EPILOGO
Era una splendida e fredda giornata di novembre. Il cielo era di un blu brillante, con mulinelli di nuvole che ricordavano la spuma del mare.
Guidai lungo il vialetto di ghiaia e parcheggiai davanti all’edificio. Alla luce del sole appariva meno severo di quello che avevo immaginato: si estendeva formando un semicerchio, circondato dal verde. Su un lato sorgeva un cedro, e una fontana mi ricordava la fotografia, quella in Plaza de España.
Una donna passeggiava sul prato, a braccetto con un signore anziano. Li guardai, fantasticando che fosse Edward Lily. E pensai a te, Gabriella. E desiderai che tu fossi lì con me.
David avrebbe voluto accompagnarmi, ma avevo rifiutato. Avevo noleggiato una macchina ed ero andata fin là da sola. Era una faccenda troppo personale per condividerla con lui. Se le cose fossero andate bene, forse... Lasciai galoppare la mia immaginazione. Presto avrei avuto più tempo. Avrei venduto la Casa di Flores. Si era fatto avanti un compratore. Ne ero felice. Avrei rinunciato alla mia vita ad Atene per concentrarmi sulla scrittura, e grazie ai soldi di mia madre avrei potuto aprire un negozio di articoli da regalo. David mi aveva detto che anche per lui era arrivato il momento di guardare avanti. Aveva accennato al fatto di passare del tempo insieme. Era possibile. Ora tutto era possibile. Rita era stata felice delle notizie.
Salii i gradini, stringendo forte la borsa. L’atrio era silenzioso. C’era il bancone della reception, e poi poltroncine e tavolini bassi con riviste e libri. Un gatto passeggiava sul tappeto. Una signora sonnecchiava su una sedia. Portava un vestito a fiori e un cardigan, i capelli chiari raccolti in una crocchia, e quando il gatto le saltò in grembo si svegliò, ridendo felice. Sorrisi, pensando a Jasper.
Una voce mi chiamò dal banco. «Posso aiutarla, signora?»
«Sì», dissi. «Sto cercando Lydia. Ho chiamato qualche giorno fa. Sono una parente.»
Quelle parole suonavano strane, in bocca a me. Mi aspettavo che lo pensasse anche quella persona, che mi facesse delle domande, che mi chiedesse qualche genere di prova, ma lei si limitò ad annuire e mi porse una penna dorata. «Firmi qui, per favore. Poi l’accompagno.»
Firmai e la seguii lungo un corridoio. «Sapeva che sarei venuta?»
«Sì, certamente. Avvisiamo sempre i nostri ospiti in anticipo. Diamo loro la possibilità di rifiutare, non tutti vogliono essere disturbati.»
«Le ha detto il mio nome?»
Mi guardò dritto negli occhi, per la prima volta. «Sì, anche se non sono sicura che abbia pienamente registrato la cosa.»
«Immagino che non sia nemmeno abituata a ricevere molte visite.»
«Al contrario», fece la donna. «Viene sua zia, e veniva suo padre. E anche la sua amica.»
Sentii un tuffo al cuore. «Amica?»
«Esther.» Mi rivolse un’occhiata curiosa. «Esther Flores. Immaginavo fosse una sua parente.»
Nostra madre era andata a trovare Lydia. La cosa non doveva sorprendermi. Rita mi aveva detto che lei e Edward avevano fatto pace. Chissà come doveva essersi sentita tradita, la mamma, quando Edward era venuto a cercarti, Gabriella. Quando ti aveva detto la verità. Tuttavia l’aveva perdonato. Veniva a fare visita alla sua altra figlia, Lydia. Che fosse la sua penitenza per aver negato a una bambina il suo vero padre? O era perché sapeva che era l’unica possibilità per riavvicinarsi in qualche modo a Gabriella?
«Quando è stata qui l’ultima volta?» chiesi, evitando ogni spiegazione.
«In tarda estate. Me lo ricordo bene: una splendida giornata di sole. Si sono sedute fuori, vedrà dove. Lydia è lì, ora.»
Per un istante, mi sentii di nuovo arrabbiata. Perché mia mamma non si era fidata a dirmi nulla di tutto questo? La mia rabbia si gonfiò e poi diminuì fino a svanire. La sua generazione. Avevano il diritto di avere dei segreti. Anche se, giurai in quel momento, non ne avrei mai avuti di miei.
In giardino mi guardai attorno cercando di individuare Lydia fra tutte quelle persone sparpagliate. Una sagoma sedeva da sola su una panchina, avvolta in uno scialle. Aveva i capelli sciolti, chiari e fluttuanti, come una nuvola che le circondava il viso. Ci avvicinammo, non si poteva sbagliare. Aveva la medesima fragilità che avevo intravisto nelle fotografie; il collo sottile come lo stelo di un fiore; il viso, sebbene segnato, pallido come la ghiaia; gli zigomi pronunciati. La bellezza non l’aveva abbandonata. E aveva occhi grigio chiaro, a mandorla, seri e tristi. Come i tuoi.
Sentii affiorare le lacrime. Come potevo esprimere l’emozione che provavo o parlare dei danni del passato? Come potevo spiegare chi ero, il legame fra noi tre?
Sapevo che la donna le stava dicendo qualcosa, si era chinata, aveva appoggiato la mano sul braccio di Lydia e le stava parlando a bassa voce, troppo bassa perché io potessi sentirla. E quando Lydia alzò lo sguardo vidi una punta di curiosità accendersi nei suoi occhi a mandorla. Andava e veniva, così rapidamente che sarebbe stato difficile notarla senza conoscerla già.
Ma io la conoscevo. Sentivo di conoscerla, in ogni caso.
C’era silenzio, a parte un merlo che trillava su un albero. Lydia inclinò il capo, come per mettersi in ascolto. E io sapevo che cosa avrei detto. Le avrei raccontato di te. Le avrei raccontato tutte le cose meravigliose che ricordavo – l’amore, le risate e le cose speciali che avevamo fatto. Le avrei raccontato di come un giorno eri lì. E poi non c’eri più.
Tirai fuori dalla borsa il ritratto fatto da Martha. Era un bel dipinto, disegnato con amore. Il merlo smise di cantare. Il vento sospirò. Lydia guardò il ritratto e, per un istante, pensai che non avrebbe reagito. Ma poi sollevò lo sguardo, e con i tuoi occhi, Gabriella, mi sorrise.