34. Sulla conversazione tra Fortunato e il Personero di Rancas.

Il vecchio scorse i tetti di Rancas. Si fermò su una roccia. Cinquantamila giorni prima, anche il Generale Bolívar si era fermato lí, la vigilia della sua entrata in Rancas. Fortunato avanzò, ansimando, lungo la viuzza. Nel gesso della faccia, gli indovinarono la disgrazia.

“Stanno arrivando! Arriva la Guardia d’Assalto!” Respirava con la bocca aperta.

“Da che parte?”

“Da Paria!”

Si sedette, sfinito.

“Soccorso, soccorso, Vergine Maria!”

“È arrivata la nostra ultima ora!”

“Bisogna fare qualcosa!”

“Ci ammazzeranno come cani!”

“Come sarebbe a dire? L’uniforme è per difendere i peruviani, non per attaccarli!”

“Dov’è il Personero?” domandò Fortunato.

Uomini e donne dalle facce angosciate si agitavano come impazziti nella piazza. Il vecchio pensò, senza volere, alle mosche istupidite dalla luce della lampada.

“Non siamo mosche,” disse ad alta voce.

“Cosa hai detto, Fortunato?”

Teodoro Santiago si rifugiava nei suoi presagi di sventura.

“Peccato, peccato! Perché non è stato terminato l’altare? Soldi per divertimenti e corruzione se ne sono sempre trovati, ma per Diosito? Chi se n’è ricordato? Peccatori, corrotti, svergognati!”

“Chiudi il becco, cornuto!”

“Svergognati, senza timore di Dio! In ginocchio!”

“Silenzio, cornuto!” gridò Fortunato, afferrando Santiago per i baveri ancora abbruniti dalle lacrime per Tersilia Santiago. “Silenzio! Gridare non serve a niente. Bisogna lottare! Oggi ci giochiamo il tutto per tutto. Armatevi di bastoni, di sassi, di tutto quello che trovate! Il tutto per tutto! Avete capito?”

Ottanta mani sudice di lavoro raccolsero sassi. Mentre si chinavano, videro arrivare il Personero Rivera.

“Da che parte vengono?” disse il Personero, correndo.

“Da tre parti,” disse un monello, ansimando. “Da Paria, da Pacoyàn e dalla strada!”

Dalla zona delle fazendas, trecento uomini a cavallo seguivano il trotto del dottor Manuel Iscariote Carranza.

“Ci ammazzeranno tutti!” gemette una donna.

“Non spaventatevi, paparini!” disse Rivera. “Non succederà nulla. A Villa de Pasco, Adán Ponce ha resistito alla truppa. È forse morto? Non bada alla sua bottega? Non piú tardi di ieri l’ho visto che si beveva una scodellona di brodo. Non succederà nulla. Facciamo le cose a modo!”

Tacque bruscamente. Le facce superbe delle guardie d’assalto stavano varcando la Porta di San Andrés. Qualcosa come cinquantamila giorni prima la Porta era stata varcata dalle truppe del Generale Cordova, cinque giorni prima che il suo reggimento fondasse in quella pampa la Repubblica del Perú. Ma ora stava avanzando la Guardia. A trenta metri circa, piazzarono le mitragliatrici. Don Mateo Gallo – ben presto lo avrebbero infagottato come una mummia! – guardò affascinato le bocche delle armi e gli parve che quei fori neri s’ingigantissero piú delle bocche dei cannoni che aveva visto sfilare una volta nel Campo di Marte: era un anniversario della battaglia di Junín. Un tenente magro, con la faccia maculata di efelidi, maltrattato dall’altitudine, si fece avanti. Rivera lo affrontò.

“Qual è il motivo, signori?” domandò con voce assottigliata dal pallore.

“Lei chi è?”

“Io sono il Personero di Rancas, signor tenente. Io vorrei sapere...”

