9.

Il caffè di High Street era un antidoto alla Casa di Flores. Minimalista. Anche se non sapevo se fosse così per mancanza di fondi. Di certo avrebbero dovuto mettere qualcosa sui muri. Una vecchia fotografia del villaggio, magari. O un quadro che raffigurasse il bosco.

L’ora di punta del pranzo era passata. Ordinai un espresso e un panino con la pancetta a una ragazza con un abitino nero; aveva le labbra rosse e i capelli di un nero lucido, a parte una ciocca sul davanti, che aveva tinto di un blu violaceo, come l’ala di una gazza ladra. Era troppo giovane per aver vissuto gli anni Ottanta, forse era stata sua madre a ispirare quello stile. Era solo un’ipotesi. Io stessa ero abbastanza vecchia da poter essere sua madre.

Scelsi un posto vicino alla vetrina e sistemai le fotografie sul tavolo. Dovevo aver ereditato i geni di mio padre. La curiosità scorreva nella nostra famiglia come il sangue.

Edward Lily era stato un bel ragazzo. Pensai a sua moglie: si era uccisa, no? O almeno così si diceva nel villaggio. Per quale motivo? Potevo provare a immaginarlo: una perdita, disillusione, dolore. La natura precaria della vita.

Fuori, le persone camminavano in fretta – teste chine nel vento, mani infilate in tasca. Martha apparve sull’altro lato della strada. La osservai, mentre si spostava irrequieta per High Street, sistemandosi il cappotto e caricandosi sulla spalla la sporta della spesa, e sentii tornare l’inquietudine che avevo provato al cimitero. Il ricordo della testimonianza di sua madre, le indagini su Tom e la sua scarcerazione.

Povero Tom. Era stato trattato male al villaggio. La gente non ci aveva messo un attimo a dichiararlo colpevole. Si erano gettati tutti sulla sua vita come avvoltoi. E lo stesso avevano fatto i media, ingigantendo le cose come al solito, frugando nel suo privato. Io ero stata l’unica a credere alla sua innocenza. Io, immagino, e sua madre.

L’inquietudine si trasformò in dolore. Lasciai che l’emozione facesse presa su di me, sapendo per esperienza che non c’era altro da fare e, poco dopo, la sensazione si attenuò fino a diventare una fitta sopportabile.

Dall’altra parte della strada Martha si fermò. Mi aveva vista? Stazionava sul bordo del marciapiede, ma poi cambiò idea: invertì la direzione e tornò da dov’era venuta.

Mi ricordai di aver promesso di passare al Lemon Tree Cottage. Finii il mio caffè e diedi un paio di morsi frettolosi al panino. David probabilmente mi stava aspettando e non c’era motivo di deluderlo.

Erano passati trent’anni dall’ultima volta che avevo percorso quella strada, ma appena mi misi in cammino mi resi conto di non averla dimenticata. I piedi mi trascinavano in avanti, ripercorrendo i passi antichi con sicurezza, attraverso il villaggio e su per Chestnut Hill e poi via, lungo la strada principale.

Tante cose erano rimaste com’erano e tante altre erano diverse. L’asfalto trascurato, punteggiato di buche, le siepi incolte e i campi che si stendevano alla mia destra. Tutto immutato. Ma il cantiere sul lato sinistro si era trasformato in un mini complesso residenziale, un labirinto ordinato di case e vialetti identici, collegati da strade ben tenute, muretti e siepi di ligustro e conifere che avevano già bisogno di essere potate.

Quando arrivai in cima alla collina e svoltai nel viottolo, mi sembrò che il tempo si fosse fermato. C’era la medesima immobilità. La stessa sensazione di trovarsi in un altro mondo. Un trattore aveva lasciato dei solchi fangosi recenti che portavano ai campi lì dietro. Foglie color rame screziavano le siepi e luccicavano nella luce del pomeriggio. Erano le uniche macchie chiare in mezzo alle molteplici sfumature di marrone.

Camminando lentamente, cercai di spingere in profondità il mio senso di disagio. Era l’emozione che avevo sempre provato lungo quella stradina. Un’abitudine, mi dissi. Una reazione involontaria.

Il primo cottage sembrava abbandonato, la paglia quasi scomparsa. Un paio di finestre erano state sbarrate con delle assi di legno. Nel giardino, un vecchio filo del bucato penzolava attraverso il prato, e un tosaerba arrugginito stava appoggiato al muro.

