17. Dei patimenti del Niño Remigio.
L’Abigeo in persona attraversò la piazza di Yanahuanca alle sei di mattina tirandosi dietro un magnifico baio. Era diretto verso la panetteria dove dormiva il Niño Remigio. Non dormiva, il Niño Remigio: aspettava vestito. L’Abigeo arrivò tenendo per le redini Tordillo e tornò ad attraversare la piazza con Remigio. Il Niño indossava una camicia di flanella rossa e portava un fazzoletto arancione e il cappello dell’Abigeo. I mattinieri si stropicciarono gli occhi. Che l’altero Abigeo scendesse da Yanacocha per condurre un cavallo – il migliore destriero dopo l’alato Triunfante, che in quel momento stavano sellando per il Nittalope! – alla insignificante persona del Niño Remigio, sembrava opera di stregoneria. I cavalieri attraversarono boriosamente la piazza. La Niña Consuelo usciva da messa. La donzella non resistette allo splendore della visione e spalancò la bocca. Lo sprezzante gobbo non la degnò di un’occhiata. Erano ormai dieci anni che la Niña Consuelo se ne infischiava del Niño Remigio. L’oggetto della passione che torturava l’anima dello storpio era una nana dagli occhi arrossati e sporgenti, un corpo asservito da un ventre enorme e da un testone chiomato da una capigliatura forforosa. Di bello aveva solo i tizzoni dei suoi occhi infiammati dall’odio per i gatti e dal disprezzo per il Niño Remigio. I gatti li lavava nell’acqua bollente e il Niño Remigio lo insultava pubblicamente. Perché mai Remigio la idolatrava? Se la Niña Consuelo, imbellettata dagli angeli, coi capelli pettinati dalla mano del Creatore in persona, fosse comparsa dinanzi a tutte le generazioni e il Signore avesse domandato: “Chi vuole per moglie questa donzella?” gli stessi dannati avrebbero voltato le spalle. Ma il destino, che si compiace di burlarsi dei cristiani, dispose che l’unico uomo in grado di covare una passione per la Niña Consuelo vivesse nel suo stesso secolo, nella sua stessa nazione e perfino nel suo stesso villaggio. La Niña Consuelo non ne provava alcuna riconoscenza. Se qualcuno, per darle fastidio, le diceva: “Il tuo fidanzato ti aspetta sull’angolo” la dulcinea schizzava saette d’odio, “Un giorno o l’altro acciufferò quello zoppo e lo farò annegare nel fiume!” e amaramente prediceva che a Remigio “la gobba sarebbe presto marcita.” Le male lingue mormoravano di averli sorpresi aggrovigliati tra i cespugli del fiume. Ciò poteva forse spiegare l’odio infermiccio della Niña Consuelo e la fedeltà di cane del Niño Remigio? Passo passo, godendo dei finimenti d’argento, il gobbo si avviò verso l’ultima mattinata della sua vita, su un cavallo riservato ai sottoprefetti. Trentanove ore prima, su quella stessa cantonata, il Niño Remigio aveva osato offrire un mazzetto di campanule alla Niña Consuelo. Remigio le si era avvicinato col sorriso mansueto che gli procurava la simpatia dei bottegai piú taccagni (gli regalavano i biscotti rotti) e porse, cercò di porgere, i fiori innocenti. La Niña Consuelo gli sputò in bocca.
“Lama, vigogna!” rispose il pallore dell’ingiuriato.
Nella sua disperazione, il Niño Remigio calunniava. Le vigogne, misteriose esalazioni della delicatezza, sputavano sí, ma camminavano con un’eleganza che la vergine non avrebbe mai potuto uguagliare. La Niña Consuelo sbavò di stupore. Senza abbassarsi a guardarla, il cavaliere fece caracollare Tordillo avanti e indietro. L’Abigeo si fermò ad ammirarlo; troppo tardi la Niña Consuelo puntò lo sguardo sul cavaliere inflessibile.
A Yanacocha, il Personero entrava nella casa di Héctor Chacón, il Negletto. La notte o sua moglie gli aveva portato consiglio.
“Sei pronto, Héctor?”
Chacón sollevò le braccia.
“Oggi mi macchierò le mani del sangue di un prepotente.”
Il Personero si grattò la testa; le sue dita insistettero, a lungo, sulla puntura di un pidocchio.
“Héctor, l’ispettore ha una pulce in un orecchio.”
Volsero le facce nello stesso istante.
“Come lo sai?”
“Questa mattina sono andato a salutarlo nella sua stanza. Mi ha ricevuto mentre faceva colazione. ‘Senti un po’,’ mi ha avvertito, tutto serio. ‘Ti avviso che alla comparizione andremo soltanto noi autorità.’ ‘Ma, signore, la comunità è stata avvisata.’ ‘Balle! Se insisti, io non ci vengo.’”
