23. Vita e miracoli di un collezionista di orecchie.
Non si deve confondere Tagliavento con Tagliaorecchie. Tagliavento era un cavallo che morí quando il colonnello Marruecos si recò a Chinche per fondare un nuovo cimitero. Amador, il Tagliaorecchie, era un uomo. Bisognerebbe domandarlo a Carmen Minaya, suo cognato; la sua fu una delle prime orecchie di Amador. La prima la tagliò il settimo giorno della sbornia quando Egmidio Loro festeggiò la prima comunione di sua figlia, la Mutina. Ingagliardito dal celeste avvenimento, Loro chiuse gli invitati sotto chiave e la gettò nelle tenebre di un’insondabile botte di acquavite. Vincolati dall’onore della disfida, gli invitati rinunciarono ad uscire. Ci misero sette giorni a ricuperare la chiave. Il rinvenimento suscitò una gioia tale da indurre Amador ad affiancare il coro con la sua voce stridula e
Devuélveme el rosario de mi madre
y quédate con todo lo demás.
“Non romperci i vetri,” protestò un barbagianni alto, di Michivilca, rosicchiato dal vaiolo, che sonnecchiava in un angolo.
“Se non vuoi ascoltarmi, tagliati le orecchie,” rispose Amador, risentito.
Virgen de medianoche,
cubre tu desnudez.
“Tagliamele tu!” rispose il michivilcano e si alzò e avanzò arrotolandosi le maniche della camicia. Non si accorse quasi del lampo che gli tosò l’orecchia.
“C’è qualche altro che ha orecchie d’avanzo?” domandò Amador con una brace di pazzia negli occhi. “Continuate a sonare, finocchi!” gridò all’orchestra.
Invitati e musicanti si abbandonarono ai vortici di un furioso cacharpari.30 Contagiato dall’allegria generale, Amador ballò fino alle sette della mattina dopo; poi, risalí le cordigliere.
Nemmeno una cosí espressiva manifestazione di fanatismo filarmonico riuscí a convincere gli yanacochani che le orecchie di Amador sarebbero appassite senza musica. Non lo capí nemmeno chi per professione e parentela si trovava nell’obbligo di dover favorire la sua melomania: suo cognato, il musicante Carmen Minaya. Non solo non lo favorí ma addirittura lo ostacolò il giorno in cui, babilonicamente ubriaco, Amador propose all’orchestra di accompagnarlo mentre egli si recava a defecare nel fossato dietro casa.
“Per favore, siate gentili,” supplicò Amador.
Minaya gli disse di andare a soddisfare quel bisogno fisiologico che Amador stava appunto per appagare; ma glielo comunicò con parole piú esplicite.
“Non costringermi a dartele, cognatino.”
“Fuori di qui, ubriacone!”
“Non darmi dell’ubriachino.”
Carmen Minaya commise l’errore di afferrarlo per i baveri della giacca. Sarebbe stato meglio se si fosse servito delle mani per non staccarsi dall’orecchia. Chi gliela staccò fu Amador.
“Venite o restate?” gridò ai musicanti.
Mansuetamente, trombe e clarinetti lo scortarono fino al luogo preannunciato. Strada facendo Amador tagliò la spina di un cactus e si appuntò l’orecchio al bavero della giacca. Poi ballò fino alle sette della mattina. Ornato del crudele garofano, percorse il paese gridando:
“A Yanacocha non c’è uomo uguale a me!”
Non c’era.
Fu cosí che nel seno della propria famiglia, generalmente ingrata al talento, si riconobbe il suo genio. Fuggí, di nuovo, sulle cordigliere. Da quel momento non gli mancarono clienti. Calixto Ampudia, il maniscalco, fu il primo a strumentalizzare la sua perizia. La vigilia dell’Anno Nuovo scoprí che sua moglie si faceva benmenare da uno studentello arrivato da poco. Alla donna forgiò a nuovo la faccia. Ma non volle avvicinarsi troppo al saputello: toccarlo con le sue mani voleva dire autocondannarsi all’ergastolo. Preferí umiliarsi e varcare la soglia di Amador. Senza perdere tempo in chiacchiere posò tre banconote arancione sulla tavola. Il Tagliaorecchie sfoderò un sorriso arguto.
