11. Sugli amici e amiconi che Héctor Chacón, il Negletto, incontrò quando uscí dal carcere di Huánuco.
Se per goffaggine qualcuno dei commessi viaggiatori che una volta al mese arrivano a Yanahuanca per sciorinare quei campionari di stoffe fiorate i cui splendori provocano tanti dolori di capo agli uomini che commettono la prodezza di dormire con due donne, si avventura a domandare, come per puro caso, di Héctor Chacón, i commensali dell’Hôtel Mundial s’intestardiscono sullo stufato tutto grassume; e se i rappresentanti dei grossisti, apparentemente indaffarati a respingere clienti, insistono, i pensionati perdono l’appetito e si allontanano; e se, indotti da funesta curiosità, questi ipotetici esploratori s’inerpicano fino al casale di Yanacocha, in bilico su una cornice della cordigliera, mille metri piú su, i ficcanaso intoppano in un muro di negazioni: nessuno conosce quell’essere dal viso sferzato da tanti sguardi diversi; e se volessero addirittura entrare proprio nelle case dove, in altri tempi, Héctor Chacón mangiò, gozzovigliò e si sborniò, si sentirebbero ripetere: non conosciamo quell’uomo che, riparato da una camicia che era una burla all’inverno, un mezzogiorno fangoso scese verso la fontana della Piazza d’Armi di Yanahuanca; e se i caparbi viaggiatori dirigono i loro passi verso le case degli amici stessi di Héctor Chacón, tanto per fare un esempio verso le capanne di Agapito Robles o di Isaac Carbajal, i padroni di casa li squadreranno sospettosamente e diranno “Un momentino.” Poco dopo i ficcanaso comprenderanno l’inutilità dell’attesa: gli inquisiti hanno saltato lo steccato dei loro cortili e si sono persi tra gli eucalipti; e se, tanto per rincalzare una ipotesi sfortunata, i commessi bussassero proprio alla porta della moglie di Héctor Chacón, anche lei risponderebbe: “Non lo conosco.” Nel raggio di dozzine di leghe, solo una persona ammetterà di conoscerlo.
“Io so dov’è Héctor,” dice il Niño Remigio, col suo sorriso stento.
“Dov’è?”
Il Niño Remigio lancia il fiotto della sua risata:
“Si è trasformato in lucciola!”
Tuttavia, un mezzogiorno piovoso Héctor Chacón, il Negletto, attraversò lentamente la piazza diretto verso la malridotta fontana dove un angioletto ammaccato non riesce a scoccare la sua freccia perché qualche figlio di puttana gli ha rotto un braccio. Indossava gli stessi indumenti coi quali era uscito dal carcere di Huánuco. Cinque anni prima era sbucato da quella stessa cantonata con le mani legate a una fune tirata dai cavalli della Guardia Civile. Accese una sigaretta. Il suo sguardo convalesceva sulle cose dimenticate. Buttò fuori la seconda boccata. Un uomo che sfoggiava una violenta camicia a quadri, allampanato, col viso verdognolo, gli occhi a mandorla, i capelli arruffati, lo palpò con lo sguardo.
“Don Héctor, don Héctor!” gridò.
Era Agapito Robles, il nuovo Personero della comunità. Gli occhi di Héctor Chacón lo disconobbero.
“Sono Agapito Robles, don Héctor,” disse il Personero, intanto che attraversava la cagnara di una nube di bambini dalle facce irriconoscibili sotto la crosta di moccio pietrificata.
Chacón sorrise e si rammentò. Il giorno in cui, stretto dal doppio laccio della Guardia Civile e della vergogna pubblica, aveva attraversato per l’ultima volta quella piazza, Agapito era un ragazzetto che giocava alle palline.
“Fortunati gli occhi che ti guardano, don Héctor!” si emozionò la voce.
“Grazie, don Agapito.”
Altri due uomini, un gigante alto due metri e un tipaccio dalle mandibole poderose e dalle spalle quadrate, si avvicinarono gridando:
“Héctor, Héctor!”
Il Nittalope si batté le cosce dalla gioia. “Fratellone, fratellone!”
“Sapevo del tuo arrivo,” disse il gigante, con un sorriso che non mostrò dente alcuno per la semplice ragione che non ce n’erano da mostrare.
“Come l’hai saputo, compare?”
“Dagli animali,” sorrise lo sdentato.
