26.
1982
«E tu che vuoi?»
Il cuore mi martellava nel petto. «Per favore, posso farle qualche domanda?»
La signora Ellis aprì la porta un po’ di più e mi fissò. Portava il solito cardigan grigio, con una sciarpa annodata attorno al collo. Il volto era pallido e aveva ombre scure sotto gli occhi. Mi osservò per un attimo, squadrandomi dalla testa ai piedi. Mi rividi attraverso i suoi occhi: una ragazzina con un parka troppo grande e gli occhiali rotti. «Su che cosa?» ribatté lei, senza cambiare espressione.
«Gabriella.»
Ci fu una pausa, poi rispose: «Farai meglio a venire dentro».
Entrai e girai intorno agli scatoloni nel corridoio. Non c’era più l’odore penetrante dei garofani, ora la casa sapeva di tabacco stantio e cibo bruciato. La signora Ellis mi accompagnò in salotto, dove trovammo il marito, stravaccato nella sua poltrona, come la volta precedente. Ora però era sveglio e stava leggendo il giornale, con la pancia che strabordava dai pantaloni e i piedi nudi appoggiati sul pouf. Mi rivolse un’occhiata nebulosa mentre facevo il mio ingresso e mi accomodavo sul divano. La signora Ellis girò i tacchi e abbandonò la stanza, trascinandosi nelle ciabatte consumate.
L’ultima volta che ero stata lì, c’ero stata con Gabriella. Appoggiai la mano sul tessuto nel punto in cui mia sorella si era seduta e lanciai un’occhiata di nascosto al signor Ellis, ma lui leggeva il giornale, come se io non ci fossi. Spostai lo sguardo sulla stampa con gli insetti. Tutti quegli scarafaggi, mosche e formiche... Perché uno dovrebbe tenere appesa un’immagine così orribile? Rabbrividendo, tornai a voltarmi verso il signor Ellis, ripercorrendo il suo corpo con lo sguardo. I piedi scalzi erano bianchi e pieni di vene, le dita somigliavano a grasse larve: gigantesche larve che si dimenavano. I miei occhi si spostarono sulla sua faccia, e ora mi fissava anche lui, la bocca deformata da un ghigno.
Serrai i pugni, ricordando a me stessa il motivo della mia visita. Solo perché la polizia aveva rallentato le indagini, non significava che dovessi arrendermi anch’io. Ero tornata al mio quaderno dei sospettati, compilando altre liste: amici, parenti, vicini, negozianti – chiunque avesse mai rivolto la parola a Gabriella. Li avrei interrogati tutti, approfittando della mia condizione di vittima. Ero la sorella della ragazza scomparsa, e la gente avrebbe dovuto darmi retta.
La signora Ellis tornò con un bicchiere di spremuta d’arancia e alcuni biscotti Garibaldi. Si mise a sedere in punta a una poltrona, rimanendo immobile. Contai fino a cinque. «Sto cercando di trovare Gabriella», dissi. E il cuore cominciò a battermi così forte che mi convinsi che anche lei potesse sentirlo. Parlando di getto, rovesciando le parole nella stanza, le chiesi di descrivere quello che aveva visto il giorno in cui mia sorella era scomparsa.
Lei tirò su col naso. «L’ho già detto alla polizia.» Guardò il marito. «Ma immagino di poterlo dire ancora.» E ripeté quello che sapevo: che stava aspettando Martha e a un certo punto aveva visto prima Gabriella e poi Tom, che spingeva il suo carrello borbottando tra sé e sé. «In quella maniera da pazzo che ha lui», aggiunse con cattiveria.
«E Gabriella?» la incalzai. «Le sembrava... spaventata?»
Mi lanciò un’occhiata tagliente. «Spaventata?» Scosse la testa. «Oh, no. Oh, no. Non era spaventata.» Si morse il labbro. Il signor Ellis girò una pagina del giornale. «Proprio il contrario. Decisamente coraggiosa.»