“Ha detto proprio cosí?”
Il Personero era imbarazzato.
“Ha detto anche dell’altro.”
“Cosa?”
“Ha detto: ‘Tra le cinque persone che mi accompagneranno, non voglio vedere, per nessuna ragione, quell’Héctor Chacón.’”
“Ma se l’ispettore non mi conosce!”
“Ha sentito parlare di te.”
“Sarà stato un figlio di puttana a fare la spia.”
“Nessuno ha parlato.”
“Voi, con la vostra paura, è come se l’aveste scritto in faccia.”
Il Personero sudava.
“Héctor, Bustillos ci consiglia di non commettere quel delitto. Lui è stato autorità per molti anni. Lui conosce la giustizia. Noi siamo troppo a terra, Héctor.”
Approfittando di un attimo di distrazione del Personero, l’Abigeo strizzò l’occhio al Nittalope.
“Non commettere quel delitto,” supplicò il Personero. “Non macchiarti.”
“E allora, perché mai mi sono preparato? Sono forse un burattino?”
“Non commettere quell’assassinio.”
“Non è assassinio. È giustizia.”
“Tu solo non ce la farai.”
“Va bene,” si rassegnò Chacón, piú deciso che mai.
“Sei armato?”
“Perquisiscimi, sei vuoi.”
Udirono la terza scampanata.
“Andiamo,” disse l’Abigeo. “È tardi.”
Montarono sui loro cavalli. La piazza di Yanacocha era gonfia di cavalieri. Il rione Rabí e il rione Tambo aspettavano dietro le loro bandiere. Irreggimentate alle spalle di Sulpicia c’erano tutte le donne: le sposate, dietro una bandiera rossa; le nubili, dietro una bandiera gialla; le vedove, dietro una bandiera nera.
Sulpicia scorse Chacón e si avvicinò a Triunfante. Gli incaricati del chiuso, che come tutti gli yanacochani sapevano che l’anima di Chacón ribolliva, gli avevano scelto Triunfante, il miglior cavallo della comunità.
“Che Gesucristo Incoronato ti accompagni!” disse la vecchia. “Che Gesucristo, il Protettore, vegli su di te. Che il Signore guidi la tua mano, paparino!”
Il viso annuvolato di Chacón non cedette.
“Sai che l’ispettore ha proibito alla comunità di accompagnarlo?”
Sulpicia invecchiò.
“Lo dice chi?”
“Lo dice lo stesso Personero.”
“Andranno solo le autorità,” confermò, confuso, il Personero. Nel suo sguardo illanguidiva la paura e l’imbarazzo.
“La terra non è di uno solo,” disse Sulpicia. “È di tutti e andremo tutti. Montenegro vuole poca gente per poterla mortificare.”
Ignorando il Personero, si volse.
“Cosa facciamo, Héctor?”
“Ci andremo in ogni modo, mammetta. Le autorità accompagneranno l’ispettore, ma voi ci seguirete di nascosto.”
“Portate bastoni e fionde,” raccomandò l’Abigeo.
“L’Abigeo e il Ladro di Cavalli mi accompagneranno. Tu, Sulpicia, rimani in testa alla comunità. Ci seguirete per la scorciatoia. Ci raggiungerete a Parnamachay. Io accompagnerò le autorità, ma mi volterò per avvisarvi. Se alzo la mano e agito un fazzoletto, venite di corsa.”
Partirono. Le trombe e i tamburi inutilmente noleggiati sfilarono in silenzio verso Huarautambo. Le autorità aspettarono che la comunità sparisse dietro la curva e si diressero verso l’alloggio dell’ispettore Galarza. L’Ispettore, ristorato da una notte di sonno, si scaldava al sole nel patio.
“Buon giorno, signor Ispettore,” lo salutò il Personero. “Ha dormito bene?”
“Benissimo, benissimo,” rispose l’uomo dalla faccia rossa.
“Andava bene la colazione?”
Melecio de la Vega fece avvicinare un superbo roano insellato con finimenti huancavelicani.24
“Ottimo animale!” elogiò l’ispettore e si rivolse al Personero. “Siamo d’accordo, allora. Se viene la gente, io rimango qui.”
“Perché, signor Ispettore?” domandò Chacón con un tono di voce cosí rispettoso che Galarza non poté fare a meno di rispondere.
“È parecchi anni che faccio questo mestiere e ho una certa esperienza. Di comparizioni ne ho viste un’infinità. Quando c’è troppa gente non si combina un bel nulla.”
“Ma la terra è di tutti,” insistette la voce vellutata di Chacón.
Passarono tra le ultime case. Il mattino s’inargentava sugli eucalipti.