“Che cosa vuoi, Calixto?”
“Le orecchie di un rovinafamiglie,” rispose Ampudia, togliendo da sotto il poncho una bottiglia di acquavite.
Il Tagliaorecchie si anticipò una sorsata redentrice e tossí. Per educazione, fingeva che l’acquavite gli andasse di traverso.
“Perché le vuoi?”
“Voglio sapere come sono fatte le orecchie che ascoltano i gemiti di mia moglie.”
“È una voglia che ti costerà cinquecento soles.”
“Io lavoro per cavarmi le voglie.”
Sette giorni dopo, Calixto Ampudia conobbe il velluto delle orecchie che sua moglie aveva stretto nel momento del galop finale.
Quella volta il Tagliaorecchie comparve davanti al Tribunale. Al dottor Montenegro bastò leggere la pratica per riconoscere che le doti di Amador Leandro erano sprecate tra la ciurmaglia dei contadini. Non solo lo lasciò libero, ma gli regalò un biglietto da cinquanta soles che Tagliaorecchie fece immediatamente incorniciare dalla falegnameria del paese.
Quello stesso pomeriggio, il Chuto Ildefonso lo contrattò. Era un lavoro tranquillo. Nello spazio di cinque anni – il tempo della condanna di Héctor Chacón – si ricorse tredici volte ai suoi uffici. La sua fama oltrepassava i modesti confini della provincia. Fazenderos innamorati delle orecchie di malcreati che si rifiutavano di togliersi il cappello, lo imploravano al Giudice. Il dottor Montenegro, la gentilezza in persona, acconsentiva sempre a estendere il modesto “programma di affitti e prestiti” che Yanahuanca attuava contemporaneamente a una grande nazione del nord.
Il coltello di Amador, unico articolo d’esportazione della provincia, stabilí la pace tra gli allevatori.
Il giorno in cui il dottor Montenegro venne a sapere, per merito di Lala Cabieses, che Héctor Chacón desiderava allungare la mano verso la sua gola; il giorno in cui il suo pallore risalí le cordigliere attraverso una gola segreta, accompagnato da capoccia e da guardie civili; quel giorno il dottor Montenegro pensò sopra ogni altra cosa che la sua salute avrebbe tratto un grande giovamento da una sensazione tattile: quella delle due orecchie del Nittalope nella propria mano. Nessuno osava rivolgere la parola al Giudice. Lo stesso Arutingo e l’ex sergente Atala tenevano per sé, scuri in viso, i misfatti sopravvenuti infaustamente il giorno in cui la Naticapronta chiese in prestito un ago alla Mutande di Ferro, evento che motivò la rottura di seicento vasi. Cavalcarono per sei ore senza avere nemmeno il coraggio di ricorrere alla borraccia di acquavite. Quando fecero ritorno a Huarautambo era già buio. Sgocciolavano le prime stelle quando il Tagliaorecchie entrò nell’ufficio del dottore.
Tre giorni dopo sette cavalieri imbacuccati entrarono a Yanacocha investendo plebaglia. Si fermarono davanti alla porta del Nittalope. Il Tagliaorecchie aprí la porta a calci, ma per fortuna sua il Nittalope era in viaggio per Pillao per concludere un affare di bestiame. Il collerico Tagliaorecchie si precipitò nell’osteria, pagò i suoi debiti e si fece servire la prima dozzina di birre. Di tanto in tanto i suoi compari uscivano a spiare. Il Nittalope tardava. Concluso l’affare, il compratore lo aveva pregato di “fermarsi a far penitenza.” Héctor Chacón accettò lo spuntino. Ai sette cieli per essere riuscito a comprare per mille soles un torello che ne valeva per lo meno il doppio, il padrone di casa mandò a prendere qualche birra.
“Dicono che in questo paese c’è uno spaccone chiamato Chacón,” disse il Tagliaorecchie facendo crocchiare le giunture delle dita. “Peccato che gli spacconi non si facciano mai vedere, quando io vengo a trovarli.”