Coraggiosa? Cosa intendeva? Avevo le gambe molli. Se non fossi stata seduta, mi sarei accartocciata sul pavimento. Guardai giù per riacquistare stabilità. La moquette era sporca e macchiata. Probabilmente non passavano l’aspirapolvere da mesi.
Ci fu un rumore in corridoio, qualcosa che sfregava contro il muro. Era Martha, che cercava di ascoltare quello che dicevamo?
«Perché Martha era in ritardo?» chiesi.
«Martha?» La signora Ellis sembrava spiazzata. Corrugò le sopracciglia, come se stesse cercando di ricordare qualcosa. Poi il suo viso si distese. «Arte.» Alzò gli occhi al cielo e guardò suo marito. «Lezioni di recupero. Che perdita di tempo.»
Il signor Ellis girò un’altra pagina.
La seconda persona che interrogai fu il signor Sullivan, il vicino di casa di Tom che a suo tempo si era fatto avanti. Era un uomo anziano, uno scapolo senza figli, che avrebbe potuto corrispondere bene al profilo dell’oscuro angelo caduto della mia immaginazione – solo che aveva i capelli grigi e una faccia luminosa e rosea. Non solo quello, ma saltò fuori che era stato sposato. Sua moglie era morta dopo un anno. «Eravamo fidanzatini sin da piccoli», mi disse tristemente. «Da quel momento non ho mai più guardato un’altra.»
Il signor Sullivan mi offrì del latte e dolci con la crema. Quando gli domandai di Tom, dichiarò che la gente che l’aveva accusato del crimine era miope e in cerca di un capro espiatorio. «A eccezione dei tuoi genitori», si affrettò ad aggiungere.
E per quanto riguardava gli adolescenti che perseguitavano Tom, li descrisse come mascalzoni senza cervello, giovani malvagi senza la minima moralità, come tanti altri ragazzi dei nostri tempi. «A eccezione di te», disse.
«Crede che Tom tornerà?» gli domandai mentre inzuppavo un dolcetto nel latte.
Scosse la testa. «Non penso. L’ultima cosa che ho sentito è che lui e sua madre si sono trasferiti a definitivamente a Colchester. Non possiamo certo biasimarli, no? Dopo quello che quei teppisti hanno fatto alla loro casa. Tutti quegli insulti e quelle insinuazioni...»
Annuendo, cercai di assumere un’aria saggia e gli chiesi educatamente se credeva che Tom avesse trovato un altro lavoro.
«Lo dubito fortemente, non credi anche tu? Il fango ti resta addosso. Forse prende già il sussidio. Fa la coda allo sportello insieme agli altri disoccupati. A spese dei cittadini che pagano le tasse. Grazie a loro.» Indicò con il pollice in direzione della casa di Tom, quindi immaginai che si riferisse ai vandali. «Speriamo che li trovino e li spediscano tutti in riformatorio.» Ipotizzai nuovamente che si stesse riferendo ai teppisti, non a Tom e a sua madre.
Lasciai la domanda più importante per ultima. «Che cosa pensa sia successo a mia sorella, signor Sullivan?»
Lui si grattò la testa. «I giovani fanno cose imprevedibili», rispose, sbattendo le palpebre. E con quello, pensai che propendesse per l’idea che Gabriella fosse scappata di casa.
La vicina di Tom dall’altro lato, una signora mignon con un marito malato e un figlio assente, corroborò e concordò con tutto quello che aveva detto il signor Sullivan. Mi diede dei panini dolci fatti in casa e una Sodastream al gusto di fragola e, dopo aver risposto alle mie domande, mi trattenne per un’altra ora per raccontarmi del marito malato e del figlio assente.
