2. Sulla universale fuga degli animali della pampa di Junín.
Il vecchio Fortunato rabbrividí: il cielo aveva lo stesso color corvo del mattino della universale fuga degli animali. Attraverso quel cielo, in un’alba stravolta erano fuggiti i volatili. Qualcuno doveva averli avvisati. Sparvieri, falchetti, cingallegre, tordi, passeri, colibrí, si frammischiarono in un unico panico; dimenticando animosità, i falchetti volavano in coppia coi passeri. L’azzurro s’infestò di ali terrorizzate. Abdón Medrano scoprí le civette spruzzolate sui tetti. Illanguiditi dal palpebrare dei gufi, i rancheni avvistarono inconcepibili squadroni di pipistrelli, in fuga, pure loro, verso le terre libere. Una spessezza di ali abiette stormí sui tetti del paese. Nessuno se ne rammentava. Chi poteva rammentarsi di un esodo simile? Qualcuno doveva averglielo comunicato. Gli animali della notte disertavano le penombre e si precipitavano, piagati dalla luce, verso le gole di La Oroya. Rancas si prostrò biascicando orazioni. Con la faccia graffiata, ginocchioni, con le braccia spalancate, don Teodoro Santiago deprecava: “Castigo di Dio, castigo di Dio!” Nel nucleo di una terzana di denti, si doleva col cielo: “Castigo di Dio, castigo di Dio!” Uomini e donne si abbracciavano; ancorati alle sottane delle loro madri, i bambini singhiozzavano. E come se avessero atteso solo l’emigrazione degli uccelli notturni, ondularono macchie di anatre selvatiche, moltitudini di uccelli sconosciuti. L’umanità s’inginocchiava, supplicava, gemeva. A chi? Dio volgeva le sue spalle sdegnose. Il cielo scricchiolava sul punto di sfondarsi. Un tuono da cani squarciò l’oriente della pampa: pastori macilenti fuggivano dai villaggi, con la lingua fuori. I cavalli rabbrividivano di nausea: quadrupedi allevati fin dalla greppia, disconoscevano la voce dei padroni, zampavano, scalciavano, verdi di sudore. Al pari dei furetti e delle lucertole, cercavano dove andare. E non si era ancora stemperata la trepidità degli zoccoli quando una valanga di sorci flagellò il villaggio. Porcellini d’India che si rammentavano solo del paradiso dei focolari si lanciarono gemebondi e ciechi sotto la gragnuola degli zoccoli. E gli stessi cani, frammescolando i loro nomi, guaivano sordamente tra pecore agonizzanti con le teste torte verso la paura. Rancas era un singhiozzo. A mezzogiorno fu la volta dei pesci. Qualcuno doveva averli avvisati. Fiumi e fiumicelli nereggiarono. Le trote abbandonavano le acque limpide delle altitudini, scendevano, affogandosi, lungo i corsi avvelenati dagli scoli del rilavaggio. Saltavano sulle acque torbide. Qualcuno doveva avergli annunciato la chiusura delle acque.
Fortunato trottava sull’interminabile pampa di Junín. Sul suo viso bluastreggiava un colore che non era spossatezza. Erano ormai due ore che continuava ad avanzare con la bocca aperta. I piedi incrostati di polvere riducevano il trotto, camminavano e si volgevano verso la strada. Da un momento all’altro, forse adesso, la nebbia avrebbe partorito i pesanti camion, le facce di cuoio che avrebbero calcato Rancas. Chi sarebbe arrivato primo? Il convoglio che contornava la lentissima curva, o Fortunato, che sudava sulla petraia? Inghirlandata da migliaia di animali moribondi, Rancas stava forse beccheggiando di sopore. Sarebbe giunto in tempo? E anche se fosse riuscito ad avvertire, come si sarebbero difesi? Con randelli? Con fionde? Gli altri avrebbero avvisato giusto prima di sparare. Trottava con la bocca aperta, inghiottendosi il cielo dove gli avvoltoi si erano dati convegno. Brutti presentimenti galoppavano alle sue spalle. Indovinò confusamente la pampa. Ogni roccia, ogni pozza, ogni macchia, monotone, identiche per gli estranei, erano indimenticabili per lui. Correva, correva, correva. In quella steppa maledetta dai forestieri, odiata dagli autisti, su quell’altipiano dove consolavano solo due o tre ore di sole, lui, Fortunato, aveva aperto gli occhi e imparato a camminare, a lavorare, a stupire, a conquistare e ad amare. Sarebbe anche morto? Il suo sguardo abbracciò il continente di pecore morte, dozzine, centinaia, migliaia di scheletri scarniti dagli avvoltoi. Si rammentò i nomi dei suoi animali: Cotone, Piumetta, Fior del Campo, Fico d’India, Bandierina, Negro, Civetta, Trifoglio, Pigrone, Birbone e Fortunato, tutti confusi nel fetore della maledizione. “Piuma, piumina, piumetta.” Si arrese sul pascolo ispido. I camion non erano ancora apparsi. I suoi occhi si ferirono contro la cappa di ferro di un cielo refrattario all’invocazione. Chi supplicare? Padre Chasán respingeva i cento soles richiesti normalmente per impetrare il Divino. Rifiutava la rispettosa insistenza del Personero1 Rivera. Non voleva ingannarli. Padre Chasán guardava il Crocifisso con la testa piegata. Correva, correva, correva. Il Personero Rivera, Abdón Medrano e Fortunato scesero a Huariaca per supplicare il curatino di interrompere la sua novena. Supplicarono e supplicarono. Il sacerdote venne nella decrepita chiesa zeppa di peccatori. Rancas sognava ancora che l’acqua benedetta avrebbe potuto salvarla. Chi sarebbe arrivato primo? Guillermo, il Macellaio, o Fortunato, il Lento? Qualcuno doveva aver comunicato agli animali che il Recinto serrava il mondo. Gli uomini lo sapevano già. Erano settimane che il Recinto era nato nelle stoppaie di Rancas. Correva, timoroso di essere raggiunto da quel verme che sugli umani aveva un vantaggio: non mangiava, né dormiva, né si stancava. I rancheni, gli yanacochani, i villapasquesi, gli yarusyacani, avevano saputo, prima dei gufi o delle trote, che il cielo si sarebbe sfondato. Ma non potevano fuggire. Il Recinto sbarrava le strade. Potevano solo pregare nelle piazze, atterriti. Ormai era tardi. Anche se il reticolato non avesse impedito il passaggio, dove sarebbero fuggiti? Gli abitanti delle terre basse potevano scendere nelle selve o risalire la cordigliera. Ma loro vivevano sulla tettoia del mondo. Al di sopra dei loro cappelli pendeva un cielo arcigno alla supplica. Ormai non c’era scampo, né perdono, né ritorno.