Erano le sette. Un’ora dopo, le ultime gocce di una bottiglia di rum suggerirono al Tagliaorecchie di aspettare Chacón solo.
“Cosa cazzo state facendo qui?” gridò ai suoi bravi.
“Aspettiamo ordini, don Amador,” gli risposero gli sgherri, desiderosi di non separarsi dalle bottiglie.
“Che ordini e non ordini. Per Chacón basto e avanzo io solo!”
Eruttò una zaffata e fece appassire i fiori di un calendario. Li buttò fuori a calci. Il Nittalope stava scendendo lungo il ripido pendio di Pillao. A trecento metri i suoi occhi scoprirono una donna seduta su una roccia, sul ciglio della strada: Sulpicia. Il Nittalope avvertí il pericolo. Chi stava aspettando Sulpicia? Smontò, legò il cavallo e avanzò a piedi, prudentemente. Sulpicia, che non possedeva il bene dei suoi occhi, lo scorse solo quando Chacón fu a tre passi da lei.
“Héctor, mi hai spaventata! Scappa, Héctor!”
Il Nittalope annusò il terrore della donna.
“Dei tizi di Huarautambo ti stanno cercando da questa mattina, Héctor! Amador è a caccia delle tue orecchie!”
“Dove?”
“Da Santillán.”
“Corri a cercare l’Abigeo e il Ladro di Cavalli, Sulpicia. Di’ loro di raggiungermi là.”
“Bada a te, Héctor, bada a te.”
Sulpicia si allontanò nell’oscurità. Il Nittalope scomparve tra le rocce. I presentimenti si arroventavano nel fumo della notte. Tirando il cavallo per le redini, Chacón entrò nella stalla della sua casa e preparò l’acqua e la biada. Poi si lavò lentamente la faccia e le mani. Non si pettinò e si avviò lungo il luogo dove stava bevendo l’uomo piú coraggioso della provincia. Amador stava brindando con la sua ombra riflessa dalla luce scoppiettante della lampada a petrolio quando Chacón uscí dall’oscurità e attraversò la soglia dell’osteria. Santillán perse il colore.
Senza chiedere permesso, Chacón si versò un bicchiere di birra e la rovesciò ostentatamente sulla tavola.
“E cosí, mi stai cercando?”
Solo mezza bocca sorrideva. Si comprovò allora la fragilità del desiderio umano. Febbricitante per l’ansia di scovarlo, il Tagliaorecchie aveva buttato all’aria tutta Yanacocha in cerca del viso che ora fissava il lago di schiuma giallastra, ma non appena s’imbatté nella faccia disperatamente cercata, gli svaní ogni desiderio.
“Buona sera, don Héctor,” salutò il Tagliaorecchie cosí inopinatamente ben educato che a Santillán tremarono le mani. “Buona notte, signori.” E salutò l’Abigeo e il Ladro di Cavalli.
Tra il chullo31 e la sciarpa ardevano soltanto gli occhi felini del Ladro di Cavalli. L’Abigeo si strofinò le mani, incrostate di farina.
Il silenzio aumentava.
“E cosí, ti piacciono le mie orecchie?” Il Nittalope si accarezzò intenzionalmente il lobo della sinistra. Senza rispettare la proprietà privata dell’uomo che aveva acquistato la birra col proprio denaro, Chacón si versò un altro bicchiere.
“Chi te lo ha detto, don Héctor?”
“Una pecorella.”
L’Abigeo, che non possedeva lo spirito del Nittalope, rovesciò la bottiglia con una manata.
“Che cosa sei venuto a fare? Cosa vai cercando, figlio d’una puttana?”
“Ho avuto una lite con la signora Pepita,” disse il Tagliaorecchie. Nei suoi occhi s’illanguidivano braci.
“Per che ragione?”
Il Tagliaorecchie lasciò distillare un minuto.
“La signora Pepita voleva mandarmi ad ammazzare gli yanacochani.”
Come se volesse farsi scusare per la sgarbatezza della mano, il piede dell’Abigeo scostò i cocci sparsi della bottiglia.
“E tu che cosa hai risposto?”
Vagamente annoiato, il Ladro di Cavalli infilò la mano in un sacco di grano; cominciò, per gioco, a far passare i granelli da una mano all’altra.
