19. Dove il lettore verrà in trattenuto con una partita a poker.
Il Giudice Montenegro partí per El Estribo. L’ufficiale sanitario Canchucaja, lo scrivano Pasión, Arutingo, il sergente Cabrera e un picchetto di guardie civili scortarono il magistrato. Don Migdonio predispose splendide tappe lungo tutto il percorso. Ogni sei ore il Giudice trovava cambio di cavalli e pachamanca. Cinque giorni dopo la carovana passava sotto l’arco di pietra da cui pendeva, da cinquant’anni, la staffa25 d’argento del nonno di don Migdonio. Bardato con calzoni da cavallerizzo, giacca di pelle, stivali inglesi e ricchissimo fazzoletto di seta, don Migdonio diede il benvenuto all’“illustre comitiva,” un tantino intimidita dall’enormità della casa padronale.
Era una casaccia lunga cento metri, costellata di porte e di finestre scolorite. Lo stato d’abbandono liquidava gli intenti dei costruttori. Anche il patio lastricato si era arreso all’erba. Cenciosi fantasmi, contadini senza volto, emersero dalle stalle e si occuparono dei cavalli. Gli ospiti attraversarono il patio ed entrarono nella sala da pranzo ancora impreziosita da antichi mobili inglesi che gemevano tra pareti tempestate di calendari. Li attendeva un pranzo gaudioso. Parecchie ore dopo continuavano a bere acquaviti e poncini. Quella volta erano tutti invitati, perché normalmente, fatta eccezione per il dottor Montenegro, invitato d’onore in tutte le occasioni, i notabili e le guardie civili non mancavano mai d’intrufolarsi, senza essere mai pregati, in tutte le manifestazioni d’un certo rilievo gastronomico. Solo alle sei del pomeriggio, il dottor Montenegro ebbe l’ardire:
“Spero, don Migdonio, che lei mi concederà qualche minuto.”
Si chiusero nello studio. Il tenore del colloquio che impegnò per sessantacinque minuti don Migdonio de la Torre e don Francisco Montenegro fa parte di quegli enigmi storici che mandano a nozze i cronisti.
“Mi permette, sergente?” chiamò il dottor Montenegro, affacciandosi all’uscio un’ora dopo. Il sergente posò sulla tavola il bicchiere di cognac e sparí nello studio. Ciò che don Migdonio, il dottor Montenegro e il sergente Cabrera si dissero è tuttora avvolto in quella nebbia impenetrabile e piccante che avvolge i grandi interrogativi della storia del mondo.
“Mi permette, amico Canchucaja?” chiamò di nuovo il dottor Montenegro, ormai del tutto a suo agio nell’universo degli arcani storici. E a questo punto le versioni si contraddicono. C’è chi assicura che i colloqui non durarono ore, ma addirittura intere giornate, e che, invece di celebrare un conclave, le autorità infilarono un’altra uscita e se ne andarono attorno a bagordare per i fatti loro. Per smentire i testimoni che giurarono di aver visto uscire le autorità sottobraccio, tra risa e canti, i cronisti esibiscono una prova irrefutabile: quella sera – ma era sera o era giorno? – le autorità confermarono che Espíritu Félix e i suoi quattordici compagni erano stati fulminati da un “infarto collettivo.” Era forse possibile giungere a quella conclusione senza un’accurata indagine? No. È in questo modo che ragionano certi altri storici, concludendo che le autorità infilarono sí un’altra uscita, ma se ne andarono per raccogliere dati nei confini nebbiosi de El Estribo. Sia come sia, la sentenza del dottor Montenegro fu categorica: i contadini erano stati falciati dal primo infarto collettivo che la storia della medicina ricordi. Il dottor Montenegro confermò che la debole costituzione cardiaca dei vassalli non aveva retto al contatto col potere; cuori avvezzi a pulsare a cinquemila metri d’altitudine erano stati schiacciati dall’emozione dell’incontro con don Migdonio nell’interno della sua magione. La provincia esultava. Il privilegio dello sconcertante evento medico, negato al cosmopolitismo, ricadeva su una umile sincera provincia peruviana. Il genio non sceglie unicamente le grandi nazioni per palesarsi.
Per colpa di un baio, per colpa di Lunanco, sono ai ferri corti col Giudice Montenegro. Doña Pepita Barda, la proprietaria di Huarautambo, si era sposata da poco col dottor Montenegro, quando i capoccia catturarono Lunanco. lo seguii le piste e arrivai alla fazenda: Lunanco stava nitrendo nel chiuso.
