarono i bicchieri d’un fiato. Don Migdonio ordinò di riempirglieli di nuovo.
Vuotarono il secondo bicchiere.
“Non so cosa mi sta succedendo,” disse Jaramillo portandosi le mani alla gola. “Mi manca l’aria.”
“Qualcosa mi ha fatto male,” sussurrò Madera, livido, torcendosi sulla pancia.
Fu il primo a crollare. Altri tre stramazzarono fulminati e gli altri stravolti in un agonico contorcimento di budella. Don Migdonio li abbracciò in un’occhiata di ferro. Rico, che stava comprendendo troppo tardi, rovesciò il ritratto della madre di don Migdonio; ma non ce la fece a sputargli in faccia.
“Figlio di puttana...!” riuscí ancora a dire Espíritu Félix prima di scivolare per terra con le budella abbrustolite dal veleno.
Quindici minuti dopo, una squadra di uomini stravolti li portarono via coi piedi in avanti e le facce contorte mal celate dai ponchos. La piazza si screpolò di gemiti, ma i dolenti non ebbero nemmeno il tempo di piangerli. I muli stavano già aspettando. Il fatto è che la cosa che don Migdonio temeva sopra ogni altra era il malocchio. Quel gigante che non indietreggiava davanti a nessun cristiano, tremava sotto la sua coperta ogni volta che i cani ululavano al passaggio delle anime. Non tollerava funerali nella sua fattoria. Non appena un moribondo esalava l’ultimo respiro, i suoi parenti si affrettavano ad avvolgerlo in un lenzuolo imbottito di erbe aromatiche. Su un asino o su un mulo, i defunti iniziavano il vero ultimo viaggio verso remote sepolture scavate oltre i confini di El Estribo, regioni dove il livido rancore dei morti non potesse assassinare i fiori o avvelenare le acque. Non rimaneva tempo per lamentazioni. La veglia era una camminata. Ma poiché El Estribo era quasi infinito, per trasportare i defunti si cavalcava per intere giornate. Sulle prime, i ghiacciai delle cordigliere preservavano i cadaveri, ma poi, il calore delle vallate aveva la meglio sullo sforzo disperato delle narici tappate con erba di ruta. Gli stessi muli soffrivano del risentimento dei defunti incolleriti dalla privazione di candele e giaculatorie.
Li portarono via alle dodici. Alle dodici e mezzo uno dei servi galoppava già in direzione opposta. Cinque giorni dopo faceva partire il seguente telegramma: “Dottor Montenegro Giudice di Prima Istanza Yanahuanca. Doverosamente comunicole morte quindici contadini fazenda El Estribo causa infarto collettivo. Migdonio de la Torre.”
“Cazzo!” disse il dottor Montenegro.