“Io le ho detto che non volevo piú storie coi miei fratelli. Ne ho abbastanza. Voglio fare la pace coi miei cognati. Questo le ho detto, ma la signora Pepita se l’è presa e mi ha scacciato dalla fazenda.”
“Quando ti ha scacciato?”
“Tre giorni fa.”
Il Ladro di Cavalli gli gettò in faccia la manciata di grano.
“Perché menti, figlio di puttana? Ieri hai incontrato mio fratello sulla cima Huajoruyuc. Tu stavi coi contadini di Huarautambo e hai ordinato di farlo fuori a frustate. Tu sei venuto qui per spiare.”
“Frughiamogli un po’ nelle tasche.”
Chacón era di bronzo.
Santillán si accostò al muro. Come serpi frettolose, le mani dell’Abigeo frugarono nelle tasche di Leandro. Cavò e posò sulla tavola: tre chiavi (di cui una arrugginita), uno stappabottiglie omaggio di Kola Inglesa, una matita spuntata, una lettera e un revolver 38.
“Perché hai il revolver?”
“Mi serve per cacciare i cervi.”
Le mani dell’Abigeo tremolarono. Una banconota dai colori sconosciuti sbigottí l’esploratore.
“Che cos’è?”
Era la prima volta che vedevano una banconota da cinquecento soles.
“I miei risparmi,” balbettò il Tagliaorecchie.
“E cosí tu ti porti dietro i risparmi, quando ti sbronzi?” La voce dell’Abigeo sibilava. “Smettila di fare il furbo, Amador. Meglio confessare!”
Ora Chacón era di neve.
“Va bene,” accettò Chacón, “pensiamoci sopra con calma.” E si rivolse a Santillán. “C’è acquavite?”
“C’è, don Héctor.”
“Vendimene tre bottiglie.”
Le mani inquiete posarono tre bottiglie scure, senza etichetta, chiuse da un tutolo di granoturco. Gli occhi non scorsero quasi i quindici soles accartocciati sul banco.
“Andiamo verso la provincia!”
Gli occhi del Nittalope soffrivano. Una nottata felina era acquattata nei radi cespugli. Sulle cordigliere si stava intrecciando una battaglia di fulmini. Senza gli avvisi del Nittalope, che preannunziava sassi e precipizi, si sarebbero dannati. Yanacocha era uno spruzzo di luci. Avanzarono per un chilometro e scesero a Urumina. Sempre in silenzio, sorpassarono Antac. Nella notte senza stelle ora alitava soltanto il respiro del Tagliaorecchie. Si lasciarono alle spalle Yurajirca. Né il Tagliaorecchie né i suoi guardiani si scucivano le labbra. Scorsero Curayacu.
“Fermiamoci qui!” ordinò il Nittalope.
Nella vallata si scorgevano le luci cenciose della provincia. Guardando i bagliori della città dove vegliavano le guardie civili, Leandro s’imbaldanzí. La sua paura gli faceva sognare la provincia alla svolta della roccia.
“Cosa borbotti?”
“Chi credete di essere per menare la gente attorno a questo modo? Non ve la lascerò passare liscia! Ci penserò io, non appena saremo arrivati nella provincia!”
Le mani di Chacón lo afferrarono per la camicia e lo costrinsero a sedersi sulle rocce.
“Siediti, cornuto!” lo sferzò con la voce. “Tu alla provincia non ci arriverai mai!” e, come se riconoscendo un amico avesse deciso di smetterla di scherzare, gli prese la mano e gli sussurrò: “Scappa via!”
Il Tagliaorecchie sentí che una stretta di odio e di ribrezzo lo attanagliava a una mano d’osso.
“Prova, corri, scappa via!”
Il Tagliaorecchie udí il sibilo di un disprezzo piú ampio della notte. Con le sue sole parole non sarebbe mai riuscito a mendicare il perdono.
“Non ammazzarmi, zietto,” s’inginocchiò tremando.
Con la paura, ricuperava la memoria. Bruscamente, si rammentava che l’uomo di cui stava andando in cerca fin da quella mattina, una mattina ormai remota nel tempo, era lo stesso che vent’anni prima gli aveva insegnato a pescare trote.