Perse la voce. Il tenente lo squadrò, ironicamente. Tre anni di servizio gli avevano insegnato che l’uniforme arrochisce la voce anche ai piú coraggiosi. Il Personero sudava per ricuperare la parola che gli si era rifugiata nelle budella. Voleva parlare, informare il tenente che loro, i comuneros, calcavano terre appartenenti alla comunità di Rancas, voleva dirgli che se gli davano tempo gli avrebbe mostrato i titoli di proprietà rilasciati dal Tribunale di Tarma, pergamene emesse prima che il tenente, che il bisnonno del tenente, nascesse, voleva fargli capire che la vita in quella steppa nemica del sole era già di per sé un’impresa, che quei pascoli non producevano nulla, che in quella pampa dove il sole scalda un’ora sola, un sacco di sementi produce appena cinque sacchi di patate, che i comuneros non sanno quasi cos’è il pane, che solo nelle annate buone potevano comprare ai loro bambini qualche biscotto, che loro...

Chi parlò fu Fortunato.

“A cosa si deve la sua visita, signor tenente?”

“C’è ordine di sgomberare. Voi avete invaso la proprietà altrui. Abbiamo ordine di farvi sgombrare. Ve ne dovete andare! E subito!”

“Noi non possiamo andarcene da questa terra, signor tenente. Noi siamo di qui. Noi non abbiamo invaso niente. Sono gli altri che c’invadono.”

“Vi do dieci minuti di tempo.”

L’uniforme voltò le spalle ai comuneros.

“È ‘La Cerro de Pasco’ che invade, signor tenente. I gringos ci chiudono e ci perseguitano come topi. La terra è di Dio. Io la conosco bene la storia de ‘La Cerro.’ O forse la terra se la sono portata qui loro?”

“Mancano nove minuti.”

Lo squadrone dei repubblicani convergeva verso la Porta di San Andrés.

“In questi posti non si sono mai visti recinti, signor tenente. Noi non abbiamo mai saputo cosa era un muro. Fin dal tempo dei nostri nonni, e prima ancora, le terre erano di tutti. Né fili di ferro, né recinti, né porte sprangate abbiamo mai visto, finché non sono arrivati i gringos di merda. Sono stati loro a cominciare a sprangare. E non solo hanno sprangato. Hanno anche...”

“Mancano cinque minuti,” mormorò l’ufficiale. Il vecchio guardò le fiammate. Gli squadroni avevano già cominciato a incendiare le capanne.

“Perché incendiano? Perché attaccano? Voi non rispettate né padre né madre!” borbottò. “Voi non sapete cosa vuol dire guadagnarsi da vivere. Voi non avete mai preso in mano una vanga, non avete mai aperto un solco...”

“Mancano quattro minuti.”

“Non dovete fare i prepotenti. È per proteggerci che il Governo vi paga, signori. Noi non abbiamo mancato di rispetto a nessuno. Non manchiamo di rispetto nemmeno all’uniforme.” Indicò il color cachi. “Ma quella non è l’uniforme della patria.” Si afferrò la giacca: “Questi stracci sono la vera uniforme, questi brandelli...”

“Mancano due minuti.”

La gente fuggiva, pesante di gemiti. L’incendio aumentava. Una lacrima solcò la guancia color rame.

“Ci trattano come bestie. Non vogliono nemmeno parlare con noi. Se ci lamentiamo, non ci vedono; se protestiamo... Io sono andato a protestare dal Prefetto. Io gli ho portato le pecore, signor tenente. E lui che cosa ha detto?”

Il tenente sfoderò lentamente la pistola.

“Non manca piú niente,” disse, e sparò.

Una fiacchezza universale sgominò la rabbia. Fortunato sentí che il cielo si stava sfondando. Per proteggersi dalle nubi, alzò le braccia. La terra si spalancò. Cercò di afferrarsi all’erba, sull’orlo della vertiginosa oscurità, ma le sue dita non ubbidirono e Fortunato rotolò, rimbalzando, fino al centro della terra.

Qualche settimana dopo, nelle loro tombe tranquille, placati i singhiozzi, avvezzi all’umida oscurità, don Alfonso Rivera gli raccontò il resto. Perché li avevano seppelliti cosí vicini che Fortunato udí i sospiri di don Alfonso e riuscí ad aprire un forellino nel fango con un rametto. Don Alfonso, don Alfonso, chiamò. Il Personero, che si credeva condannato al buio eterno, singhiozzò. Pianse per una settimana, poi si calmò, e piú sereno, lo informò che lui, Fortunato, era crollato al primo sparo, di schianto, sul suo stesso sangue.

“E poi cosa è successo?”