“Perché avete preso il mio cavallo?”
Il guardiano diventò rosso.
“Il dottore ha dato ordine di requisire tutti gli animali che danneggiano i suoi pascoli.”
“Non pascolava nella fazenda.”
“Io non so niente, don Héctor. Prova ad andare a parlare coi padroni.”
Me ne andai alla casa padronale e chiesi del dottor Montenegro. Mi fecero passare nel patio. Il dottor Montenegro era seduto su una poltrona e leggeva il giornale.
“Come stai, Chacón?”
“Io sto bene, dottore, ma Lunanco sta male.”
Il dottore corrugò la fronte.
“Chi è Lunanco?”
“Un mio cavallo chiuso nella sua stalla.”
“Avrà fatto qualche danno.”
“Non era sul suo pascolo, dottore. Era sul mio.”
Il Giudice mi guardò con occhi irritati.
“Io non so niente. L’unica cosa che so è che voi abusate dei miei pascoli.”
“Ma, dottore...”
Il Giudice si alzò in piedi.
“Niente, non voglio sapere niente! Vattene via di qui, cholo di merda!”
Me ne andai coi tizzoni nel cuore e partii per la provincia. Quello stesso giorno presentai il mio reclamo alla Sottoprefettura. Non mi diedero retta. “L’Autorità,” disse don Arquímedes Valerio, “non può risolvere problemi privati. Questa disputa è privata. Io non posso farci niente.”
Tornai a Huarautambo e mi si fermò il cuore: i capoccia avevano catturato anche gli altri cavalli che mi rimanevano. Alazán, Castaña, Canela, Rosada e la mia giumenta Huicharamay26 (si chiamava cosí perché piangeva quando si allontanava dagli altri animali), soffrivano nel chiuso. I capoccia non rilasciavano mai gli animali senza prima aver incassato i “danni”: cento soles al capo. Finché non si pagava la multa gli animali restavano senza bere né mangiare. In quel modo ne sono morti a dozzine!
Mi affidai al servo Palacín.
“Perché mi vuoi sfruttare, don Máximo? Cosa posso fare? Io sono un poveraccio.”
“Tu vuoi fare troppo il furbo, Chacón. Il dottore vuole darti una lezione.”
“Come farò a mettere insieme seicento soles?”
“Dato che sei tu, sono ottocento, Héctor.”
Io avevo soltanto dieci soles: comprai una bottiglia di acquavite e mi umiliai.
“Fa’ qualcosa per me, don Máximo.”
“Tu sei molto superbo, Chacón.”
“Serviti e perdonami, signor Palacín!”
“Non posso perdonarti. C’è ordine severo di stringere i freni.”
Supplicai e supplicai, mentre Palacín finiva di vuotare la mia bottiglia.
“Io non ho ottocento soles. Mai avuti in vita mia. E non li avrò mai.”
“Potrei accettare in cambio un cavallo.”
Cosa potevo fare? Invece di perderne sei, ne avrei salvati cinque.
“Quale cavallo vuoi?”
“Voglio quel baio,” e indicò Lunanco.
“Quello no, signor Palacín. A quello ormai gli voglio troppo bene. Non posso dartelo.”
Niente da fare: non riuscii a salvare Lunanco.
La Corte Superiore ratificò la sentenza del Giudice. Don Migdonio decise di fare un viaggio in provincia allo scopo di dimostrare la sua riconoscenza per “le gentilezze usate verso il sottoscritto.” Quando il dottor Montenegro venne a sapere per bocca di uno dei contadini de El Estribo che don Migdonio, unico maschio in grado di mettere incinte sette donne nello stesso giorno, stava movendosi verso Yanahuanca, prima di tutto ordinò che doña Pepita disponesse un’ecatombe di maiali, capretti e galline. Fatta eccezione per il senatore, uno scribacchino fortunato, nessun personaggio di tale importanza aveva mai nobilitato la provincia con la sua visita. Le mogli dei possidenti fecero man bassa di tutte le pomate che stavano inacidendo negli empori. Chi sarebbe stato invitato? Mentre il dottor Montenegro, piú assorto che mai nelle sue solitarie passeggiate, s’immergeva nella gravezza dei suoi pensieri, i notabili stavano sulle spine. Ma per una volta tanto furono soddisfatti: invitò tutti i concittadini presentabili.
