33. Sulle valide ragioni che costrinsero Héctor Chacón, il Coraggioso, a travestirsi da donna.

Quando Arutingo, l’uomo dal deretano vulcanico, vuole umiliare Yanacocha, domanda: “Chacón era l’uomo piú coraggioso di questa provincia?” La gente, che vede profilarsi la burrasca, preferisce schivare la risposta, ma il compare picchia sulla tavola e insiste, con voce stentorea: “Lo era o non lo era?” “Sí, lo era, don Ermigio.” Lo sbronzone si butta giú un’altra acquavite e sghignazza. “E allora perché si è travestito da donna?” È inutile negarlo. In una notte piovosa, Chacón si vestí da donna. Sulpicia gli fece avere la roba. E dato che Sulpicia possedeva soltanto una muta, si fece prestare lo scialle e il cappello da una vedova. Quella sera Chacón indossò la sottana, lo scialle e il cappello. È vero, ma è anche vero che da mesi e mesi il giudice Montenegro non metteva il naso fuori di casa. Quell’uomo tanto appassionato alle passeggiate in piazza e alle meditazioni sul balcone, cambiò abitudini; improvvisamente disgustato dalle modulazioni del panorama, si seppellí nell’esilio di stanze remote. Rinunciò alle sue passeggiate. I Notabili si stancarono di aspettare sulle cantonate il passaggio del Primo Concittadino. Il Magistrato perse il piacere delle cavalcate. Il dottor Montenegro privò la provincia del suo vestito nero. Il Tribunale di Prima Istanza s’inzeppò di pratiche. Fu il secolo d’oro del signor Cesar. Il pacifico segretario accorreva tutte le mattine alla casa del Giudice con una montagna di scartafacci, e penetrava dalla porta sorvegliata da nubi di bravacci; un’ora dopo riattraversava il portone blu, con le sentenze sotto il braccio. Strada facendo veniva assalito dai parenti dei rei. “Cosa si è deciso per mio marito, don César?” “Libero.” “Notizie di don Policarpo?” “Esce a fine mese.” Il dottore si affliggeva per le disgrazie del genere umano. Andava su e giú, lungo i corridoi, spostandosi il cappello ora a destra ora a sinistra. La sua mano di pietra si ammollava, comprendeva le necessità, perdonava gli errori, riduceva le pene; era come se lui, che non aveva mai chiesto favori all’amicizia, volgesse ora il viso alle sollecitudini dell’affetto e della comprensione. Il dottore non usciva. Ma, ciononostante ci vollero parecchi mesi prima che la gente trovasse il coraggio di occupare la piazza nell’ora in cui, in altri tempi, il vestito nero contemplava la sconfitta del giorno. Una sera, alle sei, una coppia di innamorati intossicati dalla felicità osò passeggiare nella piazza; ripeterono la passeggiata il giorno dopo. Né le guardie civili né i bottegai ebbero il coraggio di intervenire. “Perché il dottore non esce?” interrogavano i commessi viaggiatori, meravigliati. “Sta studiando,” rispondevano di mala voglia i bottegai. Cosa stava studiando? Dipanava i misteri del cosmo? Stava viaggiando lungo i labirinti delle scienze segrete? Percorreva i sentieri della magia? Tutti i giorni i capoccia uscivano dalla sua porta per provvedere agli acquisti o per eseguire commissioni; tornavano con capretti, polli, conserve, acquavite, ma di libri non se ne vedevano. Come faceva a procurarseli? Nella provincia, nessuno vende libri. L’Almanacco Agricolo è l’unica lettura accessibile. “Il dottore pratica la Magia Nera. I capoccia gli comprano e gli portano civette e barbagianni. L’ho visto io,” informava misteriosamente il Niño Remigio.

Una notte in cui il cielo tuonava, il Nittalope saltò lo steccato dell’aia di Sulpicia e scivolò, nel buio, fino alla capanna dove la vecchia stava stendendo le sue pelli di montone per dormire.

“Chi è là?” domandò Sulpicia, stringendo l’impugnatura di un coltellaccio arrugginito.

“Sono Chacón, mammetta.”

“Lodato sia Gesucristo! Da dove salti fuori, Héctor?”

“Non accendere la luce, mammetta.”

“Avvicinati al fuoco, Héctor, avrai freddo. Hai mangiato?”

L’uomo che batteva i denti non rispose.

“Chissà cosa mangerai sulle montagne, Héctor.”

“Molte volte non mangio.”

“E chissà dove dormirai.”

“Dormo dove mi prende la notte. Ma va tutto bene. Pur di ammazzare quell’uomo, tutte le sofferenze si fanno sopportabili.”

Sulpicia scosse la testa.

