29. Sulla universale insurrezione degli equini tramata dall’Abigeo e dal Ladro di Cavalli.
Il dottor Montenegro viveva sorvegliato dai fucili della Benemerita Guardia Civile e dalla diffidenza di quattrocento capoccia. Cinque uomini soli non erano certamente in grado di vincerlo. Cosí assicuravano le lingue lunghe. Erano parole a vanvera. In effetti, erano cinque uomini contro settecento armati, ma si trattava di cinque uomini speciali.
Tanto per cominciare, Héctor Chacón, il Nittalope, usava indifferentemente del bene della vista sia di giorno sia di notte; i suoi occhi potevano sondare con uguale efficacia tanto nelle tenebre piú fitte quanto nel chiarore piú smagliante. Il Ladro di Cavalli e l’Abigeo stavano scaltramente organizzando un’insurrezione di equini a Yanahuanca. Il Ladro di Cavalli spiegava loro, con santa pazienza, la portata mondiale della congiura. Con gli occhi umidi, le brenne comprendevano che il sole dell’avvenire sarebbe sorto ben presto sulle pampas libere. S’impegnarono solennemente a insorgere; sarebbe bastato un segnale per far sbattezzare le guardie civili che avessero osato proseguire nella persecuzione anche dopo l’inevitabile morte del dottor Montenegro. Insigni cavalli capeggiavano la congiura e implicavano, con la compiacenza di giumente dai fianchi deliranti, perfino gli equini della stessa Benemerita Guardia Civile. Pajarobobo e Lucero, vincitori della competizione del 28 luglio, dirigevano il complotto ed erano riusciti a convincere perfino dei puledri tradizionalmente reazionari come Cachabotas, Sietevientos o Flor de Romero. Tutta la cavalleria avrebbe sbalzato di sella le guardie civili il giorno in cui uno stallone dagli occhi gialli avrebbe flagellato la scuderia con la notizia che Montenegro pendeva da un albero. E quella zoccoluta insurrezione sarebbe stata solo un inizio, perché Pis-pis contava di emergere dalle selve di Huánuco, temibile ambasciatore di abelmosco, tossici e stramonio. Sarebbe bastato mescolare all’acqua delle guardie civili qualche polvere ferrugigna per farle dissanguare da tutti i buchi. E tutto ciò, senza far conto dei poteri del sogno che permettevano all’Abigeo di anticipare gli agguati. E poi, non erano cinque, bensí sei, solo che l’uomo di Choras non scuciva mai la bocca. Nel decorso di un viaggio misterioso, aveva dimenticato la voce. Durante i mesi in cui camminarono insieme, pronunciò solo tre cose. “Sta per piovere.” “È meglio aspettare il raccolto,” e “Attenzione al malocchio.” Il Magro, poi, parlava con la voce d’acciaio di una mira infallibile.
“Perché ci hai detto che i cavalli si sarebbero sollevati, compare?” domandò il Magro.
“L’ho detto per provarvi, compare,” rispose Héctor Chacón.
“E cosa aspettano gli animali a sollevarsi?”
“Non appena Montenegro sarà morto, uno stallone nero come il carbone percorrerà le scuderie dando il segnale.”
“Impiccheremo il Giudice e cominceremo una rivoluzione totale!” si entusiasmò Pis-pis, stappando una bottiglia di acquavite.
“Per avere la terra bisogna massacrare i proprietari,” Chacón masticò un sorriso crudele. L’uomo di Choras sorrideva, indifferente.
“Non appena avremo ammazzato il Giudice, manderanno la truppa. Contrattaccheremo. Io sono pronto a riunire duecento uomini a cavallo in questo distretto,” disse Pis-pis.
“Questa è l’unica strada da seguire, compare,” disse il Magro. “Dalla giustizia si ricava soltanto la beffa. La mia comunità, quella di Ambo, sta girando da cinquant’anni nei tribunali per le sue terre.”
“E questo è ancora niente,” disse Pis-pis. “Nel sud, la comunità di Ongoy è nei tribunali da quattrocento anni. Sette Personeros morti. Ecco cosa ci hanno ricavato.”
“Là c’è una capanna,” indicò il Magro, felice della prospettiva di un po’ di riposo.
“No,” disse Chacón. “Andiamo avanti. È meglio proseguire di notte. Riposeremo a Tuctuhuachanga. Da lí continueremo a piedi. A cavallo ci potrebbero riconoscere: cinque uomini a cavallo danno nell’occhio.
Cavalcarono finché durò la luna e raggiunsero Tuctuhuachanga all’alba, lividi di brina. Il vento graffiava con tutti i suoi cani. Sul pendio, il Magro scoprí un’altra capanna, abbandonata. Smontarono. Tolsero la sella ai cavalli e si riposarono. Si svegliarono col sole già alto, mangiarono qualcosa e attesero la vecchiaia della sera. La pioggia continuava a cadere. Verso il crepuscolo scesero a Yanahuanca. Una lega dopo avvistarono due figure a cavallo: una donna e un ragazzo. Chacón si scostò troppo tardi.
“Héctor,” gli gridarono, “Héctor! Avvicinati!”
Era la voce di Cirila Yanayaco.
“Avvicinati, Héctor, avvicinati!”
“Dove stai andando, Héctor?”
“Vado a Yanacocha a comprare bestiame.”
“Non andarci, Héctor,” disse doña Cirila, gesticolando. “Le guardie ti stanno cercando in tutta la provincia. Questa mattina sono andati nella tua casa e, furiosi per non averti trovato, hanno requisito i cavalli di tuo fratello Teodoro.”
“E Teodoro cosa ha fatto?”
“Otto cavalli, gli hanno portato via. Va attorno piangendo come una fontana.”
“Sarà meglio andare a casa tua per sapere come sono andate le cose,” disse Pis-pis.
Cirila Yanayaco emigrò nella notte di Tuctuhuachanga.