Dopo quella tornata di interrogatori, non mi sembrava di saperne di più. Non avevo individuato un nuovo sospettato nella famiglia mignon e il signor Sullivan non sembrava il tipo. Quella notte, però, il demone volante della mia immaginazione subì una metamorfosi quando entrò nell’atmosfera terrestre, tramutandosi in una sagoma slanciata e fluttuante, un po’ invecchiata, con occhi pallidi e lampeggianti, una zazzera di capelli grigi e un vassoio di dolci alla crema. Planò su Gabriella mentre tornava a casa da scuola, a piedi. Nessuno dei due aveva visto l’ombra più scura che avanzava di soppiatto lungo il muro. Non era stato il signor Sullivan. La mattina tirai una linea sul suo nome.
Mi occupai gradualmente di tutti i vicini. Un giorno, mentre stavo uscendo da una casa a due o tre villette di distanza dalla nostra, apparve papà. Rimanemmo fermi uno di fronte all’altra, separati dal cancelletto del giardino. «Che cosa stai facendo?» disse, abbassando lo sguardo sul quaderno che stringevo.
Mi risistemai gli occhiali sul naso, spingendoli all’insù, e risposi: «Sto facendo delle domande».
«Su cosa?»
«Gabriella.»
Impallidì. «Che genere di domande?»
Sollevai il quaderno, baldanzosamente. «Sto chiedendo a tutti. Ho fatto una lista di sospettati e li sto eliminando uno alla volta.»
«Non è un lavoro per te, Anna. Spetta alla polizia.»
«Be’, la polizia si è arresa», sbottai. «Non la stanno cercando. Non la sta più cercando nessuno, ormai.»
«Comunque sia, non dovresti andare a bussare alle porte della gente. Non dopo tutto quello che è successo.»
Gli pulsava una vena sulla tempia. Io però non potevo fermarmi. «Qualcuno deve fare qualcosa», esclamai. «La polizia non fa niente, tu e la mamma non fate niente. I vicini ne parlano. Pensano che sia scappata, o che l’abbiano uccisa, o che sia stata rapita, ma non gliene importa niente. Sono l’unica a cui importa qualcosa.»
Scese il silenzio. Una porta si aprì e poi si richiuse rapidamente. Era la signora Henderson che cercava di intromettersi? O quello stupido di Brian che spiava di nuovo?
«Comunque sia», ribadì papà, con un tono mortalmente calmo, «devi smetterla.»
Lo squadrai. La rabbia mi infiammava la mente. Aprii la bocca per dirgli che non poteva impedirmi di fare quello che era giusto per mia sorella, ma lui alzò una mano, bloccando le mie parole.
«Vai a casa, Anna», tagliò corto. «E non farlo più.»
Avrei voluto ribattere, ma quel suo sguardo così duro mi fece cambiare idea. Sgusciai fuori dal cancello e mi avviai verso casa.
Era il giorno dopo la mia discussione con papà, stavamo cenando. La mamma distribuiva nelle scodelle mestolate di zuppa al pomodoro Campbell’s. Si mise a sedere con noi, anche se sapevo già che non avrebbe mangiato più di qualche cucchiaiata. Erano settimane che non la vedevo mangiare granché. Aveva preso l’abitudine di giocherellare con il cibo, lo sparpagliava nel piatto, sollevando la forchetta alle labbra per poi rimetterla giù. Aveva il viso smagrito e si legava i capelli con una fascia stretta, che le tirava la pelle del viso.
Ora rimescolava la zuppa, sempre più velocemente. «La signora Henderson è venuta a trovarmi», disse alla fine. «Vi ha sentiti litigare per strada.»
«Non è niente», rispose papà, appoggiando i palmi delle mani sul tavolo.
«Non può essere niente, altrimenti non sarebbe venuta.»
«Lascia perdere.»
«Come potrei? Ormai lo sa l’intera via.»
«Madre mía!» Diede un pugno sul tavolo. «Chi se ne frega di quello che pensa la gente!»
«Frega a me», ribatté la mamma. «Non voglio che parlino di noi e di Gabriella, e...»