Il furgone per lo sgombero era parcheggiato davanti al Lemon Tree Cottage. La casa sembrava più brillante, più definita, come capita ai posti che non vedi da tanto tempo. C’erano alcuni particolari che avevo dimenticato, come la pendenza del camino e il mosaico a forma di diamante delle vetrate, ma il giardino era incolto come lo ricordavo, con cespugli e piante che si inerpicavano troppo vicini ai muri. Dalla porta aperta intravidi l’ingresso e sentii un brivido alle dita al pensiero di entrare, di toccare i mobili, le pareti, di percepire il passato sulla mia pelle.

Sentivo il brontolio sommesso del trattore in lontananza e gli strilli di uno stormo di gabbiani arrivati dalla costa, che planavano sui campi dove il contadino era probabilmente impegnato a rigirare la terra. A parte chi portava a spasso i cani o quel contadino, lì poteva non passare nessuno per giorni.

David emerse dal cottage reggendo una lampada da terra. «Sei venuta», disse.

«Ma certo.» E poi, tanto per dire qualcosa: «Ci sono anche i tuoi aiutanti?».

Fece una smorfia. «Uno ha deciso di ammalarsi e l’altro era stanco ed è tornato a casa.»

Sorrisi, e mi feci da parte mentre mi sfilava accanto per raggiungere il furgone. Armeggiò con la lampada finché non riuscì a sistemarla in mezzo al resto dei mobili. «Entriamo?» fece lui, chiudendo le portiere.

Annuii, come se fosse una cosa di poca importanza, ma il cuore mi batteva forte mentre risalivamo il vialetto e, quando superai la soglia, mi si mozzò il respiro.

Nel cottage c’era odore di umidità e legno. Il tappeto era macchiato, come i muri, che presentavano sagome più chiare là dove c’erano stati dei quadri. Il salotto era vuoto, a parte una sedia a dondolo e un cuscino malridotto. «Lascio sempre una sedia, fino alla fine», spiegò David seguendo il mio sguardo. «Svuotare le case è un lavoro lungo.» Diede un’occhiata all’orologio. «Ti accompagno in giro o ti lascio fare da sola?»

«Faccio da sola», risposi troppo in fretta.

Alzò le sopracciglia ma non commentò, si offrì solo di tornare a prendermi. «Ti risparmierò la passeggiata al buio. Vivo là in fondo. A un paio di miglia sulla strada principale, un po’ più in dentro.»

Avevo capito dove intendeva: una fila di vecchi cottage con i giardini lunghi e stretti e il bosco alle spalle. «Da quanto tempo vivi là?» domandai, cercando di assumere un tono disinteressato. Per quel che ne sapevo, David poteva essere al villaggio da anni. In quel caso, avrebbe saputo tutto di me. Non l’avevo riconosciuto, quindi pensavo che non avesse frequentato la mia scuola.

«Da sei mesi, più o meno. Ero in Giappone. E prima ancora a Londra.»

«In Giappone? Che cosa facevi?»

«Ho lavorato per un po’, roba saltuaria, quello che capitava... solo per un paio d’anni. È stato...» Si fermò.

«Insolito?» suggerii.

«Catartico», disse sovrapponendosi alla mia voce. «E casuale.»

Ci fu un attimo di silenzio. Era una strana combinazione di parole. «In che modo?»

«Casuale perché il Giappone era stato il primo posto che mi era venuto in mente, e catartico perché mi ha fatto sentire meglio. Catartico significa questo, no?» Alzò una mano. «Non rispondere. Ti lascio alle tue cose. Allora passo a prenderti più tardi?»

Ero tentata, ma declinai l’offerta. «Preferisco camminare. Mi piace fare un po’ d’esercizio.» Almeno la prima parte era vera.

Non appena la porta si richiuse e il furgone si allontanò, il silenzio si fece assoluto. Niente rubinetti sgocciolanti o tubi che sferragliavano, niente travi scricchiolanti o scalpiccii in soffitta. Mi trascinai fuori dalla stanza – non fosse altro che per sentire del rumore – e cominciai a salire le scale con più lentezza, testando la tenuta dei gradini. Il quinto scalino scricchiolò, come il nono. Mi formicolavano le braccia e le gambe. Un’ombra si mosse sopra di me. Stavo seguendo il mio fantasma? Una me stessa dodicenne che si spostava per la casa in punta di piedi?