“‘Avrete capito che faccio sul serio,’ gridò il tenente. La gente si disperse come piume di galline. Non riuscii a fermarli. ‘Vi do cinque minuti,’ avvertí.”

“E poi?” domandò Fortunato, allargando pazientemente il forellino.

“Mi è venuto in mente di far portare la bandiera. Tutti rispettano il Vessillo Nazionale. Pensai proprio cosí.”

“Era una magnifica pensata, don Alfonso!”

“Ordinai di far portare la bandiera della scuola. Don Mateo Gallo s’incaricò di andarla a prendere.”

“Hai fatto benissimo! Tu non potevi abbandonare il tuo posto.”

“Mi portarono la bandiera. Le guardie avevano circondato Rancas. Tutta una cintura di uomini ci stringeva da tre parti. Dalla strada di Paria era arrivato il dottor Iscariote Carranza con trecento uomini a cavallo.”

“Cazzo!”

“Egoavil si avvicinava con duecento uomini di Pocoyán, e dall’altra parte erano spuntati i camion della Guardia d’Assalto, col Comandante Bodenaco in persona.”

“E allora?”

“‘Cantiamo l’inno nazionale.’ Non mi veniva la voce, don Fortunato. Finalmente abbiamo cominciato: ‘Somos libres, séamolos siempre.’ Io pensavo ‘adesso si mettono sull’attenti e salutano.’ Ma il tenente si arrabbiò. ‘Perché cantate l’inno, imbecilli?’ ‘Butta per terra quella roba!’ mi ordinò. Ma io non buttai per terra la bandiera. La bandiera non si butta per terra.”

“Su quella bandiera c’era uno stemma ricamato che, se ben ricordo, c’è costato seicento soles.”

“È proprio quello che ho pensato anch’io, don Fortunato, ma le guardie mi saltarono addosso e mi massacrarono col calcio dei fucili. Ma io continuai a cantare ‘...y antes niegue sus luces el sol que faltemos al voto solemne...’ S’infuriarono, e continuarono a martoriarmi a piú non posso. Mi squarciarono la bocca. ‘Lasciala.’ ‘Non la lascio.’ Allora mi diedero una baionettata e mi tagliarono la mano. ‘Lasciala.’ Una sciabolata mi staccò il polso.”

“E gli altri?”

“Erano scappati. Mi hanno lasciato solo.”

“E poi?”

“Ho guardato il grasso della mia mano e ho pensato: ormai mi hanno fottuto. E adesso come farò a lavorare? E non ricordo altro, perché subito dopo c’è stata la raffica.”

“E poi?”

“Non so altro. Mi sono risvegliato qui, consolato dalla tua voce, Fortunato.”

“Io lo so cosa è successo dopo,” disse una voce violetta.

“Chi è? Chi ha parlato?”

“Sono io, Tufina.”

“Hanno ammazzato anche te, vecchietta? Figli di puttana!”

“Non bestemmiare, Fortunato. Ricordati dove sei. Pensa a Dio.”

“Non si sente bene la tua voce, doña Tufina;” disse Fortunato. “Non puoi aprire un buchetto?”

“Non posso, ho le dita rotte. Me l’hanno massacrate.”

“Benedetti figli di puttana!”

“Fa lo stesso, tenderemo le orecchie,” disse Rivera. “Ma raccontaci quello che è successo, mammetta. Che ne è dei miei figli?”

“I tuoi figli li ho visti. Piangevano sul tuo corpo. Tua moglie gridava: ‘Bandiera è bugia! Inno è bugia!’”

“Sei sicura di averli visti vivi?”

“Pieni di sangue, ma vivi, don Alfonso.”

“Racconta quello che è successo dopo, doña Tufina,” disse don Fortunato, avvicinando l’orecchio alla terra.

“Tu sei caduto, don Alfonso. Le guardie venivano avanti seminando morte. Le pallottole fanno lo stesso rumore del granturco quando lo tostavamo. Proprio lo stesso rumore. Venivano avanti; di tanto in tanto si fermavano e innaffiavano i tetti di benzina. Le case bruciavano. Ho visto cadere Vicentina Suárez. La gente si è infuriata e rispondeva sassi. È caduto don Mateo Gallo.”

“Era l’unica resistenza?”

“No, non era l’unica. I ragazzini della scuola sono saliti sulla collina e cercavano di spingere giú un macigno.

