15.
Martha era per strada quando uscii da Martin e Martin con le parole omologazione testamentaria che mi ronzavano nelle orecchie. Aveva in mano un mocio con la testa sbrindellata e filamentosa e il manico avvolto nella plastica. Le rivolsi un cenno del capo, sperando che non volesse parlarmi e, per precauzione, feci una deviazione entrando in macelleria, il vecchio negozio di famiglia di Rita.
Era una bottega tradizionale, con la segatura sul pavimento e le offerte del giorno scritte su delle lavagnette. Fagiani e conigli penzolavano dagli uncini. Sul tavolo da lavoro c’era un animale tagliato a metà, un maiale o una pecora. Il locale era pulito, il bancone di vetro lucido, ma niente riusciva a nascondere il puzzo del sangue vecchio, della carne e delle ossa di bestie morte.
Mentre pensavo a cosa comprare, entrò una donna con un foulard in testa. Feci segno al macellaio di servire prima lei e mi avvicinai alla vetrina per vedere se Martha se n’era andata. Era ancora lì. Ferma dall’altra parte della strada, come se aspettasse che uscissi. Era irritante. Non volevo parlare con nessuno del villaggio, tantomeno con Martha. E non solo: il cielo violaceo minacciava pioggia, e se non mi sbrigavo mi sarei infradiciata completamente.
La donna con il foulard mi stava osservando. Andava per i settanta ed ero sicura di conoscerla. Non c’era da sorprendersi. Mi erano tutti familiari, in quel posto. Persino il macellaio, con i muscoli che si gonfiavano sotto il grembiule mentre affilava la mannaia, somigliava a qualcuno che conoscevo. «Anna Flores», disse la donna ad alta voce, come se stesse annunciando il mio arrivo. «Sono la signora Henderson. Della casa accanto. Mi dispiace per tua madre.»
La bottiglia d’aceto. La pettegola del paese. Doveva essere venuta al funerale e alla veglia, ma non l’avevo notata. O forse, inconsciamente, l’avevo evitata. Quella donna era sempre stata meschina. Le feci un sorriso forzato, mentre l’irritazione montava.
Mi rivolse in risposta un sogghigno da lucertola, arricciando le labbra. «Se c’è qualcosa che posso fare...»
«Grazie», risposi sbrigativa, «lei è molto gentile, ma posso cavarmela. Rita mi sta aiutando.»
«Oh, già, Rita. Quella donna è un tesoro.» Si rivolse al macellaio. «Non è vero, Peter? Tua zia è un vero tesoro. Ti ricordi quando il mio Stuart ci ha lasciato? Rita è stata molto buona con me.»
«Assolutamente», concordò Peter, assestando un fendente alla carcassa sul bancone.
Stuart. Il suo sgradevole marito. Sempre saldamente alle spalle della signora Henderson come un muro al quale lei non si appoggiava mai.
«Deve essere difficile, comunque», stava dicendo, di nuovo rivolta a me. «Capire, voglio dire, se non hai...»
«Voleva due pezzi o tre?» si intromise Peter.
Provai ad approfittare del momento in cui la signora Henderson ripeteva l’ordinazione per avvicinarmi alla porta, ma lei teneva gli occhi fissi sui miei. «...Se non hai un marito», riprese, concludendo la frase, «o qualcun altro vicino.» Le brillavano gli occhi. Io restai in silenzio. Sapevo cosa stava cercando di fare. Voleva parlare di Gabriella.
Peter impacchettò la carne e la posò sul banco.
«Ho sentito che c’è uno sgombero», aggiunse la signora Henderson mentre allungava una banconota al negoziante. «Magari potrei darti una mano con quello. Io o Brian. Ti ricordi di mio figlio, vero? È molto servizievole.»
Dio santo. Suo figlio viveva ancora a casa con lei? Ma non era maggiore di me? Scialbo e furbo. Così lo ricordavo. Il modo in cui stravedeva per lui era il tallone d’Achille della signora Henderson. «Grazie», risposi, «ma è tutto sotto controllo.»
«Sono contenta di sentirlo.» Fece una pausa. «Non è la casa di Edward Lily?»
«Esatto.»
Mi guardò con curiosità. «Interessante...»
«Già.» Ero decisa a dare un taglio a quella conversazione. «Gli sgomberi sono sempre interessanti.» Feci un altro passo verso la porta.
