9. Intorno alle avventure e alle disavventure di una palla di stracci.
Ogni sette giorni una cavalcata percorre le strade di Yanahuanca: sono i capoccia della fattoria Huarautambo che arrivano per fare da scorta al dottor Montenegro. Un uomo magro, col sorriso fradicio, con gli occhi infossati in pomelli sospettosi, si diverte a storpiare i cani con gli zoccoli del suo cavallo: è il Chuto Ildefonso. Sarebbe un miracolo se sulla porta del casone dai muri rosa, dalle porte blu e dai balconi rossi, il grasso Ermigio Arutingo non aspettasse mettendo in mostra i denti invecchiati di nicotina. Il Chuto, insensibile alla cortesia, si avvicina a fumare una sigaretta, intanto che il giudice Montenegro, col cappello calcato fin sulle sopracciglia, finisce di ripulire nella sala da pranzo il suo piatto di testicoli d’agnello con cipolle accompagnandolo con una flemmatica tazza di caffè macchiato.
Il patio lastricato accoglie il dottor Montenegro alle nove di mattina. Venti cavalieri si scoprono il capo e salutano, nel medesimo istante, il vestito nero. Ali di paglia lo proteggono dal sole: un cappello di Catacaos, cosí fine che si potrebbe arrotolarlo in una scatola di fiammiferi. Il grasso Arutingo si avvicina coi suoi pettegolezzi sugnosi. Il Chuto Ildefonso trattiene per le redini uno stupendo morello: Triunfante, orgoglio e vanto del dottore, è l’unico cavallo della provincia che bruca dove gli pare. Nessuno osa reclamargli danni. L’ultimo ventotto di luglio, anniversario nazionale, Triunfante prese parte a una corsa.
L’Alcalde, don Herón de los Ríos, tornò da un viaggio a Huánuco con l’idea fissa di organizzare una corsa di cavalli nella sua cittadina. L’iniziativa suscitò un vespaio. Esaltati da un concorso che avrebbe richiamato moltitudini, i commercianti offrirono una coppa d’argento. Il Municipio approvò all’unanimità un premio di mille soles per il vincitore il quale avrebbe inoltre incamerato l’intero ammontare delle iscrizioni: cinquanta soles per cavallo, una vera follia. Il primo di luglio, il Messo del Municipio appiccicò il bando di convocazione ai quattro angoli della piazza. Da quel momento non si parlò d’altro. Nella provincia c’è sovrabbondanza di superbi destrieri. Lo stesso giorno in cui venne propalato l’editto, Apolonio Guzmán iscrisse Pajaro Bobo,7 un bianco che di goffo aveva soltanto il nome. Ponciano Mayta riuscí anche lui a racimolare i cinquanta soles. Il suo Lucero8 non era stato comprato, ma allevato fin dalla greppia con ingegno e tenerezza. Pedro Andrade caracollò fin sulla porta del municipio, montato su Zorzal,9 un insolente pezzato dalla fronte bianca. Uscí solo per intoppare nei raschiami sproni di un centauro leggendario: Melecio Cuéllar, proprietario di Rabón10 un destriero che per volare possedeva il vantaggio di essere scarso di coda. La concorrenza non intimidí Tomás Curi che confidava nel suo Relámpago11 balzano di quattro (l’aveva pagato un toro e millecinquecento soles per soprammercato). Boriosi cavalieri sconvolsero la vita di Yanahuanca. La provincia era in fermento. Le stesse comari che mandano avanti la ruota del mondo con la forza motrice delle loro lingue, si dimenticarono degli adulteri per occuparsi delle bizzarrie dei corsieri.