Seguii la curva della scala e arrivai in cima. Mi misi a sedere sulla moquette ammuffita. La finestra sopra di me incorniciava gli alberi. Il sole pomeridiano stava calando, il grigio del cielo si stava trasformando in ardesia, ma la luce riusciva ancora a far risaltare il bruno dorato e i rossi. Un passero ritardatario attraversò il cielo in picchiata. Apparvero due gabbiani. Zigzagavano, inseguendosi. Un volo aggressivo.

La libreria che una volta era sul pianerottolo era sparita. Anni prima la casa era stata stracolma di libri e soprammobili. Oddio, mi ci ero proprio intrufolata! Come avevo potuto essere così coraggiosa? Dodici anni e così determinata a scoprire cosa era successo a mia sorella. Quando avevo rinunciato a quella lotta?

Perché la mamma aveva accettato quello sgombero? Ripensai all’album di ritagli che giaceva nel cassetto. E se anche lei si fosse improvvisata detective come avevo fatto io? Forse l’aveva fatto anche prima: accettare di sgomberare le case delle persone che morivano qui al villaggio, per poi passare in rassegna le loro cose alla ricerca di indizi. Rabbrividii. Mi sentivo ossessionata. La mia immaginazione era partita in quarta. Era la casa ad avere quell’effetto su di me. Ragazze pazze. Uomini che rinchiudevano la gente.

Continuai comunque a esplorare le stanze. Il bagno era all’antica: i sanitari sbeccati dal tempo. C’era un unico spazzolino da denti in un patetico bicchiere di plastica e, lì vicino, un rasoio elettrico, un pettine e un flacone di olio per capelli. Una camera da letto era vuota. Nell’altra c’ero già stata. Ora sul letto c’era un copriletto grigio con delle borse accatastate sopra. Aprii l’armadio. Naftalina. Quell’odore era inconfondibile. Nel cassetto in basso trovai delle carte e alcune fotografie. Le carte sembravano fatture – o copie di fatture – spedite ai clienti. Erano scritte in spagnolo e intestate con il nome di un negozio, La Plata, accompagnato da un indirizzo di Siviglia. L’attività di Edward Lily, immaginai; il motivo per cui era stato in Spagna. Le lasciai dov’erano e tirai fuori il plico di fotografie.

Al piano di sotto, il salotto mi attirò di nuovo a sé. Mi accomodai, grata a David per aver lasciato la sedia a dondolo, e feci scorrere le foto, riconoscendo Siviglia: la Giralda, l’Alcázar, e c’era Lydia in Plaza de España, con uno scialle tempestato di rose.

La porta d’ingresso si aprì e si udì un fruscio di passi nel corridoio. Prima che potessi dire qualsiasi cosa, una donna si materializzò davanti a me. Quando mi vide urlò. Lydia? Sua madre? No, la mamma di Lydia era morta. Quello non era un fantasma di mezza età, che indossava un cardigan e teneva una mano sul cuore. Doveva trattarsi di una vicina o di un’amica. Troppo giovane per essere la sorella di Edward Lily.

Balzai in piedi e mi avvicinai. «Mi dispiace. Non intendevo spaventarla.» La donna rimase dov’era, stringendo il pomello della porta. «Sono Anna, della Casa di Flores, il posto dove tutto questo...» Feci una pausa piuttosto drammatica e tracciai un arco a mezz’aria con la mano, ma mi bloccai quando mi resi conto che era un gesto futile, in una stanza vuota. Lei si guardò intorno, sgranando gli occhi. Era bassa e robusta, con una massa di capelli grigi e il viso sbiancato per lo spavento. Fui presa dal panico. Poteva trattarsi di una parente che non sapeva della morte di Edward Lily?

«Sa che cosa è successo?» le chiesi cercando di calmarmi.

«Sì.» Si passò una mano sulla fronte come se stesse cercando di levarselo dalla mente. «Sì, certo. È solo che ti ho visto...» Indicò la sedia e io mi voltai automaticamente a guardare. «È lì che l’ho trovato», disse con una certa agitazione. «Ci ripenso di continuo. Credevo stesse dormendo. L’ho chiamato per nome e non mi ha risposto. L’ho toccato, per svegliarlo, capisci, ma era morto stecchito.» Rimase in silenzio, si fece il segno della croce e poi si diresse con passo pesante verso l’altra estremità della stanza, con le braccia distese come una sonnambula. Si lasciò andare sulla sedia e cominciò a dondolarsi.