«Ma questo in particolare, non credi?» replicò lei. «C’erano così tanti pettegolezzi sul Lemon Tree Cottage...»
“Pettegolezzi messi in giro da lei”, pensai fra me e me.
«Mi chiedo come mai tua madre volesse...» Lasciò che le parole restassero sospese tra noi come un filo di tacite accuse. Cosa stava cercando di dire? Mia madre non avrebbe dovuto assumersi l’incarico dello sgombero. Perché? Perché Edward Lily era stato un sospettato? Perché girava voce che avesse rinchiuso la figlia in soffitta? Perché era un forestiero? L’ultima ipotesi era la più plausibile. Quello avrebbe offeso la signora Henderson più di ogni altra cosa.
«La mamma ha accettato lo sgombero perché era una persona gentile», dissi con fermezza. «Era un lavoro da fare, e lei l’ha preso.»
La signora Henderson sollevò un sopracciglio, un po’ sorpresa dal mio tono. Si voltò per prendere il suo pacchetto, aprendo la bocca per parlare di nuovo. Ma io colsi l’attimo e sgusciai fuori, dicendo a Peter che sarei ritornata più tardi.
Martha era sparita. Bene. Mi avvolsi nella giacca con le dita gelate. Il cielo aveva cambiato colore. Ero stata dentro per pochi minuti, ma il viola si era già trasformato in nero. Mi diressi verso casa, frustrata perché avevo perso tempo con la signora Henderson e ora mi sarei bagnata. Aveva creduto alle mie spiegazioni su mia madre? Ne dubitavo, dato che io stessa stentavo a crederci. Per un istante rimpiansi di non averla lasciata parlare. Se c’era qualcuno al villaggio che sapeva qualcosa di Edward Lily e dello sgombero, quella era lei. Magari un’altra volta... Ma poi scartai l’idea. Già anni prima ne avevo avuto abbastanza di ascoltare persone come la signora Henderson. E anche ora non mi sarebbe servito.
Camminavo in fretta, a testa bassa, e quando arrivai alla Casa di Flores mi accorsi, troppo tardi, che Martha era in piedi davanti all’ingresso. Mi fermai. Ora non c’era nessun posto dove potessi andare, nessuna scusa per ignorarla. Da come me la ritrovavo sempre davanti, chiunque avrebbe pensato che mi stesse seguendo. Passi nel buio. Ombre al cimitero. Probabilmente stavo diventando paranoica.
Ci ritrovammo faccia a faccia. Aveva dei segni scuri sotto gli occhi e provai per lei lo stesso vecchio miscuglio di pietà e disprezzo. «Ciao, Martha», dissi.
Mi fissò con aria risoluta. «Anna.»
Spostai il peso da una gamba all’altra, a disagio, e mi schiarii la gola. «Ti ho visto al funerale», dissi alla fine. «Al cimitero. Ma non ti ho vista in chiesa. C’eri?»
Scosse la testa. «I funerali non mi piacciono», rispose. Aveva la voce bassa e roca, come se le sue corde vocali fossero fuori allenamento. «Non sono all’altezza.»
“E chi diavolo lo è?” avrei voluto risponderle. Mi mossi, come per farle capire che volevo andarmene, ma lei non colse il mio disagio e, nel silenzio imbarazzato che seguì, le chiesi: «Vivi ancora al numero venticinque?». Annuì. «Mi dispiace per i tuoi genitori. Ho visto che...»
«Sì», fece lei bruscamente. «Sono morti.» Lo disse come se si trattasse di un fatto insignificante, come se stesse parlando di una coppia di lontani parenti che non aveva mai incontrato o di un paio di animali domestici poco amati. Avrei voluto chiederle se al loro funerale ci era andata, o se non si era sentita all’altezza di fare nemmeno quello, ma mi tappai la bocca. Per quanto Martha non mi piacesse, non era colpa sua se aveva avuto genitori così terribili.
Cercai di escogitare una risposta per qualche secondo. Alla fine, imponendomi di dimostrarle solidarietà, aggiunsi a bassa voce: «Mi dispiace».
Spalancò la bocca per parlare, ma poi sembrò ripensarci. Si strinse nelle spalle e distolse lo sguardo.
«Be’, allora», tagliai corto, raddrizzando la schiena e cercando di assumere un tono conclusivo, «devo proprio andare.»