Non si sa se l’idea sbocciò dalla trista materia grigia di Arutingo o se il cuore del dottor Montenegro fu vellicato da nobile anelito di contesa. Una mattina il dottore pietrificò l’amanuense del Municipio con un biglietto azzurro: Triunfante avrebbe partecipato. Quando i competitori si resero conto che la gara si sarebbe disputata con la partecipazione di un cavallo sospettosamente denominato Triunfante, il loro primo impulso fu quello di ritirarsi. Il gomito frequentemente alzato di Amador Cayetano gli fece commettere l’imprudenza di rimpiangere sulla pubblica piazza i cinquanta soles dell’iscrizione. Cesar Morales spinse piú in là il suo ardire; andò in Municipio a reclamare le sue cinquanta monetone. “Che cosa?” ruggí don Herón, imporporato. “Vuoi scherzare?” “Io non credo,” disse Morales, “che il dottor Montenegro permetta che vinca un altro cavallo.” Don Herón soffocava. “Che cosa?” ripeté. “Te la senti di avvilire pubblicamente il Giudice? Sei forse stanco di andartene in giro libero? Mi chiedo dove sia andato a finire lo spirito sportivo. Cazzo! Il primo che si ritira lo sbatto in prigione!” Solo un appello cosí opportuno al sentimento agonistico trattenne gli iscritti.
Una patriottica diana, omaggio della Caserma della Guardia Civile, ridestò Yanahuanca il ventotto di luglio. Otto guardie presentarono le armi alla Bandiera Nazionale. Dimentichi che padre Lovatón celebrava una messa in memoria del Generale San Martín, i curiosi formicolavano nel campo. Erano tre giorni che i signori della Guardia Civile, ansiosi di esaltare l’anniversario della patria, avevano incaricato i prigionieri di costruire un palco che era stato ornato con nastri bicolori, omaggio delle signorine maestre. Alle undici, il Sottoprefetto Valerio, l’Alcalde, il Direttore della Scuola, il Tenente Capo della Guarnigione, il Capo della Cassa Depositi e Prestiti e i signori professori si accomodarono nelle sedie di vimini disposte attorno alla poltrona riservata al dottor Montenegro. Raggiante in una camicia nuova di flanella il grasso Arutingo accettava qualsiasi scommessa giurando che Triunfante avrebbe rotto il nastro bicolore dell’arrivo.
I ficcanaso avevano invasò completamente il campo. Il sergente Cabrera fece sgomberare. Alle undici e mezzo, sudando in un vestito di lana blu, don Herón s’incamminò verso l’estremità della pista dove stavano allineandosi i diciannove centauri. Non volendo intorbidare una giornata cosí radiosa, aveva deciso di prendere il toro, meglio ancora, i cavalieri per le corna. Li fece radunare attorno a sé, e disse: “Signori,” qualifica che intendeva essere un’accorta mossa diplomatica nei confronti di costoloni disabituati a deferenze da parte dell’autorità, “questa gara non è fatta per soddisfare le vanità dell’uno o dell’altro. Si corre per celebrare il sacro anniversario della Patria.” I cavalieri si tolsero il cappello. Sotto le mazzate del sole, l’Alcalde si grattò la testa. “Non importa,” sospirò don Herón, “chi sarà il vincitore. Ma forse sarà meglio per tutti che le cose vadano secondo il verso del dottore!” E sfiorò i partecipanti con lo sguardo. “Che demoniaccio mi ha spinto ad iscrivermi?” ringhiò Alfonso Jiménez, togliendosi le caccole dal naso. Era un’evidente mancanza nei riguardi della dignità dell’Alcalde, ma, lungi dal raccogliere l’insolenza, don Herón riuscí perfino a filosofeggiare: “Il Tribunale, signori, è come la casa del saponaio: chi non cade, scivola. Nessuno è libero di sollevare accuse, nessuno deve vantarsi ‘di quest’acqua non berrò!’” E rinforzò, paradossalmente: “Perdendo, avete tutto da guadagnare!”
