8.
1982
Alcuni giorni dopo la nostra visita a casa Ellis, la mamma e Rita avevano in programma un giro a Londra per un po’ di shopping. Ci andavano due o tre volte all’anno e quella data era segnata sul calendario da settimane.
Dal giorno in cui la mamma aveva dimenticato di prepararci la cena, in casa aveva regnato un’atmosfera tetra. I nostri genitori erano silenziosi, e io e Gabriella ci domandavamo cosa non andasse. La mamma diventò severa con noi, obbligandoci a tornare dritte filate a casa dopo la scuola e a fare tutti i compiti prima del tè. Diceva che perdevamo troppo tempo bighellonando per il villaggio o fermandoci al negozio. Papà cominciò ad accompagnarci a scuola in macchina. Preferiva cominciare gli sgomberi più tardi, diceva. Così, invece che alle sei, usciva di casa alle otto e mezzo e ci dava un passaggio.
Quel giorno stavamo guardando il telegiornale della sera. Un’adolescente di York era scomparsa: sullo schermo era apparsa la fotografia di una quindicenne bionda con la frangetta e l’uniforme scolastica. Il servizio successivo riguardava i suoi genitori, che parlavano alla telecamera tenendosi per mano. La mamma si alzò e spense la TV.
«Penso di annullare», disse rivolgendosi a papà, seduto nella sua poltrona.
Lui fece capolino da dietro il giornale. «Annullare cosa?»
«Il mio giro a Londra, sabato.»
Papà la fissò per un istante. «Non ce n’è bisogno.» Lanciò un’occhiata a me e Gabriella, spaparanzate sul pavimento. «Ce la caveremo. Non è vero, ragazze? Pollo alla Kiev per cena?» Annuimmo vigorosamente. Era un vero evento quando papà era responsabile della cucina. Non boicottava il microonde, tanto per cominciare.
La mamma si tirava i capelli. «Non sono sicura...»
Papà chiuse il giornale. «Posso occuparmi io di loro», disse calmo.
Ovviamente poteva occuparsi di noi. Di cosa si preoccupava la mamma?
«Non siamo più bambine», intervenne Gabriella, mentre recuperava il suo walkman dalla parte opposta della stanza e ci infilava una cassetta.
«Nessuno dice che lo siete», rispose papà. «È tutto a posto. La mamma andrà a Londra.» La baciò sulla guancia.
Mi sentii sollevata, la discussione era finita. Guardai Gabriella, che alzò le spalle e scosse la testa. Papà se ne accorse, sorrise e si allungò per trascinare anche lei vicino a sé. Gabriella si sedette per terra, appoggiata alle sue gambe, con i capelli elettrici per aver strofinato contro i suoi calzoni. Li osservai, nel loro mondo: parlavano di musica. E la mamma, invece di emettere borbottii di irritazione come faceva di solito quando mia sorella mostrava il suo entusiasmo per i Clash, Siouxsie e tutti gli altri gruppi che le piacevano, si accomodò ad ascoltare.
Alla fine si alzò e scomparve. Era nell’ingresso e telefonava a Rita, pianificando la loro gita a Londra.
Quando arrivò il sabato, la mamma si preparò: si pettinò i capelli, mise il rossetto e gli orecchini d’oro a forma di lacrima. Il beige andava bene per la chiesa. Per andare a Londra indossò un vestito lilla con le maniche a farfalla, stretto in vita da una cintura intrecciata coordinata. «Che ne pensi?» mi domandò, rigirandosi di fronte allo specchio a tre ante mentre si allacciava al polso un braccialetto d’oro. Osservai la trasformazione. Non c’era traccia di marmellate da preparare, rimproveri o chiesa. Mia madre aveva due facce, un po’ come quei burattini con due personaggi diversi dipinti sui lati della testa.
Frugò tra i suoi gioielli e prese un anello con smeraldo. L’avevo già visto: un sottile cerchio d’oro con una pietra splendente. Lo tenne sollevato nella luce per un istante, prima di rimetterlo via. E quando le chiesi perché non lo infilasse, rispose che era già abbastanza agghindata. Forse era talmente costoso che non si fidava a metterlo? Più costoso anche della spilla di zaffiro che papà le aveva comprato per l’ultimo Natale e che ora portava appuntata sul vestito?
Più tardi la accompagnammo alla stazione, dove doveva trovarsi con Rita. «Pane e lardy cake, Anna», mi disse aprendo la portiera e chinandosi per darmi un pizzicotto sulla guancia. «Li andrai a prendere, vero? Oh, e anche un po’ di quei dischetti di cera che metto in cima ai barattoli di marmellata.» Spostò lo sguardo su Gabriella, aprì la bocca, come per parlare ancora, ma poi cambiò idea. Si rivolse invece a nostro padre: «Sei sicuro che dovrei...».
«Sì», rispose lui salutandola con un bacio.
Abbassai il finestrino dell’auto e la osservai tristemente, sentendo già la sua mancanza.