“Ma sotto la collina non ci sono altro che pozzanghere!”

“Già, le pietre non rotolavano. E cosí, non ce l’hanno fatta. Le guardie li hanno fatti scappare a fucilate. È stato lí che è caduto Marcelino.”

“Quello che aveva costruito lo spaventapasseri?”

“Proprio cosí, signor Personero. Quando ho visto cadere il bambino mi sono sentita bruciare il sangue, ho tirato fuori la fionda e ho spedito una sassata sul muso di una guardia. Mi ha sparato con la sua mitragliatrice. Sono caduta di spalle, con la pancia aperta.”

“Sei morta subito?”

“No, ho continuato a morire per tutto il pomeriggio.”

“E non ti ha aiutato nessuno?”

“Chi avrebbe potuto aiutarmi? Rancas era un falò. Incendi, urla, spari, fumo, pianti, ecco cos’era.”

“Povera doña Tufina!”

“Ho vomitato la vita alle cinque. L’ultima cosa che ho visto è stato il fumo delle bombe lacrimogene.”

“Zitti,” sussurrò Rivera. “Zitti. Non sentite? Stanno mandando giú altri morti.”

“Chi saranno?” disse Tufina.

“Se sono di Rancas, qualcosa dovranno pur sapere,” disse Rivera.

Per non spaventare i becchini che scavavano, rimasero in ascolto ma non parlarono piú. Finalmente il rumore sordo delle palate di terra spense il brusio della mattinata. Piano piano, delicatamente, cercarono di mettersi in contatto con l’ultimo arrivato.

“Chi è? Chi è arrivato?”

Gli rispose solo il rumore di una canzone dolcissima.

“È un angioletto,” disse Tufina.

“Come ti chiami, bambino?”

L’angioletto continuò a cantare. Non ottennero alcuna risposta, ma tre giorni dopo risonarono le palate di un altro interramento.

“Chi è?” domandò Fortunato.

Il ronzio dei padrenostro s’infittí.

“Perdonami, Gesucristo, se non m’inginocchio! Scusami se non ti bacio la mano!” supplicò il nuovo arrivato.

“Sono Fortunato, don Teodoro!”

“Ho peccato! Per mia colpa e per mia grandissima colpa tu sei stato condannato e crocifisso!”

“Calmati, don Teodoro. Il peggio è ormai passato.”

“Chi sei?”

“Sono Fortunato.”

“Non mettermi paura, Rospino.”

“Cosa ti è successo, don Teodoro?”

“Come sono stato male, don Alfonso! Il giorno del massacro le guardie mi hanno preso a calci nelle costole. Ho sputato sangue. Non mi sono curato. Quello è stato il mio errore: ho preso un colpo di vento. Ho patito due settimane. Solo ieri ho riposato.”

“Che novità ci sono lassú?” chiese, con naturalezza, Rivera.

“Tutto all’aria, Personero! La polizia insegue tutti quelli che osano protestare. Si sono portati via moltissimi uomini. Perfino l’Alcalde di Cerro è finito in prigione. Tu avevi ragione, Rospino. Non è stato Gesucristo a castigarci, sono stati gli americani.”

“Ti sei convinto, don Santiago?”

“Mi hai convinto, Fortunato!”

“Ma che cosa è successo?” s’impazientí Rivera.

“I fazenderos vogliono far piazza pulita delle comunità. Hanno visto che ‘La Cerro’ ci ha massacrati a suo piacere. E loro ne approfittano. Vi ricordate della scuola 49357?”

“La scuola di Uchumarca?”

“Il giorno dopo il massacro, i fazenderos Londoño hanno fatto chiudere la scuola. Hanno mandato via i bambini, hanno vuotato il locale, hanno levato le tegole e quella che una volta era una scuola adesso è un recinto per i porci.”

“Ma, se la scuola aveva uno stemma mandato da Lima!?” sbigottí Rivera.

“Non ci sono bambini, ci sono maiali. Succede la stessa cosa in tutta la pampa. Nel mondo noi siamo di troppo, fratellini.”

“Zitti,” avvisò Tufina. “Viene ancora qualcuno.”

“Chi sarà?”

“Sarà di Rancas?”

“Lo sa Dio!” sospirò Fortunato.