“Non riuscirai mai ad ammazzarlo, Héctor. Il dottor Montenegro non esce piú dalla sua casa. Trecento contadini lo proteggono notte e giorno. Non uscirà finché non ti acciufferanno. Pattuglie di guardie civili ti cercano dappertutto con l’ordine di freddarti.”

“Lo so, mamma.”

“La Guardia Civile sorveglia tutte le cantonate della piazza. Bisognerebbe essere un ragno per poter passare.”

“Ripetilo un po’, mammetta.”

“Bisognerebbe essere un ragnetto!”

Nel dolcissimo calore del fuoco i suoi occhi fiammeggiarono.

“Cosa ne penseresti se mi travestissi?”

Sulpicia soffocò una risata.

“E come vorresti travestirti, Héctor?”

“Mi travestirei da donna...”

Sulpicia si teneva la pancia.

“Cosa direbbe la gente se vedesse Chacón travestito da donna?”

“Cosa ne penseresti se riuscissi a infilarmi proprio nella stanza da letto di Montenegro travestito da cuoca?”

“Tutti riderebbero! E come riderebbero!”

“E se tornassi con la testa di Montenegro nascosta sotto la mia sottana?”

La luce del fuoco divorava il profilo della vecchia.

“Domandiamo alla coca, Héctor.”

Non tremava piú. Si sedettero e presero due manciate di coca. A chi domanda col cuore pulito, la coca anticipa la sorte. Se la coca sciupa la bocca indica il pericolo; se cede in una palla dolciastra, non c’è da temere. S’inginocchiarono.

“Mamma coca, lei sa tutto. Lei conosce le strade. Il bene e il male, il pericolo e il rischio, lei conosce tutto. Mamma coca, Chacón vuole travestirsi da donna per ammazzare un prepotente. C’è pericolo? Foglia verde, mamma verde, mamma foglia, avvisaci. Ho fede in lei. Diffido dell’animale, diffido dell’acqua, diffido del metallo. Ho fede solo in lei, mamma foglia.”

Cominciarono a masticare.

Mamacita foglia, signora verde, mamma foglia. Sulpicia ti parla, mamma. Sulpicia vuole conoscere la verità. Cosa succederà se Chacón cambia d’abito? Cosa succederà se scendiamo per ammazzare l’uomo col cuore nero? Ci acciufferanno? Vivremo o moriremo? Foglia, foglietta, rispondimi.”

“La mia coca è dolce,” Chacón era esultante. “Non mi prenderanno. Cosa dice la tua coca, Sulpicia?”

“La coca accetta,” rispose la donna, sollevata. “Io ho soltanto una muta, Héctor. Ti presterò una sottana, ma non è abbastanza. Qui vicino vive una vedova. Io le ho regalato mezzo sacco di patate, non mi dirà di no se le chiedo in prestito qualche straccio. Aspetta Héctor, aspetta.”

Sulpicia tornò mezz’ora dopo con uno scialle blu tutto sfilacciato e un cappello di feltro masticato dalle piogge. Héctor Chacón, il coraggioso, si travestí allora da donna.

“Scendi in piazza a comprare qualcosa, Sulpicia.” Sulpicia tornò dopo un’ora, col viso rabbuiato.

“Chacón, le cose si mettono male. Il sergente Cabrera mi ha controllato.”

Le mandibole verdi si arrestarono.

“Come sarebbe a dire che ti ha controllato?”

“Mi ha fermato e mi ha domandato ‘Cosa fai qui? Perché vai attorno a quest’ora?’”

“E tu cosa gli hai risposto?”

“Vengo da Cerro de Pasco, signor sergente, e sto cercando un posto dove passare la notte. Lui allora mi ha tolto il cappello e mi ha domandato: ‘Non sarai mica Héctor Chacón, per caso?’”

“Cosa ne pensi?”

“Se esci, ti acciuffano. Penso che faresti meglio a tornartene sulle montagne.”

“Andrò a casa.”

“Vuoi andare a casa tua?”

“Le guardie mi stanno cercando sulle montagne. Non si sogneranno mai che invece mi trovo a casa mia.”

L’uomo magro, l’uomo con gli zigomi che gli premevano sulla pelle delle guance, l’uomo con la barba lunga e sporca, la guardò. La testa maltrattata dalle privazioni tentennò, negli occhi della vecchia, per l’ultima volta.

La mezzanotte s’incrudeliva in una nuova battaglia di folgori. Chacón scivolò dentro la sua capanna. Nel buio, Héctor contemplò un viso offuscato dalla paura: Ignacia. “Sono Héctor,” sussurrò, e vide chiaramente che la paura non lievitava. Senza accendere la luce, si trascinò accanto a Ignacia intanto che si abbassava i calzoni. Prima di poter esalare una parola, Ignacia sentí tra le gambe il fremito della cozzata. Si rifocillarono fino ai primi chiarori dell’alba. Héctor si sedette nel giorno nascente e accese una sigaretta.