I disacerbati contendenti si disposero alla gara. Gli occhi di tutta la provincia li seguivano. Dalla poltrona d’onore, il dottor Montenegro scrutava le mosse dei fantini con un binocolo a lunga portata, attrazione che rivaleggiava con l’avvenimento sportivo. L’Alcalde risalí sul palco e annunciò: “Signore e signori, il Municipio di Yanahuanca ha voluto associarsi al gaudio del nostro anniversario patrio con una gara senza precedenti. I migliori cavalieri della provincia disputeranno una coppa donata dai signori commercianti. Che Dio li accompagni e che vinca il migliore!”
Scrosciarono gli applausi. Il caporale Minches sparò in aria col revolver d’ordinanza. I cavalli si frammischiarono in un balenio di zoccoli turbinanti. E, sia perché i tempestivi ammonimenti dell’Alcalde avessero intiepidito gli animi, sia perché, in effetti, era il migliore, Triunfante staccò tutti gli altri. Grazie alle sue lenti prodigiose, il vestito nero seguiva la corsa sorridendo. Ma l’uomo propone e il cavallo dispone. Insensibile ai giudiziosi argomenti di don Herón, Picaflor,12 il baio di César Morales, superò improvvisamente ‘Triunfante. Morales giura di aver fatto tutto il possibile per impedire il suo sproposito: si puntò sulla sella, pigiò i polpacci, tirò e tornò a tirare la redine destra, seghettò le labbra di Picaflor. Tutto inutile: il maledetto cavallo si fermò solo dopo aver varcato la riga della vittoria.
Il dottor Montenegro, incaricato di consegnare al vincitore la coppa offerta dall’Onorevole Confraternita, subí l’umiliazione di dover assistere alla catastrofe di un cavallo ironicamente chiamato Triunfante. Trafisse l’Alcalde con un’occhiata livida. Don Herón soppesò le conseguenze, si alzò e barcollò verso la frotta sconvolta dei fantini. Non si seppe mai ciò che si dissero César Morales e don Herón. L’Alcalde tornò al suo posto. Lo stomacato Arutingo si rassegnava ormai a pagare le scommesse. “Signori,” annunciò don Herón, inzuppato di sudore. “I competitori accusano Morales di gravissimi falli. Morales ha intralciato i fantini durante la corsa. Il rispetto della celebrazione patriottica non ci consente di ammettere simili scorrettezze.” I Notabili sorrisero, rilassati. Era mai possibile ammettere un’infrazione del genere proprio nel giorno dell’anniversario della Patria? Un minuto dopo la Giuria annullò la vittoria di Picaflor e per bocca di don Herón stabilí che il primo premio spettava a Triunfante. A questo punto sorse un altro problema: era evidente che il dottor Montenegro, incaricato di consegnare la coppa, non poteva riceverla dalle sue stesse mani. Ma don Herón era nella sua giornata di grazia: supplicò doña Pepita Montenegro di degnarsi, in nome dell’inclita collettività di Yanahuanca, di onorare il vincitore. La rubizza latifondista consegnò la coppa e i millenovecentocinquanta soles al dottore. Riscrosciarono gli applausi.
