13.

La biblioteca era un vecchio edificio che incombeva sul limitare del villaggio. Mi ricordavo della bibliotecaria, che si aggirava furtiva tra gli scaffali con un dito perennemente incollato alle labbra. Era un posto buio e suggestivo, con angolini perfetti per dei bambini che volevano nascondersi per scambiarsi dolcetti e segreti. Perfetto per me, per trovare racconti d’avventura ambientati in collegi prestigiosi, nella giungla o sul mare; e poi per sgattaiolare tra gli scaffali degli adulti in cerca di poesia e di Poe.

Ora quel luogo era più luminoso, con l’aggiunta di parecchi computer e di un giovane bibliotecario con la barba e l’aria allegra. Mi sedetti a una postazione e cercai su Google un sito di ricerche genealogiche, pagai un abbonamento temporaneo al primo che uscì e digitai «Albert Flores». C’erano tre risultati: nascita, matrimonio e morte. Feci scorrere le dita sui tasti e trovai i miei nonni. Hanna e Luis, sposati nel 1932. E poi il loro primogenito, Thomas Flores, nascita e morte. Per Gabriella Flores c’era un solo risultato – nascita.

«Anna.» Mi sentii toccare la spalla e sobbalzai. Era Rita, con un libro in mano.

Ridussi la schermata a icona. «Niente wi-fi a casa», dissi, anticipando la sua domanda.

«Non mi stupisce. Esther non era tipo da computer. La prossima volta vieni a usare il mio.»

«Grazie.» Le sorrisi.

«Che ne dici se restituisco questo e usciamo insieme?» Abbassò la voce. «Sono in ritardo di una settimana, ma spero che non se ne accorga.» Indicò il bibliotecario con un cenno del capo e io guardai il titolo del libro: La sagra del delitto. Leggeva ancora gialli.

Mentre lei era impegnata a contrattare sulla multa, ordinai una copia dei certificati di nascita e morte di mio padre e di matrimonio dei miei genitori. Poi raggiunsi Rita all’entrata. «Da che parte vai?» fece lei.

Pensai a una meta. «Al cimitero.» Non ci andavo dal funerale. Dovevo sistemare i fiori.

«Perfetto», disse Rita, come se avesse gli stessi piani. «Vengo con te. In chiesa c’è sempre qualcosa da fare.»

Ci avviammo. Non pioveva più, ma l’aria era fredda; mentre camminavamo sognai l’autunno mite di Atene e mi chiesi quando ci sarei tornata. Il mio soggiorno in Inghilterra si era già protratto più del previsto. Che ne sarebbe stato del mio lavoro? Avevo chiesto un periodo di aspettativa, ma per quanto tempo mi avrebbero aspettata?

Rita interruppe i miei pensieri. «Sono anni che ricostruisco il mio albero genealogico», disse lanciandomi un’occhiata di traverso. «Trovo che la cosa migliore sia occuparsi di una generazione per volta.» Fece una pausa e, quando non replicai, aggiunse: «Che cosa stavi cercando, per cominciare?».

«Non ne sono sicura», dissi in tono vago. «Ho giusto iniziato.»

«Be’, non so se è una cosa che hai già preso in considerazione, o quanto possa essere importante per te, però...» Si zittì mentre una donna con un cappello che somigliava a un copriteiera si avvicinò, sorrise a Rita e mi rivolse un’occhiata curiosa. Rita aspettò che se ne andasse e poi continuò: «Per quel che ne so, tua madre non ha mai richiesto un certificato di morte».

«Che cosa intendi?»

«Per... Gabriella. Non ha fatto domanda per la dichiarazione di morte presunta. Lei, quindi, non è sul registro.»

Perché me lo stava dicendo? Immaginavo che la mamma non avesse fatto nulla del genere. «Non pensavo che ci fosse.»

Rita annuì e si strinse ancora di più nello scialle. «Mi è sembrato meglio accennartelo, non si sa mai.»

Proseguimmo in silenzio, anche se avevo la sensazione che Rita avesse altro da dirmi. Di qualsiasi cosa si trattasse, rimase a sobbollire tra di noi finché non raggiungemmo il portico all’ingresso del cimitero. A quel punto, lei si voltò verso di me e si raddrizzò gli occhiali. «C’è un’altra cosa.»

Non dissi nulla. Eravamo ferme sotto l’ingresso gelido del cimitero, con la chiesa grigia che si profilava minacciosa alla fine del vialetto. L’organista si stava esercitando, la musica seguì un crescendo per poi affievolirsi. Un nibbio reale si librò sopra di noi.