Martha abbassò gli occhi. Sembrava così magra, lì in piedi, come un giunco. Il vento avrebbe potuto spazzarla via. E così stanca. Mi ammorbidii. L’insonnia potevo capirla. Da quando ero a casa ero rimasta coricata, sveglia, cercando di non abbandonarmi ai sogni – vecchi incubi pieni di demoni che strisciavano lungo le pareti, si nascondevano tra i rami e ghermivano la mia ignara sorella mentre io osservavo tutto da lontano, impietrita, incapace di intervenire.
«Sembri stanca», dissi a Martha a quel punto, con un tono gentile ma riluttante. «In casa ci si sente soli, quando se ne sono andati tutti. Non credi?» I suoi occhi erano acquosi e pallidi. Parlai rapidamente, imbarazzata, non volevo vederla piangere. «Soprattutto se si tratta della casa della tua infanzia. Io trovo che sia così. Non riesco a immaginare come sia per te. Tua madre era...» Mi interruppi, sforzandomi di pensare a una qualità positiva.
Martha si accigliò. Riuscivo a vedere i muscoli del suo collo esile che si muovevano mentre deglutiva.
Provai di nuovo. «Ti ricordi quella volta, quando sono venuta a casa tua? Stavo seduta in salotto a fare tutte quelle domande a tua madre. Non era passato molto tempo dalla scomparsa di Gabriella.» Gabriella. Il nome rimase pesantemente sospeso nell’aria. «Che cosa le è successo?»
Martha sgranò gli occhi. Una nuova emozione. Un baluginio di senso della perdita o di dolore?
«Raccontami», la sollecitai con gentilezza, «che cosa è successo a tua madre?»
Martha sussultò come se l’avessi colpita e restai senza fiato quando mi resi conto che aveva pensato le avessi chiesto di Gabriella. Respirando lentamente, contai fino a dieci. «Tua madre», ripetei, incespicando nelle parole, mentre cercavo di porre rimedio all’equivoco. «Mi chiedevo cosa le fosse accaduto.»
«È caduta», fece Martha alla fine.
Arrossii e abbassai la voce. «Mi dispiace. È successo in casa?»
«No», disse lei, guardandosi alle spalle, come se ci fosse qualcuno in ascolto. «Sui gradini. È scivolata.»
Restai in attesa, non volevo metterle fretta.
«Al parco. Vicino al lago. Hai presente?»
Certo che avevo presente. Il lago con il suo odoraccio putrido di canne marcescenti, rimaste troppo a lungo a mollo nell’acqua stagnante.
«Tu c’eri?» Le misi una mano sul braccio.
«Sì», rispose Martha, ritraendosi.
Vidi la scena nella mia mente: la signora Ellis nella nebbiolina del primo mattino, che scende lentamente i gradini ricoperti di muschio, afferrando la ringhiera per avere un po’ di sostegno. Avrebbe fatto così, la signora Ellis. Si aggrappava sempre a tutto: alla mano di Martha quando la trascinava a casa da scuola, al braccio di suo marito quando voleva che lasciasse perdere una discussione, al gomito del giornalista per mostrare la sua sincerità. La immaginai cadere, ruzzolare, rigirarsi al rallentatore, giù per la scalinata e poi sbattere la testa su un sasso con violenza selvaggia. Vidi il sangue che si spargeva, macchiando il terreno. “L’hai spinta tu?” volevo chiedere a Martha.
Rabbrividii e mi toccai la fronte sudata col palmo della mano. Tutti quei ricordi e quelle folli fantasticherie mi stavano facendo ammalare. Naturalmente Martha non l’aveva spinta. Martha era un coniglio.
«E tuo padre?» domandai, costringendomi a parlare.
«Attacco di cuore», rispose lei. Una vena le pulsava sulla tempia.
