8. Dei misteriosi operai e delle loro ancor piú misteriose occupazioni.

“Don Alfonso, io non ti accuso. Se ti abbiamo eletto Personero di Rancas, è stato per la tua esperienza in fatto di pecore. Tu sai come curarle. A te basta un’occhiata e ti accorgi subito di un imbarazzo di stomaco o di una verminazione. Rancas accarezzava grandi progetti: mettere in piedi una stazione di monta con animali scelti, per migliorare la razza. Junín lo aveva fatto. Perché non Rancas? Si sapeva che il senatore, in vista della rielezione, avrebbe concesso tutte le facilità ai paesi che dimostrassero di essere in grado di allevare animali di razza. Ecco cosa voleva Rancas: un’occasione. Con un po’ di sforzo, tra qualche carnevale avremmo ripartito pecore incrociate coi montoni dell’ufficio Agropecuario. Noi ti abbiamo eletto per farti dirigere la stazione di monta, don Alfonso. Io non ti accuso. Se fosse stato per me, io non avrei mai permesso che prendessero a sassate la tua casa. La buona fede io me la posso spiegare. Tu eri convinto che le squadre imprigionavano il colle tanto per provare il filo di ferro. Che altro si poteva immaginare? Chi poteva sospettare? Io non ti accuso, don Alfonso. Per la verità, solo don Teodoro Santiago ha malignato il vero disegno, ma come si può credere a un uomo che ha le labbra sempre macchiate di disgrazie che non si avverano mai? È vero che una volta chiuso il colle Huiska il Recinto si è gettato sulle falde del colle Huancacala. Ma anche a questo punto io mi posso spiegare la tua calma, don Alfonso. Ai piedi del Huancacala ci s’imbatte nella corrente del Yuracancha, che nessuno ha mai potuto guadare. Capisco che tu ti sarai detto: ‘La corrente del Yuracancha è troppo forte. Il recinto si fermerà li.’ E infatti lo hai anche detto, ed erano le nove della mattina. Alle dieci sei andato nel Municipio Simón Bolívar per presentare un reclamo. Era per una faccenda buffa, per una cosa che forse non bisognerebbe menzionare in questi momenti gravi. Nel Registro Civile di Rancas, uno dei tuoi figli figurava come femminuccia. Tu hai fatto reclamo. L’amanuense si è ostinato a volere delle prove. E tu sei stato costretto a chiedere permesso e a far uscire tuo figlio da scuola. Quel poveretto di tuo figlio ha dovuto mettersi a fare pipí per convincere il Registro che non si trattava di Josefa bensí di José del Carmen. Quando sei tornato erano le undici e sei rimasto lí a bocca aperta: il Recinto aveva saltato il Yuracancha.

“In quel crepuscolo, in quell’ipocrita crepuscolo, le parole non si contano. Per la prima volta, il Recinto sbarrò il ritorno dei mandriani. Per entrare a Rancas le greggi dovettero allungare la strada di una buona lega. Rancas cominciò a mormorare. A cosa aspirava il Recinto? Che disegno nascondeva? Chi ordinava quella separazione? Chi era il padrone di quel filo di ferro? Da dove veniva? Un’ombra che non era il tramonto incupí le facce tribolate. La pampa appartiene ai viandanti. Nella pampa non si sono mai visti recinti. Quella sera, continuarono a parlare fino a seccarsi la gola. Tu non dicevi nulla. Tu, don Alfonso, avevi già maturato il tuo piano: chiedere una spiegazione alle squadre. E cosí fu: ti sei alzato di buon’ora e ti sei messo il vestito nero. Per raggiungere la testa del Recinto ti sei dovuto percorrere quindici chilometri. Cappello in mano, ti sei fatto avanti. Uomini armati di fucile ti hanno fermato.”

“Non si passa.”

“Mi permetto informare, signori, che io sono il Personero Legittimo di Rancas. Con chi ho il piacere?”

“Non si passa.”

“Mi permetto informare, signori, che loro si trovano su terre della comunità di Rancas. Noi vorremmo...”

“Non abbiamo ordine di spiegare. Se ne vada.”