Osservammo l’uccello, a cui se ne unì un altro. Entrambi, a quel punto, si buttarono in picchiata sul campo lì dietro. «Poverino», dissi ad alta voce, pensando a un topolino di campagna fatto a brandelli.

«Carogne», precisò Rita. «Preferiscono le carogne.»

Ci fu qualche altro battito d’ali, mentre continuavamo a tenere gli occhi fissi sul cielo vuoto, cercando di rimandare – immaginai – qualsiasi cosa Rita avesse intenzione di dirmi. Avrei potuto aiutarla, invitandola a proseguire, ma all’improvviso non avevo più voglia di sapere.

Però non ebbi altra scelta, perché lei ricominciò, parlando in fretta, come se avesse immagazzinato i propri pensieri, imparandoli a memoria. «I nostri genitori, a volte, non ci parlano di qualcosa per un motivo, più o meno fondato. Se passiamo in rassegna le loro vite, dobbiamo accettarne le conseguenze. Sii indulgente, Anna. Tutto qua.» E mi fissò con un’intensità che non avevo mai visto prima.

Che cosa voleva dire? Cosa avrei dovuto perdonare? Cosa avrei potuto scoprire? Non è che volessi cogliere in flagrante i miei genitori. «Non capisco», dissi infine. «Non sto cercando niente in particolare.»

«No?» Mi guardò fisso negli occhi, poi sembrò rilassarsi. Mi diede un colpetto sulla mano. «Non preoccuparti, andrà tutto bene. Ricorda le mie parole. Vieni a trovarmi se ti serve qualcosa: computer, consigli... qualsiasi cosa.» Si allontanò a grandi passi verso la chiesa.

Rimasi a guardare in quella direzione. Mi sentivo frastornata per il fatto di non sapere cosa intendesse e perché al tempo stesso avevo la sensazione che avrei dovuto saperlo. Ritrovai l’equilibrio e mi avviai verso una panchina in fondo al cimitero, sotto un filare di faggi. Di fronte a me si stendeva una moltitudine di lapidi. Una massa di persone perdute disseminate là sotto. Alcune lapidi erano spaccate e scheggiate, altre erano elaborate, con incisioni raffiguranti angeli, altre ancora così piccole da stringere il cuore. Dopo qualche istante la porta della chiesa si spalancò cigolando e Rita uscì, in compagnia di una delle signore. Con aria affaccendata, scomparvero dietro l’angolo dell’edificio.

Tornarono due minuti più tardi con un innaffiatoio, e questa volta Rita mi rivolse un ampio cenno con la mano. Ricambiai il saluto e mi soffermai di nuovo su quello che aveva detto. Parlava per esperienza personale? Forse aveva scoperto un segreto terrificante mentre faceva ricerche sul proprio albero genealogico ed era per quello che aveva sentito il bisogno di mettermi in guardia. Eppure, no, era stato qualcosa di molto più specifico, più personale. Intenzionale. Cosa pensava che avrei trovato?

Non appena il portone della chiesa si fu richiuso, il cimitero sprofondò ancora nel silenzio. Mi alzai battendo i piedi per terra per riscaldarli e girovagai tra gli alberi filiformi e i cespugli, l’erba incolta e le tombe, fino a un’area tenuta meglio, dove riposavano le persone seppellite più di recente. La lapide sulla tomba dei miei genitori era stata rimossa per aggiungere il nome di mia madre, e nel frattempo era stata sostituita con una semplice croce di legno. Dedicai un po’ di tempo a eliminare i fiori appassiti. Avrei dovuto procurarmene di freschi. Cos’altro facevano le persone per curare una tomba?

Mi guardai attorno cercando ispirazione. La maggior parte delle altre sepolture aveva mazzi freschi di tulipani e rose, mentre solo alcune erano coperte di erica. Necessitavano di poca cura da parte di persone che non potevano o non volevano venire in visita. Sarebbe stato il mio caso, una volta sparita di nuovo in Grecia. Mi dissi che avrei dovuto parlarne con Rita, chiederle di occuparsi della tomba dei miei genitori.

Ripresi a camminare nel dedalo di sentieri, leggendo le incisioni sulle lapidi. C’erano cognomi familiari: Henderson, Stock, Sullivan. Generazioni precedenti, genitori e nonni dei miei compagni di scuola. Qui e là un fratello più giovane o una sorella maggiore. La tragedia della perdita di un fratello.