La ragazzaglia scopre Triunfante che caracolla e se la dà a gambe per le strade. “Arriva il dottore! Arriva il dottore!” schiamazza. Triunfante, bardato con una sella andalusa lavorata a sbalzo attorno a due iniziali d’argento “F” e “M,” morde il freno, impaziente. Il vestito nero s’inoltra tra due barriere di scappellate e attraversa il patio lastricato. Arutingo gli si avvicina per raccontargli ciò che accadde quando la Mutande di ferro volle iscrivere sua figlia in una scuola di suore. Il Chuto Ildefonso tiene le redini, il dottore monta. Ormai, le strade da dove passerà la cavalcata si spopolano. Solo i bottegai, nell’impossibilità di abbandonare i loro negozi, si affacciano dalle soglie per salutare il Primo Cittadino. Il vestito nero scende lungo il corso Huallaga, una stradicciola dove si rimpiattano il ristorante “El Chinito” e un abbeveratoio di pietra. Cinquanta metri piú in là la discesa imbocca il ponte. Venti cavalieri seguono gli scambietti di Triunfante che trotta tra i saluti dei dettaglianti. Troppo occupato a godersi le diavolerie del suo cavallo, l’equestre statua non risponde. La carovana passa sul ponte e infila la strada che conduce alla fattoria Huarautambo. Attraversano Racre. E Arutingo continua a spettegolare. Per un’ora i cavalieri, esilarati dagli avvenimenti che esplosero il giorno in cui la Scassabrande rinvenne una tartarughina nel suo letto, costeggiano il nascente fiume Huallaga. Un miglio dopo raggiungono la fragorosa salita verso Huarautambo: un serpeggiante viottolo sassoso lungo una lega. Fortunatamente, gli arcionati conoscono la strada impervia. Riconfortati dalle vicende che si verificarono il giorno in cui la Culo di Bronzo domandò alla Scassabrande quanti petali ha il trifoglio (innocente domanda che provocò la sortita con baionetta in canna di un reggimento di granatieri accampato a Huancayo), scorgono finalmente le rupi dopo le quali le asperità del terreno si placano in una splendida pianura. Avvezzi alla severità della pietra, gli occhi si scandalizzano per la leggerezza del fiume Huarautambo che precipita in sette balze di spuma bruciato da vivissimi incendi di crochi. Ingannato da una pietra rimossa dalle piogge, proprio mentre stava per superare la terza balza, Triunfante scivolò e si riprese. Senza degnare di uno sguardo il valoroso impegno delle cateratte, il dottore continuò per il sentiero che termina all’imboccatura di un ponte incassato nella gola e chiuso da un portone coloniale di legno scolpito dove gli artisti contemporanei hanno osato aggiungere solo la “F” e la “M.” Il dottor Montenegro si fermò a cinque metri dal portone, infilò la mano in tasca ed estrasse una lenta ed enorme chiave. Il ponte ed il portone sono l’unica via d’accesso verso il mondo dei cristiani. Tutta la pianura di Huarautambo è rinchiusa in una corona di montagne oltre le quali solo gli avvoltoi sanno cosa c’è. La volontà inappellabile del dottor Montenegro decide una volta alla settimana chi può varcare i confini della sua proprietà; in effetti, solo le formiche e le lucertole attraversano il ponte senza un permesso onorato dalla firma e dal timbro del Magistrato. Molti anni fa il vestito nero se n’era andato a Lima per depositare trecentomila soles in una banca. Nel trambusto dell’ultima ora – biscottini e formaggi per la parentela – si dimenticò di lasciare la chiave del ponte. Il dottor Montenegro aveva in progetto di trascorrere una settimana a Lima, ma gli scutrettolii di una femmina che lustrava la vista agli uomini di piú di un rione limano lo trattennero per tutta l’estate. I contadini dovettero attendere l’umiliazione della moretta prima di poter ripercorrere il ponte. Il maestro di Huarautambo si rosicchiò le unghie per tre mesi. “Il regolamento è il regolamento,” sentenziava il Chuto. Nessuno attraversa il ponte senza licenza, e meno che meno don Sebastián Barda, fratello di doña Pepita e padrone della parte grama dei possedimenti. Quando don Sebastián si sbornia non fa mistero che dell’eredità di suo padre gli è spettata la pelle del culo. “La colpa è mia perché sono uno stronzo,” proclama con la sua voce grapposa. Ed è vero. Quando don Alejandro Barda morí, doña Pepita propose: “Fratellino, godiamoci la proprietà un anno per uno.” Don Sebastián, che aveva appena ricevuto un bel po’ di sacchetti di contante, accettò e trascorse l’anno nei bordelli di Huánuco. Non era una cattiva idea. Ad Huánuco, terra di fuoco, ci sono donne capaci di cavar latte dai sassi. Esausto dopo trecento giorni di abbondanti scopagioni, don Sebastián comprò un cavallo scultoreo, fece ritorno a Huarautambo e trovò il ponte chiuso. Scalciò, protestò, insultò, si lamentò. Frutto delle sue insolenze fu soltanto la decisione del dottor Montenegro, nuovo proprietario di Huarautambo, di vietargli l’uso delle sorgenti. “Se vuole acqua,” disse il fortunato novello sposo, “se la vada a cercare sulle montagne.” Senza degnare di un’occhiata il malridotto rancho dove don Sebastián rimugina il suo risentimento, il dottore attraversò il ponte e avanzò tra muri di cinta chiomati di cactus.