Da tali proibizioni nacque il sospetto che gli operai stavano compiendo una condanna. Quella sera i vecchi rammentarono che ai tempi di don Augusto B.5 il signor Governo aveva mandato i prigionieri politici a costruire la ferrovia a Tambo del Sol. A Lima accarezzavano l’idea di una ferrovia diretta verso la selva. La ferrovia sarebbe cominciata nella pampa. Era una meravigliosa pensata. Invece di oziare e di imparare cattive abitudini nelle carceri, i signori politici avrebbero bullonato binari. Scaricarono prigionieri a centinaia. Volontà non gli mancava: gli mancava aria. Quelli della costa si sentono soffocare, in queste alture. Noi stessi riconosciamo che a cinquemila metri d’altitudine dar di zappa è duro. Morivano come mosche. Quello fu il guaio: crepavano. I vecchi non mentono; qua e là, tra le traversine abbandonate si vedono ancora biancheggiare le ossa. E cosí, quando don Mateo Gallo disse che gli operai erano dei politici, tirammo il fiato. Di ribelli ce n’è d’avanzo, nelle prigioni. Alla Guardia Civile la mano d’opera non fa certo difetto. La signora Tufina ci tranquillizzò completamente:

“Lo chiederò a mio nipote domenica prossima, quando andrò a visitarlo in prigione.”

“Sí, sí, chiedilo al Barrigón.”6

“Il Barrigón lo sa di sicuro a che carcere appartengono i condannati.”

La signora Tufina non celava il suo orgoglio. Ormai nessuno si rammentava piú delle imprese del Barrigón: dormire con donne sposate e alleggerire i dormenti del loro bestiame. Quel fottuto di un Barrigón si trasformò in un balsamo per il villaggio!

Ma Abdón Medrano ci fece una doccia d’acqua fredda:

“Io non credo che quegli ingiacchettati siano prigionieri.”

“E tu come fai a saperlo?” gridò don Mateo, in tono aggressivo.

“I prigionieri sono sempre sorvegliati da guardie repubblicane, e là di repubblicani non ce n’è nemmeno l’ombra.”

Dimenticando che don Abdón, un tempo Personero, è uomo di criterio, montammo su tutte le furie. Volevamo credere a tutti i costi che il Recinto era un miraggio, un incubo. Perché intanto che discutevamo il Recinto avanzava. Ormai nemmeno Cecilio Cóndor, capace di distinguere un furetto in pieno Bosque de Piedra, poteva seguirlo con lo sguardo!

Era sabato. Il giorno dopo doña Tufina partí per Cerro con un canestro di spumoni e di formaggini per il Barrigón. Tornò alle sei, tutta preoccupata.

“Il Barrigón dice che dalla prigione di Cerro non è uscito a lavorare nessun carcerato.”

“Forse saranno prigionieri di Huánuco,” azzardò senza convinzione don Mateo.

Nessuno rispose. Neppure salendo in cima ai dorsali si poteva piú scorgere la fine del filo di ferro. Avanzava. Colli, pascoli, fonti, caverne, paludi, s’inghiottiva tutto. Lunedí, alle quattro, divorò il colle Chuco. La pampa rimase divisa. Il Recinto tagliò fuori la pianura. Villaggi che prima distavano un’ora di viaggio ora si erano allontanati di cinque. Per arrivare a Huayllay, prima ci voleva un’ora e adesso addirittura una giornata. I commercianti di Ondores, che intervenivano alla fiera domenicale, andavano in bestia. “Quei cornuti di Rancas vogliono prenderci per il naso.” Cosí parlarono nella loro collera. Falso: noi stessi non riuscivamo a raggiungere le sorgenti; trovare acqua si era fatto difficile.

Ormai piú nessuno si faceva beffe del Recinto. La paura spolverizzava corvi. Ma tuttavia la gente continuava a mantenere accesa una fiammella di speranza: al di là del colle Chuco non c’è altro che lo Stagno del Gabbiano, una laguna fetida dove si radunano gli spiriti cattivi e, ancora piú in là, soltanto le acque avvelenate dagli scoli delle miniere. Sperdersi laggiú vuol dire entrare nella cavità dell’inferno.

A mezzogiorno, il martedí, il Recinto richiuse la Laguna del Gabbiano e si dissipò verso l’orizzonte.