Gli animali gli anticipavano la notizia. Suo padre, un gobbo che teneva commercio con gente complicata dell’Altro Mondo, lo aveva abbandonato all’età di cinque anni lasciandogli come unica eredità il linguaggio degli animali. A sette anni chiacchierava coi puledrini: a otto, nessun animale gli resisteva; e dovette sua madre striarlo di frustate per impedirgli di trascorrere l’infanzia in chiacchiere con gli unici maestri che gli insegnarono cose serie. Ogni tre mesi il bisogno, che è piú brutto che picchiare il padre, lo spingeva a risalire le cordigliere. Non rubava: convinceva gli animali. Provvisto di banconote fruscianti, fingeva d’interessarsi all’acquisto di cavalli e, approfittando della disattenzione dei capoccia, impotenti del resto di fronte a tali maestrie, si andava conquistando la fiducia dei quadrupedi e poi citava luoghi dove crescevano pascoli piú alti della groppa dei tori e dove galoppavano giumente dai deretani colossali: gli animali lo stavano ad ascoltare, con gli occhi umidi. Il Ladro di Cavalli li convocava in siti deserti, ed essi, piú fedeli delle donne, accorrevano all’appuntamento e si allontanavano insieme a lui lungo i meandri di anfrattuosissime cordigliere. Qualche settimana dopo il Ladro di Cavalli compariva a Canta, a La Unión o a Yauyos, proponendo l’acquisto dei cavalli. Ma li vendeva soltanto a quegli allevatori di cui gli equini stessi, che egli interrogava girando di stalla in stalla, erano in grado di fornirgli ottime referenze.
Anche l’Abigeo ogni tre mesi si avvolgeva in un poncho lurido, s’infilava in testa un passamontagna dai colori demoniaci e s’inerpicava sulle montagne dove per settimane e settimane depredava le fazendas. Poi attraversava coi suoi armenti l’aspra cordigliera di Oyón e ricompariva tra pachamancas e sbronze leggendarie.
“Sono stato perdonato,” sghignazzava.
“Chi ti ha perdonato?”
“Ho rubato ai fazenderos; ladro che ruba a un altro ladron, si merita cent’anni di perdon.”
I fazenderos, resi furiosi dalla decimazione, organizzavano vaste battute. Tutto inutile. L’Abigeo era investito dei poteri del sogno: parecchi giorni prima che le pattuglie si sognassero di scegliere un valico dove tendergli un agguato, egli veniva edotto del luogo esatto dove, vanamente, si sarebbero appostati gli inseguitori.
“Trenta giorni fa,” disse l’Abigeo, “ho sognato che venivi avanti proprio coi vestiti che hai indosso.”
In effetti, l’Abigeo conosceva il futuro. La gente che perdeva qualche cosa andava da lui con una bottiglia d’acquavite e con dieci soles che egli intascava solo per poter dimostrare alla giustizia in che modo tirasse a campare. Riusciva sempre a trovare tutto. Scoprí il nascondiglio dove il defunto Matías Zelaya aveva riposto i titoli di proprietà del podere senza curarsi di riflettere che la Falciatrice arriva sempre senza preavviso. Risolse la calunnia del furto dei dodici cucchiaini d’argento che coinvolgeva uno dei pensionati dell’Hôtel Mundial: era stata invece la stessa vedova Lovatón ad averli cacciati, per sbadataggine, in un sacchetto di zucchero. Ma, col passare degli anni, l’Abigeo preferí limitare le proprie prestazioni: la giustizia ricorreva a lui sempre piú frequentemente per ottenere rivelazioni sulle mosse dei ricercati. Si conoscono solo due casi in cui le sue facoltà ebbero un insuccesso clamoroso. Una volta il maniscalco di Yanacocha – un bruto gigantesco dotato di un immenso organo procreatore da cui rifuggiva, giustamente terrorizzata, la legittima moglie – lo costrinse ad accettare una damigiana di acquavite pur di ricavare un’accurata descrizione dell’uomo che s’incaricava di sostituirlo nel talamo nuziale. Il bestione veniva ad attendere l’alba davanti alla porta dell’Abigeo. “Cosa hai sognato?” “Ho sognato pesci, ho sognato acqua. Il vento mi impedisce di vedere nei sogni,” rispondeva l’Abigeo, scoraggiato. “Dove cacchio è andato a finire tutto il tuo potere?” muggiva il maniscalco. La gente cominciò a prenderlo in giro. “L’Abigeo la tira in lungo perché vuol continuare a bere gratis.” Ma l’Abigeo conosceva perfettamente il nome del colpevole: era lui stesso. Un’altra volta riuscí a distinguere chi scoteva il pelliccione della figlia del Governatore. Nel sonno scoprí la ragazza sdraiata accanto all’uomo che l’avrebbe sposata, un maestro di un lontano casale; ma il maestro lo guardò negli occhi con tanta tristezza che l’Abigeo preferí subire la vergogna di restituire i dieci soles.
Gli amici ritrovati si abbracciarono e andarono a bere.
“Questo è un avvenimento che merita almeno una dozzina di birre,” disse il Ladro di Cavalli.
“Perché tanta avarizia, compare?” lo rimproverò l’Abigeo.
Penetrarono nell’emporio di don Carmelo, una sconquassata stamberga con qualche scaffale su cui si annoiavano ventiquattro bottiglie di birra, otto barattoli di latte in polvere, mezza dozzina di scatole di sardine e un sacchetto di sale.
“Cosa vi servite?” domandò don Carmelo, preoccupato dalla prospettiva di un pomeriggio di lavoro. Era un incallito praticante della santa massima: “Se l’alcool pregiudica il tuo lavoro, lascia stare il lavoro.”