Andarono ad accoglierlo ad una lega da Yanahuanca. Don Migdonio de la Torre y Covarrubias del Campo del Moral entrò nella cittadina verso sera: i suoi scopettoni fiammeggianti e la sua barba di rame fecero giungere al culmine l’esaltazione della folla che faceva ala al corteo. Attraversarono tra ovazioni imponenti le strade scopate dai prigionieri. Per ordine del sergente Cabrera, le guardie attendevano schierate marzialmente davanti alla caserma. Dall’alto del cavallo, l’ospite illustre individuò doña Pepita e tracciò da lontano una principesca scappellata; poi smontò e si prostrò a baciarle la mano. Il dottor Montenegro, a cui simili galanterie erano inusitate, tentennò sul calcio della pistola; il suo spirito venne travolto dalla medesima tormenta di sensazioni che, secondo quanto si afferma, sconvolse l’animo di un Generale Presidente della Repubblica il giorno in cui, da poco assunto al potere, un ambasciatore avvicinò le labbra alla mano paffuta della Prima Signora. Conoscendo la gelosia del dittatore, la Generalessa ritenne opportuno cadere in un deliquio diplomatico.
I festeggiamenti ebbero inizio quella sera stessa. Le autorità e i notabili, accuratamente lavati e pettinati, sfilarono nella casa del dottore (i cortili erano invasi dalle ceste ricolme di ‘regalini’ portati dai contadini di El Estribo). Tutti indossavano camicie nuove. Il Sottoprefetto, don Arquímedes Valerio, sfoggiava un vestito blu da cerimonia, riservato agli anniversari della Patria, e una cravatta rossa. Con l’andare degli anni quell’innocente estrosità sarebbe stata la sua rovina. Le vicissitudini del servizio lo avrebbero trasferito in un’altra provincia dove le lingue degli invidiosi si sarebbero incaricate di tacciarlo di estremista. Agli occhi di un Prefetto che non lo poteva soffrire – il Sottoprefetto non sarebbe stato in grado di organizzare un bordello nella provincia, inettitudine questa che non avrebbe consentito al suo superiore gerarchico di potersi vantare dell’esistenza di un postribolo in ogni circoscrizione – la cravatta rossa sarebbe stata la prova del suo comunismo dissennato; egli avrebbe perduto il posto e sarebbe morto nella piú nera dimenticanza. Incapace di antivedere le turbolenze del futuro, il Sottoprefetto si avvicinò tutto tronfio per salutare don Migdonio de la Torre y Covarrubias del Campo del Moral.
Il Giudice era giunto all’estremo di far spazzare tutta la casa e perfino di far irrorare il pavimento col petrolio, suscitando un puzzo che si accordava con l’odore pungente del sudore di matrone oppresse dal fasto delle acconciature. I mocciosi – in effetti ostentavano narici tappate da croste di moccio – soffocavano coi loro strilli i patetici conati musicali del cagnolino della Voce del Padrone.
Te han visto por Orrantía
andando en un cochazo;
será del blanquiñoso que ahora tenés.
Autorità e notabili sgambettavano sulla segatura cosparsa a piene mani per evitare che gli invitati scivolassero sul petrolio. Fu il piú stupefacente baccanale mai celebrato a Yanahuanca. Verso l’alba, quando ormai i notabili non sopportavano piú il peso delle gambe, don Arquímedes propose:
“Perché non facciamo una partitina a poker?”
“Ben volentieri,” accettò don Migdonio, che cominciava ad annoiarsi.
E, dato che le disgrazie non vengono mai sole, qualche settimana dopo il mio compare Polonio Cruz mi affidò i suoi cavalli. Per mia sfortuna tornai a distrarmi e i capoccia si portarono via di nuovo gli animali. Presentai reclamo, un’altra volta, a Huarautambo. Non mi diedero retta. I capoccia si rifecero dei “danni” con un cavallo del mio compare. “Il responsabile sei tu,” mi disse don Polonio, addolorato. Era vero: la colpa l’avevo io. Dovetti risarcire il mio compare con Alazán, un cavallo al quale don Polonio finí per affezionarsi.