Ora ricordavo vagamente la morte del signor Ellis. Andavo ancora a scuola, all’epoca. La notizia si era diffusa nel villaggio come succedeva sempre con fatti di quel genere. In quel caso, però, non c’era stato un gran clamore. Lui non era molto popolare, a differenza di mio padre, al cui funerale c’era un tale pienone che mi ero persa tra i partecipanti. Mi sovvenne all’improvviso un’immagine di quel giorno tremendo. Rita aveva accompagnato la mamma e io ero stata affidata allo zio Thomas e a Donald. Mi ricordai di essere rimasta pigiata tra loro due in chiesa e poi, più tardi, alla veglia, avevano litigato e io me l’ero svignata in camera di Gabriella. Rita mi aveva trovato, ore dopo, distesa sul pavimento. Non avevo dato la colpa alla mamma. Era ormai diventata un fantasma, pallida e magra, e sprofondava sempre di più in sé stessa. Non aveva avuto la forza di farsi carico anche di me.
Scossi il capo, per schiarirmi la mente e riportarmi al presente. Martha era immobile. Parlai ancora, per riempire il silenzio. «Mi sto occupando dello sgombero di una casa. Il Lemon Tree Cottage. Edward Lily. È morto, ma probabilmente l’hai già saputo.» Lei annuì. «Rimarrò al villaggio ancora per un po’, se vuoi...» Mi bloccai di colpo. Cosa stavo dicendo?
Martha mi guardò, sbattendo le palpebre. Quando parlò, la sua voce era vischiosa, come se le parole le si stessero incollando alla lingua. «Non hai mai voluto parlare con me, prima.»
«Che cosa intendi?»
«Non ti piacevo.» C’era un accenno di sfida nel suo tono.
La studiai meglio e la mia compassione precipitò. I suoi occhi erano rapidi e affilati. Era viscida e subdola. Era sempre stata così. Distolsi lo sguardo disgustata, la comprensione era scomparsa. Una goccia di sudore mi ruzzolò giù per il fianco. Mi girava la testa, dovevo andare a casa.
Inumidendomi le labbra, cercai le parole a tentoni. «Che cosa ti importava di quello che pensavo io? A te interessava solo Gabriella.»
Mi lanciò un’occhiata così maligna, che mi sentii come se una pietra appuntita mi stesse trafiggendo la pelle. «La colpa è tua», disse, con la voce impastata. «Avresti dovuto tenerti vicina tua sorella. Se fosse stata mia sorella, è quello che avrei fatto.»
La fissai negli occhi, cercando di comprendere. «Che cosa intendi?»
«Lo sai.»
«No, non lo so.» Il volume della mia voce stava aumentando. «Spiegami cosa vuoi dire.»
«Tutti quegli uomini. E ragazzi. Che le giravano intorno. Sarebbe successo qualcosa. Era ovvio.»
«Di cosa diavolo stai parlando?»
Ma lei se ne andò, girandosi con un unico movimento fulmineo e affrettandosi giù per la strada, con la testa del mocio che ballonzolava accanto a lei.
Rimasi a osservarla, con il sangue che mi martellava nelle orecchie. Sentii una nuova ondata di emozione e questa volta sapevo che si trattava di odio: un odio di un rosso profondo, irrancidito, come carne putrefatta.
Il mondo mi ondeggiava attorno. Mi appoggiai alla vetrina del negozio in attesa che la nausea se ne andasse. Avevo la faccia bollente. Una pesante goccia di pioggia mi colpì la guancia. E poi, eccolo. Il diluvio. Falciava la strada obliquamente, infradiciandomi. Ma non mi mossi. Perché mi era tornata in mente un’altra giornata di autunno, di trent’anni prima, così diversa da questa, una giornata dorata, soleggiata e calda. Un tempo bellissimo per quel periodo dell’anno, questo diceva la gente, il genere di giornata in cui accadevano cose belle.
Strinsi le mani una nell’altra, spremendo i ricordi. Erano accadute delle cose belle. La mamma aveva perdonato Gabriella. I suoi capelli. L’aveva perdonata per i capelli. Il sole splendeva, gli uccelli cantavano e la mamma aveva fatto la marmellata. E io avevo trovato una piuma mentre andavo a scuola. E i miei occhiali. Cos’era successo ai miei occhiali? Si erano rotti e Gabriella aveva sorriso, e ci eravamo messe d’accordo per incontrarci dopo la scuola.
Quel giorno d’autunno – una di quelle giornate di sole inattese in cui accadevano solo cose belle. Questo diceva la gente. Ma si sbagliava. Il tepore precario e i colori sbiaditi, le foglie deboli e la luce rifrangente. La bellezza del giorno si era rivelata troppo fragile. Alla fine, non aveva fatto nessuna differenza.