“Tira giú una dozzina di bionde,” ordinò Agapito Robles.
“Tirale giú tutte,” rettificò Chacón.
Bevvero tutto il pomeriggio.
“Come stanno i tuoi?” domandò, già un po’ annebbiato, l’Abigeo.
“Non sono passato da casa,” disse Chacón, e si rivolse a Robles.
“E cosí, tu sei ih nuovo Personero?”
“Ai tuoi ordini.”
“Credo proprio che a te il burro non avanzerà.”
Si misero a ridere. I vecchi Personeros, compari del Giudice, non aprivano bocca sul loro bilancio familiare. Formaggio e burro ne avevano d’avanzo; i contadini di Huarautambo s’incaricavano di rifornirli settimanalmente.
“Ai tuoi ordini,” ripeté Robles.
Chacón lo fissò col suo sguardo capace di scoprire i rospi sotto i sassi.
“Mi piacerebbe soltanto una cosa. Sono venuto per quello.”
“È una cosa che piacerebbe anche a me.”
“Davvero?”
“Ci sono uomini di paglia e uomini di fegato, don Héctor,” e nei suoi occhi stagnarono l’animosità e la paura.
Trenta giorni dopo, Héctor Chacón fece un sogno. Stava cavalcando su una strada nevosa, assurdamente coperta di fiori. Lo strepito di una canzone solitaria – le cui frasi non riusciva a capire – convocava gli uomini: dieci, cento, duecento, cinquecento, mille, quattromila uomini avanzarono sulla stessa strada cantando la canzone inaudita. Cavalcarono per mesi, senza soffrire né sete né fame, finché infilarono una gola che portava alla provincia, scesero, attraversarono il ponte, inondarono la piazza. Guardando quella folla, le guardie civili fuggirono spaventate. La gente attraversò la piazza e scardinò violentemente le porte blu della casa del dottor Montenegro. Pallidi fuggirono i capoccia, lo stesso dottore scappò di stanza in stanza, lo inseguirono attraverso un labirinto di sale immense, alcune coperte di neve, altre invase dalla selva, sempre cantando lo catturarono e lo trascinarono nella piazza. Erano le tre della mattina, ma il sole, un sole adamantino, fiammeggiava. I messi convocarono con le trombe tutti gli uomini e gli animali della provincia per giudicare il dottor Montenegro. Il Messo Maggiore si vestí di bianco e domandò: “C’è qualcuno che non è stato oltraggiato da quest’uomo?” Nessuno si alzò. “Perdonatemi, non lo farò piú,” singhiozzava il vestito nero. Il Messo richiese la dichiarazione dei cani. “C’è qualcuno che non sia stato preso a calci da quest’uomo?” I cani irrigidirono la coda. Il Messo insistette: “C’è qualche gatto che non sia stato bruciato da quest’uomo?” Gli uccelli veloci, le farfalle spensierate, gli astutissimi furetti e i sonnacchiosi porcellini d’India testimoniarono. Nessuno perdonò il dottore. Lo fecero salire su un asino e lo scacciarono dalla provincia, tra musiche e petardi.
Chacón si svegliò con la bocca secca, si alzò e uscí nel patio, cercò la brocca e bevve un lungo sorso. Era ancora notte. Si bagnò la faccia. Seduto su uno scalino aspettò il primo chiarore. Su quello stesso scalino, otto giorni prima era stato incoronato per la seconda volta in vita sua dal desiderio di ammazzare il dottor Montenegro.
Quella mattina, venne a visitarlo l’ansia di ammazzarlo davvero.
Si chinò e strappò un filo d’erba; lo mordicchiò. Albeggiava. Tornò nella stanza dove sua moglie, placata dalle sue carezze, si affaccendava coi suoi stracci. Prese una camicia nuova comprata a Huánuco col ricavato dell’ultima dozzina di sedie di paglia fabbricate in carcere, se l’infilò e scese in strada. Cinque minuti dopo entrò nel patio dell’Abigeo.
Accoccolato in un angolo, l’Abigeo si accingeva a sgozzare un agnello.
“Che mosca ti ha punto, compare?”
Il Nittalope si curvò e aiutò a legare allo steccato le zampe dell’animale. L’agnello belava debolmente. Chacón l’afferrò per le zampe posteriori. L’Abigeo tolse di tasca il coltello e sgozzò l’animale con un colpo secco. Il sangue schizzò sugli orci neri. Annusandolo, i cani, a un metro di distanza, fremevano.
“C’è gente di fiducia in questo paese?”
“A che cosa deve servire?”
“A dare una lezione a un uomo prepotente.”
L’Abigeo si grattò la testa.
“Ce ne sarebbe,” e gettò le parti inutili ai cani.
“Puoi convocarla?”
L’Abigeo pulí il coltello insanguinato nell’erba.
“Dove?”
“Dove vuoi tu, ma di notte.”
L’Abigeo scrutò la gravità dei suoi pensieri.
“Vedrò.”