16. Dei diversi colori delle facce e dei corpi degli abitanti di Cerro.
Il 14 marzo 1903, sei minuti prima di mezzogiorno, il colore della faccia e del corpo degli abitanti di Cerro cambiò per la prima volta. Fino a quel momento i felici abitanti della piovosa Cerro de Pasco ostentavano visi color rame. Quel mezzogiorno, le loro facce cambiarono: un uomo emerse dall’osteria, dove gli avevano servito acquavite serpigna, con la faccia e il corpo blu; il giorno dopo, un altro cristiano che si stava sborniando nella stessa osteria divenne verde prato; tre giorni dopo un uomo dalla faccia e dalle mani color arancione si avviava tranquillamente verso la piazza Carrión. Mancavano pochi giorni a carnevale: si ritenne che fossero candidati alla parte di diablos-supay20 dei prossimi festeggiamenti. Ma il carnevale passò e la gente continuò a cambiar colore.
Cerro de Pasco è la città piú alta del mondo. Le sue viuzze si contorcono ad altitudini superiori a quelle delle piú alte montagne d’Europa. È una città dove piove duecento giorni all’anno. Il giorno si dischiude su una vetta nevosa. Cerro de Pasco si acquatta al confine della pampa di Junín. Anche per gli stessi autisti, imbacuccati fino agli occhi, la pampa è un percorso gramo. Tutti i camionisti appiccicano sui parabrezza le immaginette della Beata Humay; le affidano i loro motori. Non sia mai che gli si blocchino in quella steppa eternamente spazzata dalle tormente; in quella pampa dove il soroche, il mal d’aria, fulmina tanti costieri! I viaggiatori che conoscono quella desolazione vigilata dall’occhio geloso del lago Junín, si fanno il segno della croce non appena sboccano dalla gola rocciosa di La Oroya. Vergine Maria protettrice dei viandanti, custodiscici! Santa Tecla, protettrice dei pellegrini, ora pro nobis! Pregano, verdi per la mancanza d’ossigeno, spremendo limoni inutili contro l’anossiemia. Né le collane di limoni né le orazioni servono a qualcosa nella steppa senza alberi. Perché coloro che non sono mai stati a Huánuco non conoscono né alberi né fiori: non li hanno mai visti; qui non crescono. Solo l’erba nana sfida la collera dei venti. Senza questa poca erba, senza l’icchu, nessuno vivrebbe. La stipa è l’alimento dei greggi di pecore, unica ricchezza. Migliaia di ovini brucano nella pampa fino alle tre del pomeriggio. Alle quattro piomba giú la ghigliottina del buio. Il crepuscolo non è il calar della sera ma il crollo del mondo.
Che cos’è che ha trascinato gli uomini in quest’anticamera dell’inferno? Il minerale. È da quattrocento anni che Cerro de Pasco cela il piú favoloso giacimento del Perú. Piú in su, in cima a una collina spelacchiata che sfiora quasi i testicoli del cielo, si allineano le tombe tormentate dei cercatori: scava e scava, hanno finito per scavarsi anche la fossa. Trecento anni dopo i caparbi spagnoli sono saliti fin quassú i rudi tedeschi, i sospettosi francesi, i rigidi serbi, i pericolosi greci; dormono tutti nelle loro tombe maledicendo il nevischio.
Verso il 1900 i filoni si esaurirono. Cerro de Pasco, cosí orgogliosa dei suoi dodici viceconsolati, sbiadí. Minatori, negozianti, albergatori e puttane abbandonarono la città. E cosí, Cerro si spopolò. Nel vago censimento distrettuale del 1895 sono enumerate tremiladuecentoventidue case. Nei cinque anni che seguirono il vento spazzò via duemilaottocentotrentadue case. A poco a poco Cerro tornò a essere un deserto. Nel 1900 non rimaneva ormai piú che qualche casa accoccolata attorno alla Piazza Carrión, e fu in quell’anno, alla vigilia della Settimana Santa, che arrivò un gigante biondo dagli occhi azzurri e ridenti e con una fiammeggiante barba rossa, grandioso nelle gozzoviglie e nelle sbornie. Era un ingegnere, un formidabile fornicatore che fin dall’inizio fece lega e simpatizzò con la gente. Sulle prime gli abitanti di Cerro considerarono il nordamericano con una certa diffidenza, ma poi si accorsero che piú che dei teodoliti il barbuto si preoccupava di sondare gli anfratti delle cholitas21 e gli fecero credito. Il gringo gironzolò da quelle parti per qualche mese, raccogliendo campioni e migliorando la razza. La gente lo prese a ben volere. Disgraziatamente, il rosso ammattí. Un pomeriggio, saranno state le tre, entrò nel “Valiente de Huandoy,”22 una bettolaccia della mala ora dove dei bei tempi andati sopravviveva ancora una cassa di whisky. Se ne bevve una bottiglia, poi due, poi tre. Verso sera uscí in strada a distribuire whisky. Alle sette vennero a visitarlo i diavoli azzurri.23 Forse aveva alzato troppo il gomito; forse, alla fine, il mal d’aria aveva colpito pure lui: cominciò a ridere come un ossesso. La gente continuò a bere – ad ogni buon conto si stava ubriacando a spese del gringo –, ma a poco a poco, mentre il riso si andava trasformando in una cateratta di sghignazzate, in un mare spumoso di cachinni, in una mareggiata di ilarità, cominciò a spaventarsi e si dileguò. Che motivo c’era? Un’ora dopo, il gringo dall’indimenticabile barba crepuscolare si asciugò le lacrime, lasciò sulla tavola della bettola un mucchietto di libbre d’oro e uscí dal “Valiente de Huandoy.” Non tornò piú.
