21. Dove, senz’altra spesa, il volonteroso lettore vedrà impallidire il dottor Montenegro.
Fiducioso di poter ancora disporre di migliaia di ore per scegliere tra migliaia di pesche duracine, la mano grassoccia del dottor Montenegro palpò uno dei frutti. La manina dalle dita corte si soffermò sulla pelle rosea della pesca. A tre leghe dall’alzata davanti alla quale il magistrato esitava ancora, l’ispettore Galarza e le autorità della comunità di Yanacocha superarono il colle Parnamachay. Héctor Chacón trattenne Triunfante. Sulla stessa balza di roccia rossiccia, venti anni addietro un altro Triunfante aveva affondato il muso in una pozza d’acqua. Triunfante non riuscí a bere. Chacón affondò gli speroni. Triunfante discese tra un rovinio di sassi. Alla distanza di un chilometro la comunità avanzava coi suoi tamburi silenziosi. Il Nittalope sventolò un fazzoletto. Sulpicia rispose agitando una scolorita bandiera peruviana. La dolcezza penetrante della pesca non convinse il dottore, sazio della colazione. Il dottor Montenegro guardò le lancette del Longines. Erano le undici e quarantadue minuti dell’ultima mattina della sua vita. Il bailamme dei cani lacerò la lontananza. Il dottore si alzò e varcò la porta della stanza da letto. L’Ispettore Galarza si commosse davanti alle sette cascate d’acqua del fiume Huarautambo.
“Che meraviglia! Questa terra è veramente benedetta,” e si fermò estasiato sulla roccia bianca e nera dove vent’anni prima Arutingo lo spetazzone aveva raccontato le tortuose vicende accadute il giorno in cui la Culoelettrico aveva regalato una vespa alla Naticapronta. L’Ispettore Galarza ammirò la baldanza delle sette cataratte. Si volse e gli si rannuvolò il viso: scorse a mezzo chilometro di distanza la processione della comunità.
“Voi non ubbidite,” si amareggiò.
I dirigenti di Yanacocha curvarono la testa.
“Ci scusi, signor Ispettore,” disse il Personero. “Sono casali dell’altra valle. Erano citati da sette giorni,” si tolse il cappello, “non c’è stato il tempo di annullare l’ordine.”
Il signor Galarza non volle indugiare su ciò che riteneva una sfacciata panzana.
“Andiamo avanti,” sospirò.
Il Chuto Ildefonso avvicinò servilmente la sedia a dondolo. Il dottor Montenegro si sedette a prendere il sole. Si avvicinarono i capoccia leccapiedi. Sulpicia sollevò il piede per scrutare la puntura di una spina. Un cavaliere che avvampava nella fiammata di una camicia rossa emerse dalla scorciatoia.
“Ecco il Niño Remigio!” disse Sulpicia facendosi il segno della croce.
“È necessario,” disse il giudice Montenegro scostando appena le labbra macchiate dalla maleducazione della pesca succosa, “dare una lezione una volta per sempre a quei pidocchiosi. Quegli yanacochani capiscono solo le bastonate.” La voce si fece dura. “Oggi impareranno chi è Montenegro. È da un pezzo che su queste alture si verificano furti di bestiame. Le autorità di Yanacocha sono abigei. Oggi finiranno in prigione o non mi chiamo Montenegro.”
Per ingraziarsi l’ispettore Galarza, il Personero si affrettò a levargli dinanzi un cespuglio spinoso. La fazenda Huarautambo emerse dalle rocce della strada. Un cavallo sudato stava uscendo da una gola ignota a tutti e galoppava ventre a terra verso le scuderie. Un vestito giallo, opaco di sudore sotto le ascelle, balzò di sella. Lala Cabieses attraversò i corridoi ed entrò ansimante nel patio lastricato dove il dottor Montenegro si riconfortava.
“Dottore, dottore!”
Il vestito nero si volse. Lala Cabieses gridava senza fiato. Nel volto alterato del vestito giallo che avanzava agitando un foglio stretto nella mano, il vestito nero riconobbe il colore della gravità.
“Legga, dottore, legga!” disse Lala Cabieses, tendendogli un foglio.