Una tomba lì vicino, coperta di pietre blu e grigie, attirò la mia attenzione. Accovacciandomi, lessi il nome: Edward Lily. Ovvio che fosse sepolto lì. Non si faceva menzione del suo ruolo di marito o padre, c’erano solo le sue date di nascita e morte.

In un angolo vidi un gruppo di lapidi ravvicinate. Probabilmente un tempo erano state ben curate, ma ora erano invase dall’ortica e dall’erba alta, come se nessuno più se ne occupasse. Un vaso di terracotta rotto qui, uno di metallo rovesciato là. E su ciascuna tomba era inciso il nome della stessa famiglia. Ellis. Guardai meglio. La famiglia Ellis aveva vissuto al villaggio per generazioni. Non era rimasto nessuno che si prendesse cura della sepoltura – a parte Martha? Forse lei non ci pensava. Ci sono persone che non lo fanno. Presto non l’avrei fatto neanch’io. A meno che Rita non esaudisse la mia richiesta, la tomba dei miei genitori sarebbe stata trascurata come queste.

Come era desolato quel posto! Ospitava persone dimenticate. I loro corpi in disfacimento, le loro menti ormai andate. E com’ero diventata macabra, io! Cosa mi aveva portato a vagare tra le sepolture pensando ai morti? Un tempo lì ci giocavo a nascondino con Gabriella, mentre aspettavamo che la mamma terminasse il suo servizio in chiesa. A quell’epoca era stato un posto felice: un parco giochi, non un cimitero. Non sapevamo che la Vita si trasformava nella Morte, che la Perdita era un pericolo che si avvicinava di soppiatto, senza preavviso.

Una delle tombe era danneggiata. Mi chinai per esaminarla più da vicino e mi ritrassi all’istante. Sulla pietra c’era un’iscrizione a malapena leggibile: Charles Stanley Ellis e Dorothy Maureen Ellis. Non c’erano altre parole, ma a scioccarmi fu lo stato in cui era ridotta. Lettere parzialmente raschiate via, come se qualcuno avesse cercato di cavarle fuori, e il resto della lapide era crivellato di buchi, come se l’avessero pugnalata con frenesia.

Un motore si accese, facendomi sobbalzare – ma era solo un uomo che spingeva un tosaerba dalla parte opposta del cimitero. Presi in considerazione l’idea di parlargli dello stato di quella tomba. O forse avrei dovuto farne cenno a Rita.

Nicholas apparve sotto l’arco d’ingresso con il casco sotto il braccio. Non lo vedevo dal funerale, anche se mi aveva proposto di andare a fare due chiacchiere oppure alla funzione domenicale, quando fossi stata libera. Fino ad allora l’avevo evitato e adesso, dato che non mi aveva visto, non intendevo attirare la sua attenzione. Lui, del resto, probabilmente conosceva già le condizioni delle tombe. Il vandalismo era un problema comune. Lo era sempre stato, al villaggio. Nel passato.

La porta della chiesa si aprì cigolando e si richiuse dopo che Nicholas fu entrato. La penombra si era posata sulle tombe. Mi ero a malapena accorta della velocità con cui il pomeriggio se n’era andato e con quale rapidità la temperatura stesse scendendo. Il freddo mi si insinuò attraverso gli abiti. Rabbrividii, mi abbottonai bene la giacca e mi soffiai sulle mani.

C’era del movimento, a lato della chiesa. Era un’ombra, un albero agitato dal vento, o Rita – di ritorno per prendere dell’acqua, o qualcos’altro? Provai un altro brivido.

“Teenager annoiati”, mi dissi mentre tornavo verso l’ingresso. Probabilmente erano stati loro a profanare la tomba. E la famiglia Ellis non era mai piaciuta a nessuno. Charlie Ellis era un bullo. E un ubriacone. La signora Ellis forse era una vittima, ma anche lei non era una persona piacevole. Per qualche tempo si era riscattata nella sua veste di testimone, ma il suo racconto era stato approssimativo e col tempo era diventato nulla più che un documento da archiviare. Se fosse stata ancora viva, sarei andata a cercarla. L’avrei costretta a raccontare di nuovo la sua storia. Il fatto che fosse morta – così come tanti altri del villaggio – non poteva che far scivolare ancora più lontano la possibilità di raggiungere la verità.

Scrollando via i miei pensieri, superai il portico. Il vento sibilava alle mie spalle. Mi voltai a guardare. E la luce sul lato della chiesa si fece più cupa.