Triunfante scalpitò sul viottolo e la mala sorte propose Juan Chacón il Sordo. Intento a giocare con una palla di stracci messa insieme coi brandelli di una giacca inservibile, non udí lo zoccolare della cavalcata. A furia di dinamitare rocce per ordine del dottore, aveva perduto il bene dell’udito. Volgendo le spalle al sentiero dove caracollava il proprietario della terra in cui egli si permetteva le delizie del gioco, il Sordo non si era accorto del pericolo che gli incombeva sul capo. Saltò, ma non raggiunse la palla. Governata dalla mano del diavolo, la palla volò fino a raggiungere la faccia del dottore. Triunfante si fermò di botto. Il dottore negò credito al primo istinto che gli suggeriva: affronto premeditato; ma il dubbio, parente stretto della certezza, cedette il passo alla collera, cugina prima della violenza. Quando il Sordo girò la faccia untata di uno stupido sorriso, trovò il mondo sbarrato dal monumento del furore.
“Chi è quel mangiamerda?” latrò il dottore.
“È un contadino di Vostra Eccellenza,” balbettò il Chuto.
“Seguitemi, cornuti,” sbuffò il dottore, già al galoppo. Il sole trinciava. Triunfante, madido di sudore, si fermò in mezzo alla spianata Moyopampa. Dal vortice dei suoi zoccoli emersero il Sordo, color prato, e il Chuto, color cacca.
“Quel pidocchioso deve imparare dove mettere le mani: recingerà tutta la spianata,” rugghiò il dottor Montenegro, e gli sbiecò una frustata sulla faccia. Poi si volse, quasi non si volse, verso il Chuto che tremava. “Oggi stesso chiuderai con un lucchetto la casa di questo imbecille,” e gli schioccò un’altra scudisciata. “Finché il recinto non sarà pronto, questi merdosi dormiranno all’aria aperta. Se qualcuno osa aiutarli, avvisami!”
Oppresso da una disgrazia superiore alla sua sordità, Juan azzeccò l’unica frase possibile:
“Grazie, dottore.”
Il Chuto Ildefonso, che incassava in contanti le umiliazioni, scacciò a pedate la famiglia del Sordo e chiuse la capanna con un lucchetto. Le pelli per dormire, una pentola, un secchio e un sacco di patate fu tutto quello che la famiglia riuscí a portar fuori per affrontare le intemperie. Recintare una spianata di trecento metri di lato è castigo grande, ma, per quanto smisurata fosse la sentenza, esprimendo il suo ringraziamento, il Sordo aveva operato saggiamente: fu ancora fortunato che nella collera il dottore si lasciasse guidare dal proprio criterio. Cosa sarebbe successo se il grasso Arutingo – distratto nel racconto di ciò che era successo il giorno in cui la Culoelettrico aveva incontrato un muto nel bel mezzo di un ponte – avesse scortato la collera del dottore? Oltre all’incarico di costruire il muro di cinta, Juan avrebbe dovuto ricevere un regalo: correre per tutta la notte attorno alla casa padronale, ballare fino all’esaurimento o mangiarsi, come era accaduto al defunto Odonicio Castro, tutto un sacchetto di patate crude.