Ma i guai non finirono li: per mettere insieme quattro soldi, seminai una terra abbandonata che si chiama Yanaceniza; seminai dieci sacchi. Scelsi bene il seme. Ci sono molte qualità di patate: la patata bruna, granulosa, incomparabile per la tavola; la patata gialla, particolarmente resistente; la patata shiri, la migliore per la fecola; la palata bianca, per gli usi di casa; scelsi amorosamente la semenza per la sua grossezza e i suoi bei colori. La terra mi ringraziò. La patata venne su una bellezza. Era una meraviglia vederla fiorire in aprile. E mi capitò una disgrazia: una notte un gregge di animali mi buttò all’aria tutto il seminato. Che sfortuna! La notte dopo gli stessi animali tornarono a invadere il mio podere. Cercai disperatamente di scacciarli a sassate. Non ci riuscii. Allora acciuffai un pastore.
“Perché lo fai?” gli domandai.
“Il dottore mi ha ordinato di cacciar qui gli animali,” abbassò la testa. “A noi dispiace quanto a te, don Héctor.”
Scesi disperato alla provincia e andai direttamente a casa del dottore. Il Giudice stava uscendo.
“Dottore, mi permette una parolina?”
Il dottore continuò a camminare.
“Si tratta di danni?”
“Si, dottore.”
Si fermò un attimo prima di continuare.
“Tu sei un attaccabrighe, Chacón. È la terza volta che mi disturbi. Non sai che non mi occupo di quelle cose? Va a parlare con la signora Pepita.”
Doña Pepita, la proprietaria, è una donna che si serve del suo sesso per infamare i cristiani; la sua bocca offende e puzza piú di quella di un ubriacone. Chiesi udienza. Niente da fare. Era nella sua soffitta a contare le argenterie, le lane. Aspettai tutta la mattina. Finalmente, verso mezzogiorno, venne giú. Entrò nel patio.
“Cristina, Cristina!” chiamò.
Vennero fuori due ragazze, correndo.
“Venite a scatricchiarmi.”
Le ragazze corsero a prendere due sedie. La signora Pepita si sedette su una e la ragazza sull’altra.
“Dimmi in fretta cosa vuoi. Non ho tempo,” mi disse la signora Pepita da sotto la massa di capelli che si era rovesciata sulla faccia.
La scatricchiatrice mi guardò con occhi bellissimi; la conoscevo fin da bambina: una volta le avevo regalato una trota, un’altra volta...
“Doña Pepita, i suoi animali stanno rovinando il mio campo di patate!”
“Chi ti ha detto che è il tuo campo di patate, cholo di merda?”
“Yanaceniza l’ho seminata io, signora.”
Sollevò la testa incollerita.
“E perché hai seminato li, imbecille?”
“È terra abbandonata. La comunità mi ha dato il permesso.”
“E chi è la comunità, per darti il permesso? Della comunità io me ne frego. In questa provincia non ci sono terre abbandonate. Tutta la terra è pascolo mio.”
“Come può essere pascolo suo? Nessuno semina in quelle terre fin dai tempi dei miei nonni.”
Sollevò di nuovo la capigliatura nera.
“Sono proprio contenta!” gridò. “Sono proprio contenta che le mie bestie entrino nel tuo podere! Tu sei un cholo impertinente, un indio di merda. Continua a comportarti cosí e vedrai cosa ti capita. Tu non vuoi intendere. Sei ostinato come un mulo.”
Prepararono la tavola. Don Migdonio de la Torre y Covarrubias del Campo del Moral, il dottor Francisco Montenegro, il Sottoprefetto Valerio e l’Alcalde, don Herón de los Ríos, si sedettero a giocare. Alla seconda mano il sonno si dileguò. Alla terza, il Cornuto suggerí al dottor Montenegro di fare un rilancio. Don Migdonio de la Torre y Covarrubias del Campo del Moral, che stava bluffando con una scala buca, s’indignò. S’imbaldanzirono gli spiriti e si elevarono le puntate a cinquemila soles, che intascò il dottore. I giocatori s’ingineprarono nel furore degli eventi. Non smisero fino alle otto della mattina. S’interruppero per gradire un brodino d’anatra. Don Migdonio gli trovò un sapore d’ortica: stava perdendo undicimila soles. Era cosí lesinino che per non perdere dieci soles di scommessa si prestava anche a scavare di notte, viola di paura, in un cimitero. Dopo aver proclamato che era-proprio-piacevole-intrattenersi-con-gli-amici, si rifiutò di porre termine alla partita. Schiacciarono un pisolino nelle loro stanze e alle undici ripresero a giocare. Rimasero attorno al tavolino tutto il pomeriggio, e la sera, che aggrava gli infermi, portò fortuna a don Migdonio. Quando li interruppero con le sontuosità di un fricandò di pollo al peperoncino, vera Cappella Sistina della cucina creola, il dottor Montenegro perdeva quattordicimila soles. Fu la volta del magistrato di dilungarsi sulla gioia di ospitare gli amici. Malediceva in cuor suo la pensata di don Arquímedes. Ripresero la partita, sopravvenne la sera e il Sottoprefetto gli apparve in tinte meno fosche; verso l’alba cambiò definitivamente opinione: una scala all’asso gli fece ammucchiare diciottomila soles. Quella volta l’elogio dei piaceri dell’amicizia spettò di nuovo a don Migdonio. Schiacciarono un pisolino e alle dodici ripresero la partita.