Gabriella mi diede una gomitata nelle costole. «Cos’hai?» Mi stropicciai gli occhi, borbottai qualcosa a proposito di un bruscolino e le domandai se voleva venire con me dal panettiere e poi in piazza.
«Oggi no, piccoletta», mi disse mentre districava il filo del walkman e scendeva dalla macchina. «Ho da fare.»
«Dove vai?» le domandò papà mentre apriva la portiera per risalire in auto.
«Da Bernadette», rispose lei con aria sorpresa.
«Oh, no, non ci vai. Devi aiutarmi col pollo alla Kiev.»
«Non ho mai detto che l’avrei fatto.»
«Oh, sì, l’hai detto. Mentre eri là sul sedile posteriore.»
«Oddio. Parli sul serio?»
«Sì.»
«Ha qualcosa a che fare con la mamma?» E di fronte all’esitazione di papà lei alzò gli occhi al cielo. «Lo immaginavo.»
«Risali in macchina, per favore.»
Gabriella storse il naso ma fece quello che le aveva detto. Se fosse stata la mamma a parlare, sarebbe stata tutta un’altra storia. Papà riusciva sempre a far fare a Gabriella quello che lei non voleva fare. Io, al contrario, non avrei avuto bisogno di essere convinta ad aiutarlo, e mentre ci dirigevamo verso casa mi chiesi perché avesse scelto mia sorella e non me.
Mentre andavo in panetteria, mi consolai pensando alla fiera del paese. Ogni anno la mamma preparava la marmellata per la sua bancarella. La frutta arrivava dal giardino: prugne, susine e mele. Spesso andavamo a sgraffignarle nel frutteto e ne portavamo a casa un sacchetto, con lo stomaco che ci faceva male per aver mangiato troppa frutta. La mamma non riusciva a resistere, le lavava e le sbucciava, levava i torsoli e le tagliava a pezzetti, faceva scivolare tutto quanto nella sua gigantesca pentola di metallo, dove si ammollavano e si squagliavano e si mescolavano allo zucchero. La casa odorava di dolce per giorni.
Arrivata dal panettiere, andai a prendere i sigilli per la marmellata e chiesi alla ragazza dietro il bancone una pagnotta di cottage loaf e una lardy cake con la crosticina di zucchero bella spessa alla base. Cacciò il pane e la torta nei sacchetti di carta mentre esaminavo la vetrinetta piena di dolcetti glassati, pasticcini alla crema e ciambelle che colavano marmellata. Stavo pensando di comprare anche una tortina con la crema pasticcera, quando entrò un uomo con una giacca chiara e un panama in testa. Lo riconobbi all’istante, era il tizio del Lemon Tree Cottage.
Il rossore mi invase il viso e mi salì fino alle orecchie ma, invece di darmela a gambe, concentrai la mia attenzione su uno scaffale di pasticci di carne e rimasi in ascolto della conversazione. La ragazza dietro il bancone si dimostrò più amichevole con lui di quanto lo era stata con me, ridacchiando e arrossendo quando l’uomo parlava. «Non riuscirò mai ad abituarmi a questo tempo», disse lui in tono amichevole mentre lei batteva lo scontrino. Si tastò le tasche e tirò fuori una manciata di monetine. «Non mi abituerò mai neanche ai soldi.»
Mi avvicinai per osservare meglio la guarnizione in cima a una torta salata al manzo e fegatini e, più che vederlo, lo sentii fermarsi vicino a me. «Ciao», disse.
«Salve.» Mi raddrizzai.
Mi squadrò per qualche istante, con quei suoi occhi blu dietro le lenti tonde. Aveva il viso stretto e il naso sottile e appuntito. Immaginai che fosse un bell’uomo, visto che mi faceva ripensare alle vecchie star del cinema come Paul Newman, o magari Frank Sinatra, qualcuno che sarebbe piaciuto a mia madre. Abbassai lo sguardo sul sacchetto di ciambelle che aveva in mano. Lui se ne accorse, sorrise e disse: «Per tentare mia figlia». E poi aggiunse, come se gli fosse appena venuto in mente: «Lydia. Lei è molto esigente».
Arrossii di nuovo mentre mi rivedevo a fissare la finestra del Lemon Tree Cottage e mi sfregai la faccia, cercando di nascondere il rossore. Me lo stavo solo immaginando o aveva cambiato espressione? Dava segno di avermi anche solo vagamente riconosciuta?
«Bene, allora», fece lui dopo qualche secondo. «Piacere di averti conosciuta.» E si allontanò trascinando leggermente i piedi, come se fosse molto stanco o avesse dei dolori.
Lo osservai, curiosa di saperne di più. Edward Lily era intrigante, con il suo cottage delle fiabe, la figlia che mangiava ciambelle e una moglie spagnola pazza. Quali altri segreti nascondeva?
«Arrivederci», esclamai all’improvviso. Non volevo che quell’incontro passasse senza che avessi detto qualcosa anch’io.