Il magistrato riconobbe allora il potere della letteratura. Poche parole tracciate da uno scrittore che non poteva nemmeno vantarsi di avere una bella scrittura o una corretta ortografia (non si capiva la parola “fuggi” da cui erano state soppresse le due g, certo in una salomonica decisione derivata dall’incertezza se metterne una o due); poche linee scarabocchiate da un artista che probabilmente non avrebbe mai dato lustro alla sua provincia, lo commossero fino al pallore.
“Cosa succede, don Paco?” si stupí Arutingo.
La processione scorgeva già gli alberi della fazenda. I cani mordevano il benvenuto. La folla attraversò un bosco castigato dai denti di un inverno prematuro.
“Héctor!” gridò Fidel, e porse un sacchetto sudicio a Chacón. I suoi occhi erano due braci. Gli occhi del Niño Remigio scaldarono da lontano la mano dell’uomo che si proponeva di causargli la morte.
“Héctor!” ripeté rauco Fidel. “Spero che ti vada bene!”
Si assieparono i cavalieri, si mescolarono le cavalcature affaticate.
“Voi incaricatevi dei fucili delle guardie civili,” disse Chacón, leggermente pallido. “Fate in modo che non sparino.”
Melecio de la Vega guardò la testa di Héctor Chacón doppiamente arroventata dal fuoco del mezzogiorno e da quello della sua collera, e il cuore gli tremò. “Non mi dimenticherò mai di Chacón,” pensò.
“Cosa succede? Perché non andate avanti?” domandò l’ispettore pungolato dai presentimenti. Nei volti disabitati, nella pietraia del silenzio, dove erano ospitati soltanto nitriti e latrati, stava scoprendo un malessere.
“Il ponte è chiuso,” disse l’Abigeo. Nove notti prima aveva sognato di un ponte scricchiolante di morti. Seduti in strane posizioni o abbiosciati, i cadaveri guardavano il cielo con gli occhi vuoti. Trattenne il cavallo meno sudato delle sue mani.
“Chi ha la chiave?” insistette l’ispettore.
“Il dottor Montenegro ha dato ordine di chiudere il portone. Non si può passare,” disse la voce rispettosa del Chuto da dietro il battente.
“Scostatevi! Toglietevi dal ponte!”
La voce del Nittalope sciolse un volo di invisibili civette. L’Ispettore Galarza fece per ribattere, ma si scontrò con gli occhi del Nittalope e indietreggiò lasciando il ponte vuoto.
“Scostatevi!” ripeté Chacón e costrinse Triunfante a rinculare. Poi si slanciò contro il portone che sbarrava il ponte. La porta fremette. Per tre volte Chacón costrinse Triunfante a forzarla con l’impeto del suo petto. Il portone cedette e si rovesciò. Triunfante saltò sul legno scardinato e si lanciò al galoppo lungo la stradicciola. Gli uomini lo seguirono. Vent’anni prima, Juan il Sordo aveva insultato in quel luogo la fatalità. La comunità si vestí del bianco della polvere. Héctor Chacón penetrò nella piazza di Huarautambo. Nella piazza calva, tra erbacce anemiche, scorse un uomo solo, Julio Carbajal, il maestro di Huarautambo.
“Dov’è il dottore?” domandò Chacón, illuminato dal sospetto.
“Se n’è andato verso la cordigliera.”
“Non sapeva che oggi c’era comparizione?”
“Aspettavano.”
“E allora?”
“Mezz’ora fa è arrivata Lala Cabieses.”
“Da dove?”
“Dalla gola segreta.”
“E poi?”
“Aveva in mano un foglio. Il dottore ha letto il messaggio e se n’è andato subito verso la cordigliera.”
“E le guardie?”
“Se ne sono andate con lui.”
“Perché scappa, se è stato citato?” domandò l’Abigeo. Tre notti prima aveva sognato che udendo il nome di Chacón il dottor Montenegro impallidiva. Non ci aveva creduto. Il suo cervello, esperto nel fiuto dei sogni, si rifiutava di pensare che il dottor Montenegro potesse aver paura di un semplice essere umano.
“Inseguitelo!” gridò l’ispettore Galarza, risentito.
“Rivera, Reques, Mantilla!” ordinò il Personero.
I cavalieri fecero lampeggiare gli sproni. Non riuscirono a raggiungere il dottore. Tornarono un’ora dopo, coi cavalli canuti di schiuma.