Giocarono per novanta giorni di seguito.
Mi morsi le mani per non rovinarmi.
Me ne andai. Il sole fulminava la piazza. Passarono dei bambini, correndo a piú non posso. Un cane dall’aspetto incazzato li inseguiva a una certa distanza. Poi i bambini fecero dietro front e il cane li imitò, scappando con la coda tra le gambe. E cosí ero anch’io: ero un cane che scappava tutte le volte che i padroni gli mostravano la faccia. Sentivo la bocca secca. Entrai nella bettola di don Glicerio Cisneros e chi ti vedo? Salomón Requis, il Messo Municipale di Yanacocha, e Abraham Carbajal, che stavano bevendosi un quartino. Come li vidi, gli piombai addosso.
“Tu come autorità non vali niente!” gridavo, mentre prendevo a pugni Salomón.
“Cosa ti prende, Chacón?”
“Tu vedi che commettono abusi e non fai rispettare!” Piangevo.
Requis si pulí il sangue dalla bocca.
“Hai ragione, Chacón! Noi non valiamo niente!”
“Beviti un bicchierino, fratello,” disse don Glicerio. “Offro io.”
“Carbajal ha ragione. Noi non valiamo niente. Il Giudice ci tiene sotto i piedi.”
“E tu perché non sequestri il bestiame di Montenegro, la prima volta che danneggiano il tuo podere?”
Nessuno aveva mai osato catturare gli animali della fazenda Huarautambo.
“Sequestrali e mettili nel chiuso! Poi ci penseremo noi autorità!”
Bevvi.
“Perdonami, signor Requis.”
“Salute, Chacón.”
Parlai coi miei vicini Santos Chacón e Esteban Herrera, che erano molto preoccupati per via degli sconfinamenti della fazenda. Ci preparammo a sorprendere gli animali. La notte dopo trovo quelle maledette bestie nel mio campo di patate e chiamo a gran voce Santos Chacón e Esteban Herrera. “Aiutatemi a portare questi animali nel chiuso,” li supplico. A furia di bastonate, riuscimmo a sequestrare quindici capi.
Li conducemmo nel chiuso della comunità, a Yanahuanca.
“Signor Messo Municipale,” dico a Requis, “è da otto giorni che questi animali buttano all’aria il mio campo di patate.”
“Presenta una denuncia per dimostrare i tuoi danni.”
“Le bestie le tenete voi?”
“Le teniamo noi finché il tuo danno non sarà risarcito.”
“Grazie, signor Messo.”
E in quella compaiono due guardie civili e mi puntano addosso le pistole. Requis impallidisce.
“Dove vai?”
“Ho condotto qui dei capi di bestiame per giustificare il mio danno, signore.”
“C’è una denuncia contro di te. Hai rubato questi capi di bestiame, che sono del dottor Montenegro.”
Mi volsi per chiamare i testimoni. Erano spariti. “Sono animali che hanno fatto danno, sono animali che...”
“Tu hai rubato quelle bestie. Accompagnaci. Anche lei, Requis.”
“Io non so niente,” balbetta Requis. “È stato lui a condurre qui il bestiame. Io non so niente.”
“Va bene. Consegna le bestie ai pastori della fattoria e vattene.”
“Grazie, signori,” si arrende Requis.
Mi tennero dentro sette giorni. Il martedí dopo mi fecero uscire e mi portarono a casa del dottor Montenegro.
“Va bene,” disse il dottore. “Ritiratevi.”
Le guardie salutarono.
“Chacón,” mi disse, “tu sei molto furbo. Tu non tolleri niente. Perché hai sequestrato i miei animali?”
“Perché ha rovinato il mio campo di patate, dottore?”
Il dottore mi puntò contro l’indice:
“Per questa volta ti perdono, ma la prossima ti lascio in prigione sette mesi! Mi senti, merda?”