Il Sordo cominciò a costruire il recinto. Bisognava andare a cercare le pietre fino al greto del fiume. Cinque giorni dopo, suo figlio – vincitore al gioco della palla – ebbe l’ardire di marinare la scuola per andare ad aiutarlo. Lo sconcertato maestro esitò tra la collera e la compassione. “È duro costruire un recinto senza aiuto,” disse il bambino con un tono dove già si riconosceva la gravità di un uomo. “Va bene,” assentí il maestro, “ti farò ripassare io le lezioni.” Trasportavano pietre, impastavano malta, piantavano sostegni di fango, e al crepuscolo non gli rimaneva che la forza di trascinarsi sulle pelli di montone e di raggomitolarsi contro il magro calore delle rocce. Sembrava impossibile, ma sessanta giorni dopo il mezzogiorno in cui la disdetta aveva strizzato l’occhio a Juan il Sordo, padre e figlio erano riusciti a recintare uno dei lati di Moyopampa. Centonovantasei giorni dopo – centonovantasei mattine, centonovantasei mezzogiorni, centonovantasei pomeriggi, centonovantasei crepuscoli, centonovantasei notti – uno scheletro chiese il permesso di mostrare la sua opera.
“Speriamo che il dottore non trovi da ridire,” borbottò il Chuto.
Il vestito nero sbucò dalla casa e ispezionò il muro mordicchiando una pesca gialla.
“Sta bene,” accordò. “Restituiscigli la casa e regalagli una bottiglia di acquavite.”
Ristorato dalla gratitudine, il Sordo ripeté l’unica frase pronunciata in tutte quelle ventotto settimane:
“Grazie, padrone!”
Il sole di un prematuro crepuscolo faceva illanguidire le erbe. Il contadino si tolse il cappello. Nel nastro, semisepolta sotto una crosta di fango, fiammeggiava la piumetta di un gallo cedrone. Il giorno in cui il Sordo aveva insegnato a suo figlio a pescare trote con le mani, il bambino gliel’aveva infilata nel cappello. Soffiò un venticello freddo; il ragazzetto guardò gli occhi nuvolosi del padre, poi una lucertolina che prendeva il sole orgogliosa della sua coda nuova, poi il cavaliere altezzoso che si allontanava verso la montagna illividita dal tramonto.
Fu la prima volta – aveva nove anni – che la mano di Héctor Chacón, il Nittalope, ebbe sete della gola del dottor Montenegro.
Trascorsi gli anni, scontata la sua seconda condanna, un uomo magro, dagli occhi vivaci, uscí dal carcere di Huánuco, si arrampicò su un camion e tornò a Yanahuanca. L’inverno si accaniva contro le ultime foglie. L’uomo, che indossava un paio di calzoni macchiati e una camicia sottile, entrò nella Piazza d’Armi lentamente. Si avvicinò a una delle cantonate, posò per terra una valigia di cartone verde, si accovacciò e tolse di tasca un pacchetto di sigarette. Dalla cantonata opposta sbucò il dottor Montenegro. Era l’ora della sua passeggiata. La Piazza d’Armi di Yanahuanca è un quadrilatero irregolare. Il lato nord misura cinquantadue passi, il lato sud cinquantacinque, il lato est settantacinque e il lato ovest settantaquattro: duecentocinquantasei passi che il dottore ripeteva venti volte ogni sera alle sei. Il forestiero cominciò a fumare. Il dottor Montenegro, miope per i contadini, proseguí. Héctor Chacón, cominciò a ridere: la sua sghignazzata compose una specie di grido, un contrassegno di animali stregati, un segreto appreso dai gufi, spuma sconvolta dagli scoppi di una risataccia secca come gli spari della Guardia Civile, che cadde flagellata dagli spasmi di una spaventosa gaiezza. La gente uscí sulle porte. Nella Caserma, le guardie racimolarono i fucili; Monelli e cani smisero di rincorrersi. Le vecchie si segnarono.