«C’era un disegno sul pavimento», continuò, indicando la moquette. «Proprio lì. Immagino lo stesse guardando, quando è morto. E c’era un odoraccio. Credevo fosse la spazzatura. Non avrei mai immaginato...» Si fermò, ora la voce era velata di lacrime. «Quando mi sono resa conto che era morto, la prima cosa che volevo fare era telefonare a mio marito, da non crederci. È morto da quasi tre anni. Per farti capire quant’ero sconvolta.» Si fece il segno della croce.

«È terribile...» commentai, non sapendo bene che cos’altro dire. «E lei è sua...?»

«La sua domestica. Dawn. Sono venuta a dare una pulita. Il signore, quello del furgone, ha detto che andava bene.» Tirò fuori un fazzoletto e si soffiò il naso. «Non volevo che la gente pensasse che trascuro questo posto.»

«Da quanto conosceva il signor Lily?»

«Da anni. Da quando aveva comprato il cottage. Primi anni Ottanta.» Si mise in punta alla sedia, squadrandomi. «Quanto tempo è passato?» Aggrottò la fronte come se si fosse ricordata di qualcosa, poi mi guardò. «Ma certo», disse con aria rasserenata. «Non sei...?» Si bloccò.

Le risposi rapidamente, evitando la domanda con una delle mie. «Conosceva Lydia? Mi ricordo che viveva qui.»

Dawn si lanciò un’occhiata alle spalle, come se potesse esserci qualcuno in ascolto, e si fece più vicina, bloccando la sedia a dondolo con i piedi. «Lydia era...» Si interruppe, fece una smorfia e poi si picchiettò la tempia con due dita. «Sai cosa intendo?» Io distolsi lo sguardo, non volevo rispondere. «Ma c’era da aspettarselo che fosse così, insomma, dopo che sua madre, hai presente...» Si fece di nuovo il segno della croce. «Non ho conosciuto Isabella. Ma mi dispiaceva per il signor Lily, che si occupava di Lydia da solo. Un peccato. Era una bambina dolce. A modo suo.»

Ora ero curiosa. «Com’era?»

«Be’, dolce, come dicevo, ma silenziosa, molto silenziosa. E così magra... Mi ricordo che il signor Lily si preoccupava e le portava dei dolci per invogliarla a mangiare.» Fissò lo sguardo nel vuoto e fece un’espressione come se stesse decidendo se aggiungere dell’altro.

Non volli farle pressione, sebbene desiderassi sapere di più. Mi pareva di ricordare che era rimasta in Inghilterra quando suo padre era tornato in Spagna. Mi chiedevo se fosse venuta al cottage dopo che lui era morto.

«Non credo», rispose Dawn quando glielo chiesi.

«C’era al funerale?»

Scosse la testa. «C’eravamo solo io, la sorella del signor Lily e pochi abitanti del villaggio.»

«Pensa che Lydia sia...» Esitai per un istante. «...morta?»

«No. La sorella del signor Lily l’ha nominata, anche se non ha spiegato il motivo della sua assenza. Pure il padre era evasivo riguardo a Lydia, almeno con me.» Si schiarì la voce. «A dire la verità, mi sono sempre chiesta se non l’avesse messa in qualche posto.»

«Che genere di posto?»

«Per quelli che... hai presente... hanno quei problemi.» Distolse lo sguardo, come se parlarne la imbarazzasse.

«Intende una clinica?»

«Sì, o un convento. In Spagna hanno quel genere di cose, no?»

Vidi Lydia vagare per i corridoi di pietra di un convento polveroso, o in un giardino appartato, circondata da aranci e buganvillee.

«Pensa davvero che lui l’avrebbe abbandonata in quel modo?»

«Quella generazione...» proseguì Dawn, nel medesimo tono cospiratorio «...è così che facevano, no?»