“Perché ha rovinato il mio campo di patate? Di che cosa vivrò? Cosa mangerò?”
“Arrangiati un po’ tu. Cerca altri posti. Yanaceniza è mia.”
Salii a Yanacocha. Don Abraham Carbajal si meravigliò di vedermi in libertà.
“Come hai fatto a venir fuori, Héctor?”
“Con le gambe, don Abraham.”
Mio padre mi abbraccia e guarda le autorità.
“Voi autorità non valete un bel niente,” dice il mio vecchio, e sputa.
“Il Giudice è autorità superiore,” si rattrista Carbajal.
“Valete meno dello sterco dei cavalli,” ripete il mio vecchio.
“Il Giudice,” Requis è addolorato, “ci mette poco a cacciarci tutti in prigione. Non si può fare niente. La forza è la forza.”
“Senti, Messo,” gli dico, “Montenegro mi ha avvertito che non posso seminare a Yanaceniza. Se insisto mi condannerà alla prigione a vita. Dove vado a vivere?”
“La comunità ti darà un altro podere per campare, Héctor. Ti assegneremo un’altura verso Quinche.”
“Andiamo!” dice il mio vecchio.
Strada facendo chiesi al mio vecchietto: “Da dove sono venuti fuori i fazenderos, papà?”
Il mio vecchio continuò a camminare.
“Da dove sono arrivati?”
Ci fermammo.
“Perché ci sono i padroni? Perché c’è un padrone a Huarautambo, papà?”
Il mio vecchio si sedette su una pietra della strada e mi rispose.
Doña Pepita seguiva la gara, un po’ scandalizzata. Né il dottore né il fazendero si rassegnavano a perdere. Si smarrirono nei labirinti delle scale reali. Si alzavano dal tavolo solo per andare a lavarsi o a dormire, perché, quanto a mangiare, mangiavano nella stessa sala, patinata dal fumo di generazioni di sigarette. L’assenza dei suoi piú eccelsi funzionari fece illanguidire la provincia. Telegrammi e pratiche ammuffivano sulle scrivanie. Quindici giorni dopo l’inizio della partita, un po’ spaventato dalle dimensioni della sfida, lo scrivano Santiago Pasión osò cacciare la testa nel fumo della stanza.
“Cosa succede, amico Santiago?” domandò di buonumore il dottor Montenegro: stava guadagnando ventiquattromila soles.
“Mille scuse, signori, mille scuse,” balbettò lo scrivano.
“Parli pure senza complimenti, don Santiago,” lo incoraggiò il dottore.
“Di chi si tratta?”
“È un ladro di galline.”
“Non vorrà forse interrompere la partita, vero?” s’inquietò don Migdonio de la Torre y Covarrubias del Campo del Moral.
“Perché non lo giudicano qui?” suggerí Arutingo.
Don Migdonio sospirò di sollievo. Cinque minuti dopo, Egmidio Loro, accusato del furto di quattro galline, comparve nel patio.
E dovette ringraziare la sua buona sorte se quando lo giudicarono le carte favorivano il Giudice.
“Sei colpevole o innocente?” domandò il Giudice, scartabellando la pratica.
“Come lei desidera, dottore.”
Il dottore sghignazzò.
“Da quanto tempo sei dentro?”
“Da otto mesi, dottore.”
“Libero,” sentenziò il magistrato.
Cosí si abituarono a risolvere i problemi, nel patio, tra le pause intermittenti del gioco. Incoraggiati dalla fortuna di Loro, anche altri rei sollecitarono il processo. Non a tutti andò bene. Parecchi comparvero quando le carte voltavano le spalle al dottor Montenegro: Marcos Torres, accusato del furto di un sacco di alfalfa, si aspettava di scontare il crimine con sei mesi di carcere che aveva già fatto; gliene appiopparono altri tre. “Neanche fossi incinto!” mormorò, se ne beccò ancora sei. Ma non tutte le attività della provincia potevano essere risolte nel patio. Fu necessario sospendere il ballo che il “Club Undici Amici di Yanahuanca” aveva organizzato per acquistare le uniformi della squadra di calcio.
Quella sera comunicai a Sulpicia, Añada e a Santos Chacón:
“Montenegro ci ordina di abbandonare Yanaceniza.”
“Perché dovremmo abbandonare una terra graffiata con le nostre stesse unghie?” si lamentò Sulpicia.
“Perché dovremmo andarcene?” si ribellò Santos Chacón.