Lui si fermò di nuovo, sbattendo rapidamente le palpebre. Mi resi conto di aver alzato la voce più di quanto intendessi. Avevo la pelle d’oca per l’imbarazzo, ma l’uomo annuì, fece una smorfia di dolore e lanciò un’occhiata alla ragazza dietro il bancone. Poi uscì lentamente dalla porta, lasciandomi lì con una strana sensazione alla bocca dello stomaco, una specie di sfarfallio nervoso. Non intendevo attirare l’attenzione su di me, e ora conclusi che mi aveva identificato come spia.
La mamma tornò da Londra con i capelli resi sporchi dall’aria della metropolitana e il vestito stropicciato dalla calca del treno. Ci mostrò il suo acquisto: un paio di scarpe di raso viola che provò e poi rimise prontamente nella scatola. Ma sembrava più allegra di quanto fosse stata prima e ci raccontò le sue avventure in Oxford Street mentre mangiavamo il pollo alla Kiev (in ritardo, perché Gabriella aveva distratto papà facendosi accompagnare in città e da Our Price). Anche papà era rilassato: prendeva in giro Gabriella a proposito del ragazzo con gli occhi assonnati nel negozio di dischi. Li guardavo con invidia, desiderando di essere stata con loro, ma avevo la bocca tutta unta di burro e prezzemolo e per dolce avevamo il rotolo alla marmellata, quindi non avevo intenzione di lamentarmi.
Dopo che la lavastoviglie fu riempita e papà ebbe insistito perché la mamma si riposasse mentre lui strofinava le pentole, arrivò Rita, che bussò forte alla porta sul retro. Ci spostammo in salotto, dove lei e la mamma frugarono tra i dischi e papà tirò fuori tre bicchieri, una bottiglia di Cinzano e una ciotola di salatini.
Ci accomodammo sul divano, pronte a guardare gli adulti dare il peggio di sé, cosa che sapevano fare in modo spettacolare, muovendosi a ritmo di jive sulle note di Jailhouse Rock. E quando partì Smokey Robinson, Rita si sedette e papà e mamma ballarono, sbaciucchiandosi sulle note di Being With You e guardandosi negli occhi.
Mi appoggiai alla spalla di Gabriella, tenendola ferma, pensando che tutto sarebbe andato per il meglio. Qualsiasi cosa avesse sconvolto i nostri genitori, ora era scomparsa. La situazione sembrava tornare alla normalità. Stavo per raccontare a Gabriella del mio incontro dal panettiere – infiorettandolo notevolmente –, quando udimmo il rumore della buca delle lettere e, prima che chiunque altro si muovesse, saltai su e corsi a vedere di cosa si trattava.
Sullo zerbino c’era una lunga busta bianca. Mi chinai per raccoglierla. C’era stampato il nome Esther in lettere minuscole. La scrutai in controluce, cercando di capire cosa c’era dentro, ma la busta era spessa – Basildon Bond – e non lasciava trasparire nulla.
«Che cos’è?» chiese Rita comparendo nell’ingresso.
Io feci un balzo di lato e mi ficcai la lettera dietro la schiena. «Niente», dissi.
Rita alzò un sopracciglio e tese la mano. Colta in flagrante, le consegnai la busta. Lei la studiò per qualche istante, poi, senza cambiare espressione, la infilò nella tasca della gonna.
«La darò a tua madre più tardi», disse voltandosi e facendo qualche passo.
«Di che si tratta?» domandai, con una punta di fastidio. L’avevo trovata io, perché non potevo darla io stessa alla mamma?
Rita esitò. «È una lettera della chiesa.»
Non lo era. Il bollettino arrivava a casa in forma di volantino ripiegato. Lo sapevo perché avevo aiutato la mamma a piegarne e distribuirne centinaia. Guardai Rita con sospetto mentre si allontanava. Perché aveva mentito?
Tornata in salotto, Rita scelse la sedia dallo schienale rigido e sedette con le mani sulle ginocchia guardando papà e mamma che ballavano. Gabriella ascoltava il walkman, quindi a me non restava altro da fare che prendere un numero di «Smash Hits» e sgranocchiare salatini. Sfogliando le pagine, i miei occhi scivolavano sulle foto dei Fun Boy Three e di Elvis Costello.
La mamma venne verso di noi. Il suo alito aveva il dolce aroma del lime del Cinzano e la sua voce era leggermente strascicata. «Splendida ragazza», disse a Gabriella, dandole un bacio. «Anche tu, Anna.»
Alzando gli occhi, vidi Rita che ci fissava. Fece una smorfia quando i nostri sguardi si incontrarono. Io mi voltai. Rita aveva mentito a proposito della lettera. Avrebbe dato quella busta alla mamma? Decisi che se non l’avesse fatto avrei raccontato tutto, perciò passai il resto della serata aspettando quel momento. Ma non fu necessario. Prima di andare via Rita fece scivolare la lettera nella mano della mamma e le diede un buffetto sul braccio. «Fammi sapere se posso essere d’aiuto», disse tranquilla mentre usciva.
La mamma si buttò sul letto. Papà la seguì dopo poco. Il divertimento di quella serata finì in fretta, appena ricominciarono a litigare, alzando la voce tanto da farla rimbombare attraverso le pareti.