Papà mulinò il braccio sul tavolo e la ciotola andò in pezzi sul pavimento, schizzi rossi che si spandevano sulla pietra.
La mamma si alzò. «Ti devi controllare.»
«Perché?» Buttò la sedia all’indietro e afferrò i lati del tavolo con le dita forti e sottili, come se volesse ribaltarlo. «Per quale motivo?»
Scese il silenzio. La mamma mi guardò. «Esci dalla cucina», mi disse. E io obbedii. Sgattaiolai fuori e rimasi nel corridoio, in ascolto.
«Per quale motivo?» ripeté papà.
«Perché Gabriella avrà bisogno di noi.» Ci fu una pausa. «Quando tornerà a casa.»
«Non tornerà a casa.»
Silenzio. Mi appoggiai al muro e chiusi gli occhi. Papà aveva sempre detto che Gabriella non era scappata, che sarebbe tornata solo se la polizia l’avesse cercata con maggiore impegno. Perché aveva smesso di crederlo? Era colpa mia. Ero io ad avergli messo in testa brutti pensieri. E ora volevo andare da lui, posargli una mano sul braccio e dirgli che mi dispiaceva. Gabriella non era stata uccisa. La sua assenza era solo temporanea. Sarebbe tornata, se solo fossimo riusciti a trovarla. Se solo fossimo riusciti a convincerla.
Ma la mamma stava parlando, la sua voce, sommessa e concitata, gli stava dicendo di non perdere la speranza, di riprendere il controllo, che i poliziotti non avrebbero più cercato Gabriella se lui non avesse continuato a spingerli a provare. Ora era la mamma quella che prendeva in mano la situazione. Non papà. E mentre desideravo che lui aggiustasse le cose, che costruisse una macchina del tempo per riavvolgere gli eventi, per restituirci Gabriella, sapevo che non l’avrebbe mai fatto. Aveva perso il suo potere di sistemare tutto.
Fu l’ultima volta che sentii papà alzare la voce. Dopodiché, cominciò a rimanere in negozio per lunghe ore. Tornava a casa tardi e mangiava il cibo freddo rimasto sul tavolo. Mi sedevo vicino a lui, ma non mi guardava. Masticava finché non ne aveva avuto abbastanza e poi buttava il resto nella spazzatura.
Verso la fine di gennaio, si era messo a nevicare leggermente e papà aveva acceso il camino. Leggeva il giornale, o almeno lo teneva aperto. Il suo sguardo, in realtà, era inchiodato all’angolo opposto della stanza. La mamma lavorava a maglia. Per terra, vicino alla sua poltrona, c’era un gomitolo di lana blu: rimase impigliato, con un sobbalzo, e lei lo strattonò con impazienza.
Distesa sul tappeto, leggevo Leda e il cigno. “Un assalto improvviso: le grandi ali palpitanti.” Ripetevo i versi nella mia testa, senza capirli ma cercando comunque di memorizzarli. “Sulla ragazza che barcolla, le cosce accarezzate; dalle scure membrane, la nuca stretta nel becco.” Chiusi gli occhi, evocando la forma delle lettere e delle parole, ripetendo lo stesso verso ancora e ancora. Controllai per accertarmi di aver ricordato esattamente ogni parola e, quando finii, andai avanti. “Preme contro il suo petto un petto inerme, spossato.”
Ci fu un gemito basso. All’inizio pensai che fosse il vento nel camino, o il verso di un animale lì fuori.
La mamma smise di sferruzzare. «Albert», mormorò.
Papà aveva lasciato cadere il giornale. Si teneva la testa fra le mani e mi guardava dritto negli occhi, come se avessi fatto qualcosa di sconvolgente. Mi resi conto che avevo recitato ad alta voce i versi della poesia. E, in un istante, il loro significato aveva centrato il punto e capii cosa stava pensando mio padre. Mia sorella tenuta giù e assalita da un animale. Non un cigno ma un uomo. Lo stesso uomo che avevo immaginato come il diavolo.