“Moriremo sulla nostra terra,” decise Sulpicia.
“Non andartene, Héctor! Se tu abbandoni il podere, non rimarrà piú nessuno a proteggerci,” disse la signora Añada.
“Io sono disposto a resistere fino alla mia morte,” disse don Esteban.
E cosí decidemmo di lottare. Facevamo la guardia di notte e dormivamo di giorno, a turni. Sulpicia, doña Añada, Santos Chacón, don Esteban e io morivamo di sonno piuttosto che lasciare incustodito il campo di patate. In quel modo, vigilando notte e giorno, riuscimmo a salvare il seminato. Un giorno tirammo su qualche pianta, tanto per provare. Che meraviglia! In una sola pianta contammo fino a centoventi patate. Centoventi! I capoccia guardavano il campione con invidia.
“Che belle patate ha Chacón!” ruffianavano al dottor Montenegro. “Che magnifiche patate sanno dare quei posti!”
Lui disse:
“Quei posti dobbiamo sfruttarli noi. Fate in modo di mandar via Chacón.”
Una sera, mentre Sulpicia si era arresa alla stanchezza, una banda di capoccia ben insellati notificò alla gente:
“Queste patate, dalla prima all’ultima, se le immagazzinerà Huarautambo!”
“Questo campo di patate appartiene a Héctor Chacón,” riuscí a dire don Esteban Herrera prima che gli attraversassero la faccia con una frustata.
La signora Sulpicia si svegliò.
“Sarà difficile che don Héctor possa lasciarsi prendere le sue patate. Morirà sul suo campo. E non ci morirà soltanto lui!”
“Chacón è un bel niente, non c’entra nulla,” disse il servo Palacín.
Mi seppe d’amaro.
“La gente riderà di noi,” si lamentò Sulpicia. “Se ci strappassimo un capello per ogni abuso, ci rimarrebbero capelli?”
Quel giorno tirammo le somme dei suoi sconfinamenti, dei suoi soprusi, della sua tirannia.
“Vedremo se Montenegro è l’unico uomo di questa provincia!” dissi.
“Non cacciarti nei guai, Héctor,” disse Sulpicia guardandomi.
Non risposi. Montai sul mio cavallo e andai a Huanautambo. Il servo Palacín mi fissò meravigliato. Non mi domandò nemmeno perché avevo attraversato il ponte senza permesso.
“Mi scusi il disturbo, signor Palacín. Ho sentito che lei è andato a Yanaceniza a notificare che la fazenda immagazzinerà le mie patate.”
“Si, è vero, Héctor. Il dottor Montenegro ci ha ordinato di fare la raccolta.”
“Io voglio che tutti quelli di Huarautambo vengano a raccogliere le mie patate!” gridai.
“Chacón, per favore, non gridare. Vuoi comprometterti?”
Il signor Palacín, uomo dal polso duro coi cavalli, tremava vedendo l’ombra di Montenegro.
“Voglio che vengano tutti quelli della fazenda a insaccare le mie patate!”
Il signor Palacín si sentiva male.
“Chacón, Chacón, sta’ attento che non ti senta la signora! Sta contando le sue posate!”
“Vorrei che veniste tutti con le vostre bestie, a calpestare le mie piante!”
“Chacón, fammi il favore, vuoi che il dottore ti senta?”
Io caracollavo sul mio cavallo, nel patio, gridando. “Vorrei che venissero tutti a Yaneceniza, e subito, per imparare a conoscermi. Venite! Cosí saprete chi è Chacón! Voi raccoglierete le mie patate quando io sarò morto. Voglio che tutti vengano subito!”
Me ne andai, pazzo di lacrime. Sul pendio, vicino a Yanahuanca, trovai don Procopio Chacón e don Néstor Leandro. Mi avvicinai a Procopio e gli dissi: “Nipote, ormai mancano pochi giorni alla lotta per la vita o per la morte”
“Cosa succede, zietto?” domandò Procopio.
“Manca poco per farla finita quando verranno a prendere le mie patate. Gli farò vedere io, a quei cornuti. Voi siete la mia famiglia, ma dovrò procedere lo stesso.”
“Non scaldarti, Héctor. Queste spacconate lasciale ai capoccia; noi siamo poveri.”
“Siete poveri adesso, coglioni!”
“Noi non vogliamo cacciarci nei guai. Anche noi dobbiamo riempirci la bocca.”