Il suscitatore di quella sghignazzata se la rideva in barba ai minatori e ai cercatori di quattrocento anni addietro, a Cerro de Pasco, al vento che si portava via le case, alle nevicate alte un metro, alla pioggia interminabile, ai morti che tremano di freddo, alla solitudine. Sotto i filoni esauriti egli aveva scoperto il piú favoloso giacimento della mineraria americana. Dopo aver arricchito legioni di re e di viceré, Cerro de Pasco era vergine. La città stessa, il villaggio agonizzante, le capanne sgangherate, erano costruiti sulla vetta piú strepitosa del Perú. Le case sconnesse e squallide, le piazze calve e senz’alberi, le strade fangose, la Prefettura sempre sul punto di crollare, l’unica scuola, erano la crosta di una ricchezza da delirio.
Nel 1903 comparve la “Cerro de Pasco Corporation.” Quella era un’altra solfa. La “Cerro de Pasco Corporation Inc. in Delaware,” nota quassú piú semplicemente come “La Cerro” o “La Compagnia,” dimostrò che l’animatore dell’indimenticabile sghignazzata, il leggendario barbone, aveva avuto un buonissimo motivo per ridere. “La Compagnia” fece costruire una ferrovia, trasportò macchinari leonardiani e montò a La Oroya una fonderia il cui unico fumaiolo asfissiava tutti gli uccelli in un raggio di cinquanta chilometri. Allettati dalla paga, folle di straccioni si arrampicarono verso le miniere. Ben presto, trentamila uomini picconavano profondissime gallerie. Nel bel mezzo di Cerro de Pasco la Compagnia fece scaturire un monumento all’orrore architettonico: un panciuto edificio a tre piani, la “Casa di Sasso,” sede del piú smisurato dominio minerario mai conosciuto in Perú dai tempi di Filippo II. I bilanci della “Cerro de Pasco Corporation” documentano che in fondo il gigante barbuto si era permesso solo una risatina. In poco piú di cinquant’anni, l’età di Fortunato, la “Cerro de Pasco Corporation” sviscerò piú di cinquecento milioni di dollari di utile netto.
Nel 1900, nessuno avrebbe potuto immaginarselo. “La Compagnia,” che pagava lauti salari di due soles, fu accolta con gioia. Una moltitudine di mendicanti, di profughi dalle fazendas, di abigei ravveduti, invase Cerro de Pasco. Solo qualche mese dopo si notò che il fumo della fonderia assassinava gli uccelli. Un giorno ci si avvide che, oltre a tutto il resto, faceva anche cambiare il colore dei cristiani: i minatori erano variopinti; il fumo propose varianti: facce rosse, facce verdi, facce gialle. E se una faccia blu si univa in matrimonio con una faccia gialla, ne nasceva una faccia verde. In un’epoca in cui l’Europa non aveva ancora scoperto le estasi dell’impressionismo, Cerro de Pasco godette di una specie di carnevale permanente. Come è logico, molti si spaventarono e se ne tornarono nei loro paesi. Cominciarono a correre voci. La “Cerro de Pasco” fece affiggere un bollettino su tutte le cantonate: il fumo non faceva male. E in quanto ai colori, la trasformazione era un’attrattiva turistica unica. Il Vescovo di Huánuco sermoneggiò che il colore era una garanzia contro l’adulterio. Dall’unione di una faccia arancione con una faccia rossa, non sarebbe mai potuta nascere una faccia verde. La città respirò di sollievo. Un ventotto di luglio il Prefetto proclamò, dall’alto della tribuna, che andando di quel passo ben presto gli indios sarebbero diventati pallidi. La prospettiva di potersi trasformare in uomini bianchi sgominò ogni dubbio. Ma chi continuava a lamentarsi era la categoria dei contadini: nelle loro terre, sia in quelle blu che in quelle gialle o di altri colori, le sementi non attecchivano. Qualche mese dopo – 1904 – la “Cerro,” pur sottolineando l’evidente ipocrisia di coloro che affermavano che il fumo avvelenava la terra, si dichiarò disposta ad acquistare i poderi in questione al solo scopo di tacitare le rimostranze. E in effetti comprò l’Hacienda Las Nazarenas del Convento de Las Nazarenas: 16.000 ettari. In tal modo, nacque la “Sezione Allevamento” della “Cerro de Pasco Corporation.” Ma il Recinto di filo di ferro de Las Nazarenas non si fermò lí: poco dopo rinchiuse l’Hacienda Pachayacu, e poi l’Hacienda Cochas, e poi la Puñascochas, poi la Consac, poi la Jatunhuasi, poi la Paria, poi la Atocsaico, poi la Puñabamba, poi la Casaracra, poi la Quilla. La “Sezione Allevamento” cresceva e cresceva.
Verso il 1960, la “Cerro de Pasco Corporation” possedeva piú di cinquecentomila ettari. La metà di tutte le terre del distretto. Nel mese di agosto del 1960, vuoi perché si fosse ammattito dopo una marcia che durava ormai da mezzo secolo, vuoi perché fosse stato colto da un attacco di soroche, il Recinto non riuscí piú a fermarsi. Nella sua pazzia, anelò tutta la terra. E cominciò a camminare, a camminare.
Un giorno, un treno fuori itinerario si fermò alla stazione facoltativa di Rancas.