Aveva ragione. Mia madre aveva una lontana cugina di cui non parlava mai. Quando l’avevo scoperto, la nonna Grace e il nonno Bertrand erano entrambi morti, come anche lo zio Thomas. Avevo visto una lettera sul tavolo della cucina. Arrivava da un istituto di Londra: volevano sapere da mia madre, l’unica parente ancora in vita, se dovevano mandarle le cose di sua cugina. Si chiamava Mary e, dalla lettera, si capiva perfettamente che viveva lì da anni. Mi ricordai di essermi arrabbiata, avevo accusato mia madre di reticenza, dato che non aveva mai menzionato la cugina. «A quei tempi era diverso, Anna», mi aveva risposto. «Non mi aspetto che tu possa capire, ma ci si vergognava di cose del genere.»

«Quale genere di cose?» le avevo chiesto. «Le malattie mentali? I segreti di famiglia?»

«Entrambi», aveva ribattuto. «La società funzionava così. La tua generazione non sa niente di tutto questo.»

Avevo provato a cavarle qualcos’altro. Volevo delle spiegazioni, delle giustificazioni, ma aveva cucito le labbra e nessuno sforzo da parte mia sarebbe bastato a tirarle fuori una parola di più.

Il silenzio era sceso nella stanza. Cercai qualcos’altro da dire a Dawn. «Il signor Lily doveva essere molto felice per il suo aiuto», osservai alla fine.

«Ero contenta di avere questo lavoro. Anche Robert.»

«Robert?»

«Mio marito. Be’, all’inizio non lo era ancora...» Sorrise. «Quello è successo dopo. Immagino che avrei dovuto ringraziare il signor Lily per averci assunti entrambi.» Smise di parlare, sembrava improvvisamente smarrita.

Alla fine, le proposi di venire al negozio per scegliere un ricordo e, quando mi chiese se poteva raccogliere le cose di Lydia rimaste al cottage e prendere qualcosa per sé, acconsentii. Dubitavo che la sorella di Edward Lily avesse lasciato lì qualcosa che avesse un valore sentimentale, e nonostante il modo impacciato in cui Dawn parlava di Lydia, era chiaramente affezionata alla ragazza.

Dawn scomparve per iniziare la sua ricerca e io feci due passi nel giardino. La luce stava svanendo. Mi attendeva una camminata al buio fino a casa. Ma restai comunque, a vagare per il prato abbandonato, tornando con la mente al pensiero di mia madre che frugava in casa degli altri alla ricerca delle prove di un delitto. L’immagine non si addiceva alla donna smarrita che era diventata. La polizia aveva mai perquisito quel cottage? Immaginai che dovessero averlo fatto quando l’indagine era entrata nel vivo, quando Edward Lily era diventato un sospettato. Ma quanto a fondo si erano spinti? Avevano alzato ogni singola asse del pavimento, svuotato ogni cassetto? Avevano guardato nel capanno, nel serbatoio dell’acqua piovana, nelle cavità degli alberi? C’era la possibilità che un indizio fosse passato inosservato qui o da qualche altra parte nel villaggio?

Mi voltai a osservare la casa. Alcune tavole di ardesia mancavano, i davanzali erano scrostati, il feltro bitumato penzolava dal tetto del portico. Le persiane chiuse al pianterreno davano all’edificio un’aria tetra e ostile. Lì dentro era nascosto qualcosa? Valeva la pena cercare ancora, ricominciando lì dove avevo smesso?

Un piccione volò a terra da un albero dietro di me, sbattendo le ali e facendomi sobbalzare. Girai su me stessa e lo vidi beccare il terreno. Il trattore in lontananza si era fermato. Solo la brezza scompigliava le foglie, una qualche bestiola si mosse nella vegetazione bassa. C’era un’atmosfera così silenziosa, così solitaria... In un posto simile sarebbe potuta accadere qualsiasi cosa.

L’aveva pensato anche mia madre?

Che cosa aveva sperato di trovare?

Avevo bisogno di esaminare tutto con chiarezza. La morte di mia madre, il ritorno al villaggio, tutti i nomi e le facce familiari mi avevano scossa. Stavo pensando troppo al passato.

Eppure, ferma di fronte al cottage, sentii qualcosa agitarsi nel profondo, lo sentii farsi strada nel caos della mia mente. Lo sentii di nuovo mentre seguivo il vialetto e imboccavo la stradina. Ora era lontano, ma si avvicinava a passo di marcia. Riconobbi cos’era. La perseveranza, il bisogno di sapere, che riaffiorava strisciando dopo essere stato via per tutti quegli anni.