Il mese di giugno portò attorno la nuova: “Huarautambo si prenderà le patate di Chacón.” Io non dormivo. Ignacia e io fissavamo il tetto della capanna.
“Cos’hai? Perché non dormi?”
“Ho sete.”
“Ignacia, hai paura?”
“Ho sete.”
“Ignacia, il giorno che si prenderanno le nostre patate, cosa ne sarà dei nostri figli?”
“Perché hai seminato Yanaceniza?”
“È terreno della comunità, libero.”
“Prima non mangiavamo molto, ma qualcosa mangiavamo. Quelli hanno la loro giustizia,” singhiozzò, “loro fanno quello che vogliono.”
“Per niente abbiamo lavorato: non raccoglieremo e la gente riderà.”
“Piú che altro mi dispiace per la signora Sulpicia.”
E decisi di comprarmi un fucile. Io non avevo il becco di un centesimo, e cosí scesi per andare a parlare col signor Rivas. Un giorno lo fermai per la strada.
“Signor Rivas, voglio parlarti a proposito di uno schioppo.”
“Perché vuoi uno schioppo?”
“Per cacciare cervi.”
Il signor Rivas mi misurò col metro della sua esperienza.
“Sei smagrito, Chacón.”
“Sai che la. fazenda Huarautambo vuole prendersi le mie patate?”
“È un abuso che mi dà rabbia. Perché? Che diritto hanno? Tutti dobbiamo aiutarti.”
“Se voi mi aiutate, la giustizia vi accuserà. Meglio che mi arrangi da solo. Ho bisogno della tua arma. La mia carabina è a palla e può ammazzarne uno solo per volta; lo schioppo sparge la morte.”
“Va bene, ti affitterò uno schioppo.”
“E cartucce? Me ne puoi vendere?”
“Sono care.”
“Ti darò un montone. Ti piacerà. Ti farà razza.”
“D’accordo, venticinque cartucce per un montone.”
“Ti darò un animale competente, un animale a cui finirai per affezionarti.”
Quella stessa mattina salii a Yanaceniza con lo schioppo. Quando tornarono i capoccia, io ammazzai davanti ai loro occhi un uccello. “Cosí morirete, cornuti!” e accarezzai il bellissimo schioppo. “Questo signorino vi succhierà il sangue.”
In conclusione, non vennero a raccogliere. E cosí capii che i vigliacchi non hanno terra. Le patate fiorirono, meravigliose; patate per due anni. E contrattai quaranta uomini per la raccolta.
Finché una sera vidi venire avanti il servo Palacín con trenta uomini a cavallo. Scorsi il polverone e compresi che mi si stava cambiando la sorte.
Il servo Palacín guardò l’estensione dei miei anni.
“Chacón, c’è stato un furto di cavalli su queste alture! Dovresti saperne qualcosa. Te ne vieni con noi.”
E mi arrestarono.
Non osarono offendere le autorità. E venne sospeso anche un tè organizzato da doña Josefina de la Torre. Tre casali speravano di far festa in quel mese in occasione rispettivamente dell’inaugurazione di una fontana, di uno steccato e dell’asta per la bandiera: rimisero via i vestiti buoni. Ma chi ci rimise di piú furono i detenuti in attesa di giudizio. Poco prima che s’iniziasse la partita, il sergente Cabrera aveva fatto pitturare segnali di transito su tutte le cantonate. Un giorno Yanahuanca si svegliò costellata di frecce bianche. Era un capriccio dettato da una delle sbornie del sergente. La gente ignorava perfino il significato della parola “transito,” ma il sergente, che aveva ordinato quella trasformazione tra i fumi dell’acquavite, non ebbe altro rimedio che rispettare le sue stesse disposizioni: ventitré poveri diavoli furono condotti al corpo di guardia prima ancora che si potessero annullare quelle stravaganze. Il Sottoprefetto non poté giudicarli. “È evidentemente impossibile,” disse Arutingo, “riempire il patio di pidocchiosi.” Rimasero in prigione per tutto il tempo che durò la tenzone. Novanta giorni dopo, un chingolo27 nero, modesta imitazione creola della colomba che annunciò a Noè la fine della collera divina, si posò sulla finestra dove stavano invecchiando i giocatori.
“È dicembre,” disse don Migdonio. “Ben presto non si potrà piú transitare sulle strade.”
“Stanno per arrivare le piogge,” concesse il dottore.
“Stando cosí le cose, sarà meglio chiudere,” sospirò don Migdonio, rassegnato a perdere quattrocento soles.