“Non macchiarti del sangue di tuo nipote, zietto! Non mettermi paura, zietto. Mi farai scoppiare il cuore.”
“Piantala di frignare,” gridò Chacón. “Confessa la verità.”
“La signora Pepita verrà a saperlo.”
“Qui ci conosciamo tutti. Come farà a saperlo? Vuoi un sorso?”
Il Tagliaorecchie si cauterizzò la paura con una sorsata di fuoco.
“È buona?”
“È un’acquavite buonissima, zietto.”
“Bevine ancora.”
“Sono già mezzo sbronzo, zietto.”
“Bevine ancora, cornuto!” e gli esplose uno sparo vicino alle orecchie. “Confessa, figlio di puttana!”
Nel buio, gli occhi del Nittalope riuscirono a contare le gocce di sudore che imperlavano la fronte di Amador.
“Tutto quello che fai, don Héctor, la signora Pepita lo sa. Se fai riunioni, se dormi, se cammini, la fazenda sa tutto quello che fai.”
“Se mi dici chi è il traditore, ti autorizzerò a rimanere nella comunità.”
Chacón si addolcí.
“I miei soffriranno la rappresaglia, zietto.”
“Casa e terra ti darò, e ti farò fare la pace coi Minaya.”
Il Tagliaorecchie sospirò.
“La vedova Carlos è quella che spiffera piú di tutti.”
“Lei non viene alle riunioni. Come fa a saperlo?”
“È strega. Sono i suoi animali che la informano. Manda in giro cani addestrati, animali che sentono quello che voi discutete e poi vanno a ripeterglielo.”
“Continua.”
“E poi ha anche uccelli. Uccelli ingrassati apposta.”
“Continua.”
“La signora Pepita vuole regalarti la morte.”
“Per mano tua?”
“Ho accettato per finta, zietto.”
“Questo coglione ci denuncerà,” gracchiò l’Abigeo.
“Io vi giuro, padroni...”
“Questo finocchio ci fregherà.”
“Per la Vergine santissima, io...”
“Bevi,” ordinò Chacón porgendogli la seconda bottiglia.
L’acquavite ormai non bruciava piú.
“Bevitela tutta.”
“Mi gira la testa.”
“Tu hai rivelato a Montenegro che pensavamo di ammazzarlo?”
“Sí, zietto.”
“Come hai fatto ad avvisarlo?”
“Gli ho mandato un biglietto, per mezzo di Lala.”
“Cosa diceva il biglietto?”
“Fuggi, dottore: Héctor Chacón sta arrivando armato per ammazzarti.”
“Va bene. Ne so abbastanza,” disse Chacón.
“Non penserai mica di farmi del male, vero zietto?”
“È arrivata l’ora di cavar la voglia delle sbruffonate a questo coglione.”
La tempesta si allontanava. Il Tagliaorecchie scopriva che la voce aveva un viso dagli zigomi duri, dalla fronte stretta, dai capelli sciolti.
“Amador, tu ti sei sempre fatto giustizia con le tue mani. Hai sempre manovrato il coltello come ti piaceva. E la cosa non m’importava. Ma per qualche libbra di burro, per la merda di qualche favore, tu hai tradito la tua comunità. Tu ci hai venduti a un tanto al chilo. Tenetelo!”
Le braccia nerborute dell’Abigeo e la forza del Ladro di Cavalli immobilizzarono il Tagliaorecchie.
“Alzatelo!”
Lo alzarono come se fosse un bambino. Nelle ondate di latte che spargeva, inaspettatamente, la luna, il Nittalope ricuperò per un attimo gli occhi del bambino col quale, in tempi sperduti nel ricordo, aveva saltato fossati e rubato frutta. Ma demolí i volti che proponeva il ricordo e li sostituí con la faccia del traditore. Prese un fazzoletto e lo introdusse bruscamente nella bocca del Tagliaorecchie. L’asfissia ingigantí gli occhi di Amador. Si contorse come serpe, ma a poco a poco il corpo gli s’inondò di panico, di silenzio, di aria vizza.