“Cosa ti sta succedendo, Ignacia?”

“Hai sempre intenzione di farti giustizia con le tue mani?”

“Continuerò fino alla fine, Ignacia.”

“La comunità ha paura. Ci sono guardie civili perfino nella minestra.”

“Bisogna abituarsi.”

“Cosa puoi fare tutto solo, Chacón? Se ti succedesse qualcosa, chi baderà ai tuoi figli?”

“Se muoio, morirò. Se vivo, vivrò. Quello è il mio destino. Non posso abbandonare la lotta, Ignacia.”

“Sei cambiato molto, Chacón. Non ti riconosco piú.”

“Io non starò mai bene coi ricchi. Loro sono prepotenti. Preferisco morire lottando che finire i miei giorni in prigione.”

La donna soffriva della stanchezza, delle notti senza uomo, delle fatiche.

“Senti, Chacón, bisogna mettere al riparo le patate. I tuoi figli sono sempre attorno a giocare, non mi aiutano.”

“Ti aiuterò io. Rimarrò qui.”

“Qui non vengono mai a cercarti. Ti aspettano nelle case delle tue innamorate.”

“Poverette, mi servono perché i loro maschi sono in prigione o ricercati. È per quello.”

“Héctor, sta spuntando il sole. Chissà come sarai stanco. Ti preparerò qualcosa da mangiare; tu, intanto, buttati giú e riposa. Poveretto, chissà come dormirai male nelle case altrui.”

“Certe volte, quando spunta il sole sto ancora camminando.”

“Qui puoi riposarti.”

“Prima mi riposerò un po’. Poi ti aiuterò a mettere al riparo le patate.”

“Vado a comprare qualcosa. Vengo subito.”

Ma chi venne fu invece la Benemerita Guardia Civile. E a questo punto gli agiografi si perdono in un mare di supposizioni. Chi ha interesse a far del male al Nittalope gli sussurra che Ignacia lo ha tradito e si spingono perfino ad affermare che la sua miseria allungò la mano per ricevere una manciata di banconote giallastre. Il Niño Remigio dissente e quando risuscita dai suoi attacchi (peggiora sempre piú, ormai non c’è giorno in cui non si rotoli con la bocca piena di schiuma) dice: “È stata sua figlia. È stata Juana. L’ho denunciata nel mio huayno.35” È stata davvero Juana? “Suo marito doveva andare a fare il servizio militare. Ampudia aveva ventott’anni, ma gli hanno scalato l’età, Juana sentiva tizzoni nel ventre. L’ha cambiato per Héctor,” dice il gobbo. “Ho visto coi miei occhi che cancellavano il suo nome dalla lista dei coscritti.” Non è possibile. Nella Caserma, il Niño Remigio entrava solo per portar via la spazzatura.

Chacón s’immerse in un sonno di catrame. Erano mesi che non dormiva sotto un vero tetto. Sognò di una spina che lo feriva. Sollevò la gamba e osservò la pianta del piede costellata di sassolini, come i chicchi di una pannocchia. Se li tolse, solo per sentire che la pelle svaniva in un vuoto senz’ossa. Ma era cosí stanco che si svegliò soltanto quando i cani e gli spari cominciarono a ululare. Aprí gli occhi. I proiettili grandinavano sulla finestrella del granaio. La Guardia Civile aveva accerchiato la casa. Per intimorirlo, spararono un’ora. Rannicchiato dietro un mucchio di sacchi, il Nittalope sentiva schioccare i proiettili nel legno. La sparatoria sgocciolò fino a mezzogiorno. Un silenzio azzannato dai cani piombò sul terrore di Yanacocha. Il suo sguardo si trascinò verso una fessura.

“Chacón,” gridarono le voci della Guardia Civile. “Non sparare! Sono alunni della scuola!”

Gli occhi in grado di seguire una lucertola in una notte senza luna distinsero nove guardie e una dozzina di tiratori riparati dietro i grembiulini dei bambini della scuola. Il Nittalope ne riconobbe alcuni, guardò il suo revolver e soppesò il sacchetto, greve di cartucce.

“Merda!”

“Chacón,” gridò il sergente Cabrera. “Se non spari, ti risparmio la vita!”

Socchiuse la finestra e palpebrò nell’oro del mezzogiorno. Il suo sguardo abbracciò Yanacocha, le stalle, la strada per Huarautambo, il muso di Lunanco, gli avvertimenti di Pis-pis, il fallimento della rivolta dei cavalli, i trent’anni che avrebbe dovuto scontare, e i fucili puntati contro il suo petto. Scese la scala.

Il sergente Cabrera lo guardò con gioia, con invidia, con rabbia.

“Ci sei cascato, finalmente, figlio di una puttana,” gridò, scaricandogli addosso il primo manrovescio.